Satire (Giovenale)/Satira III

Satira III
Umbrizio; ossia Roma è divenuta inabitabile

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Decimo Giunio Giovenale - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Raffaello Vescovi (1875)
Satira III
Umbrizio; ossia Roma è divenuta inabitabile
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SATIRA III


Umbrizio; ossia Roma è divenuta inabitabile.


    Sebben mi renda grullo la partenza
Del vecchio amico, tuttavia lo lodo
Ch’abbia deciso di fissar sua stanza
Nella deserta Cuma, e fare il dono
D’un nuovo cittadino alla Sibilla.1
Di Baia essa è la porta,2 amica spiaggia,
Grato ritiro: ed io Procida stessa
Alla Suburra preferisco.3 E invero
Qual sito sì meschino e spopolato
Videsi mai, che non sia molto peggio
Star sempre con paura or d’un incendio,
Ora che un tetto ti ruini addosso,

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Or che un poeta a recitarti venga
Suoi versi a mezzo agosto, e cento e mille
Altri casacci che si danno in questa
Crudelissima Roma? ― In quella dunque
Che sul barroccio assettansi le robe
Di casa, meco egli fermossi un poco
All’umida Capena4 e presso gli archi
Vetusti, ove solea recarsi Numa
Ai notturni colloqui della Ninfa:
Ed ora il sacro fonte, il bosco e il tempio
S’affittano a’ Giudei, ch’hanno soltanto
Per tutta masserizia una gavagna
E un po’ di fieno; perchè là non havvi
Un arboscel che al fisco il suo tributo
Non paghi: e fuor cacciate le Camene,
La selva è fatta asilo di pitocchi.5
D’Egeria discendemmo nella valle
E nelle grotte, dalle vere omai
Così diverse. Oh come venerando
Viepiù sarìa della Fontana il Nume,
Se d’erba verde un margine d’intorno
Chiudesse l’onde, e non facesser’onta

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Al vergin tufo i marmi! Ivi pertanto
Umbrizio a me: «Giacchè per l’arti oneste
Non c’è più luogo in Roma; e le fatiche
Premio non hanno; ed oggi più d’jeri
Scarsa è la roba, e più sarà domani;
Ho fermato il pensier di ritirarmi
Là dove le spossate ali depose
Dedalo; mentre il crin principia appena
Ad albeggiare, e la vecchiezza prima
Ancor non m’incurvò; mentre alla Parca
Riman pennecchio da filare, e posso
Andar colle mie gambe, ed alla destra
Appoggio ancor non dà nessun bastone.
O patria, addio! vivano in te gli Artori
E i Catuli;6 vi restino pur quelli
Che sanno far di nero bianco, e tutto
Loro riesce: fabbricare a cottimo;
Ricavar porti, fiumi e scolatoi;
Portare al rogo i morti, e farsi schiavi,
Vendendo il proprio capo alla subasta.
Zufolator di corni, un dì, costoro,

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Pei nostri Municipi e pei villaggi,
Andâr famosi, indiavolata orchestra
Facendo a saltatori e giocolieri.
Or essi, a spese lor, giuochi e spettacoli
Danno; e col fin d’ingrazionirsi il popolo,
Sol ch’egli diane un cenno pur col pollice,7
Ammazzan chicchessìa: poi di là reduci
Vanno a dir sopra alle latrine pubbliche:
Anzi ne fan di tutte: e che miracolo?
Non son essi di quelli che dagl’infimi
Solleva la fortuna ai gradi massimi,
Quando un poco di spasso si vuol prendere?
    Che debbo io fare in Roma? a dir bugìe
Non ci ho la gamba; nè lodar, nè chiedere
Un libraccio non so; d’astrologia
Non me n’intendo un fico; ad un figliuolo
Predir del padre suo la pronta morte
Non mi dà il cor; gl’entragni delle bòtte
Non ho studiato mai. Del cicisbeo
I messaggi e i regali all’altrui donna
Recar sappian pur gli altri; ai ladri il sacco

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Non terrò mai: perciò men vo soletto,
Come se fossi inutil corpo e monco
E accidentato. Oggi chi grazia acquista,
Se non chi messo a parte di maneggi
Occulti e colpe da non dirsi mai,
Combatte in cor fierissima battaglia?
A te obbligato non si tiene; e nulla
Ti dà, chiunque d’un segreto onesto
Ti fè la confidenza. A Verro caro
Fia sempre quegli che accusar può Verre
Quando vorrà. Tutta la rena d’oro,
Che dall’ombroso Tago in mar si volge,
Pagar non può quei sonni che tu perdi,
Se i doni accetti d’un potente amico,
Che debba sempre aver di te paura,
E tu di lui, dei doni, e di te stesso.8
    Or che razza di gente abbia gli amori
Dei nostri ricchi, e dalla quale il cielo
Mi scampi, ti dirò così alla lesta
E senza barbazzale. Io più non posso
Soffrir questa città tutta ingrecata,

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O Quiriti; sebben maggior lordura
Anco vi sia di questa feccia Achèa.
Già da un pezzo nel Tebro il sirio Oronte
Si scaricò, portandovi la lingua
E gli usi, e i flautisti, e le ricurve
Cetre, non men che i timpani natii,
E le putte che fan di sè mercato
Presso del circo. Ite colà voi tutti
Che andate pazzi per le forestiere
Lupatte9 dalla mitra variopinta.
    I tuoi rustici figli, o gran Quirino,
Si vestono alla greca;10 e degli atleti
Portan l’insegne vittoriose al collo,
Unti di cera e d’olio. All’Esquilino
E al colle che dai vimini si noma
Corron in frotta i Greci; abbandonando,
Questi, Sicion l’alpestre; Amidon, quegli;
Un altro, Tralle od Alabanda ; un altro,11
O Andro o Samo: e nelle gran famiglie
Si ficcano costoro; e in breve tempo
Ne diventano l’anima e i padroni.

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Svegliato ingegno, sfrontatezza audace,
Facile parlantina, che trabocca
Più di quella d’Iseo.12 Dimmi, che pensi
Che sia costui? chiedi e domanda; è tutto
Ciò che tu vuoi: Grammatico, Rettorico,
Pittore, Bagnajuolo, Mattematico,
Augure, Mago, Medico, Funambulo.
Tutto sa, tutto puote ogni grecuzzolo
Affamato: egli va, se tu gliel ordini,
Egli va fino in cielo. In fin dei conti,
Nè Sarmata, nè Mauro, nè Trace
Era colui che s’attaccò le penne,13
Ma nato in grembo della stessa Atene. -
    E questi porporati farabutti
Fuggir non debbo? e lascerò che primo
Firmi, ed ai pranzi s’abbia il miglior posto,
Un che dal vento fu sbalzato in Roma
Fra balle di susine e fichi secchi?
Ma dunque non si conta omai più nulla
L’aver fin dalla nascita bevuto
L’aure dell’Aventino, e di sabine
Bacche aver preso il nutrimento primo?

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    Ma v’è di peggio: in adular maestra
Questa gentaglia ognor leva alle stelle
Il bel visino ed il parlar sapiente
Del suo padrone, e sia pure un camorro
E un babbuasso. Se lungo e sottile
Ha il collo come un tisico, ei l’agguaglia
Alla cervice d’Ercole, che tiene
Per aria e strozza Anteo; se sbercia e stona
Con voce esile e peggio d’un galletto,
Che alla gallina sua becchi la cresta,
«Oh che voce!» egli grida, «oh maraviglia!»
Queste cose anche noi lodar possiamo,
Ma sol credesi a lui. Si può far meglio,
Quando in commedia o Taide, o una dama,
O la servetta Dori rappresenta
Tutta agghindata in guarnelletto bigio?14
Attor non già, ma vera donna sembra
Che parli: e tu diresti fin le parti
Sotto il bellico al tutto sgombre e pari,
E sol divise da piccola tacca.
A petto a lui non son più nulla Antioco,

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Emo lezioso, Stratocle, o Demetrio.
La Grecia è una nazion di commedianti.
Tu ridi? ed ei si sbraca dalle risa:15
Spandi una lagrimetta? ed egli frigna,
Ma non si duol; se chiedi una fiammata
D’autunno, ed egli indossa la pelliccia;
Se dici, «ho caldo», ei gronda di sudore.
Dunque tra noi ci corre: egli è più bravo,
Perchè può sempre e giorno e notte il viso
Atteggiar sull’altrui; far baciamani;
Lodar l’amico se ruttò con garbo;
Se pisciò dritto; se quando è sul vaso
Seduto a scranna, fe del cul trombetta.
    Del resto nulla è sacro ed al sicuro
Dalla libidin sua; non la padrona
Di casa; non la figlia ancora intatta;
Non lo sposo, se è giovane, nè il figlio
Finor pudico: e se non v’è di meglio,
Arrovescia sul letto anche la nonna.
E perchè ognun debba temerlo, vuole

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Saper della famiglia ogni segreto.
   E giacchè siamo a ragionar de’ Greci,
Entra per i ginnasi, e ascolta il fallo
D’un gran filosofone in cappamagna.16
Costui già vecchio stoico, cresciuto
Su quella riva là dove calaro
Le penne del gorgoneo cavallo,
Accusator si fece ed assassino
Di Barea, suo discepolo ed amico.
   Per un romano non è aria dove
Spadroneggiano i Difili, i Protogeni,
O gli Erimarchi:17 i quali ― ed è viziaccio
Comune a quella gente ― mai non fanno
A mezzo di un amico: ognun lo vuole
Tutto per sè. Laonde come prima
Nelle credule orecchie del padrone
Pure una goccia distillar poteo
Di quel suo tosco innato e paesano,
Io son cacciato fuori; ed ecco gli anni
Del mio lungo servizio andati in fumo.
In nessun luogo si valuta meno

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D’un cliente la perdita. Non serve
Illudersi: alla fin che gran servizio,
O qual merito è mai d’un pover’uomo,
Se innanzi giorno infilasi la toga,
E mena un po’ le gambe? Anco il Pretore,
Appena crede sveglie Albina e Modia,
Vedove senza eredi, «animo, trotta»,
Grida inquieto al littor, perchè il collega
A dar loro il buon dì non lo prevenga.18
   Qui dei patrizi il figlio a un ricco schiavo
Vedi dar la diritta, perch’ei spende
Quanto ha di paga un militar tribuno,
Per mugolare una o due volte in braccio
Di Calvina o Caziena:19 e tu se devi
Chiamar giù dal balcon Chione baldracca,
Quando in fiocchi ti va tanto a fagiuolo,
«Il sì e il no nel capo ti tenzona.20
   Cita in Roma, se vuoi, per testimone
Un uomo integro al par di lui, che diede
Ricetto al Nume Idèo;21 si faccia innanzi
Anche Numa, o quell’altro, che, di mezzo

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Alle fiamme del tempio, a salvamento
Trasse la Dea Minerva spaurita:22
«Quant’ha di patrimonio?» si domanda
Prima di tutto; «quanti servi tiene?
Quanti poderi ha egli? quali e quante
Ricche stoviglie adornano i suoi pranzi?»
Dei costumi da ultimo si cerca.
Quanti danari ognuno ha nello sgrigno,
Tanto credito egli ha. Sebben tu giuri
Per tutte l’are degli Dei nostrani
E forestier, così la pensa il mondo:
Che il povero dei fulmini e dei Numi
Si beffi; e i Numi non ne faccian caso.
   Dirò del come dannogli la baja
Tutti quanti, se ha sudicio o sdrucito
Il mantello; o la toga infrittellata;
O una scarpa che ride; o se le toppe,
Messe pur dianzi a rabberciarla un poco,
Lascian vedere i punti dello spago?
Ahi! nulla di più duro ha l’infelice

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Povertà che d’esporre alla berlina
Gli uomini. «Via», si grida, «e dai cuscini
Dei cavalieri s’alzi, se ha pudore,
Chi non possiede il censo che la legge
Richiede;23 e qui s’accomodino i figli
Del treccone cresciuti nel bordello:
Qui, tra i giovani eredi ed eleganti
Di gladiatori e schermitori, applauda
D’un banditor, che luccica, il rampollo».
Tal frutto diè la vanità d’Ottone24
Che ci distinse in classi. E quando mai
Per genero si volle uno che il censo
Non pareggi del suocero, e il corredo
Della fanciulla? Ereditò giammai
Un poveretto? o dagli Edili forse
È chiamato a consiglio? Avria dovuto
L’antica plebe dei Quiriti in massa
Fuggirsene lontano. Ovunque al merto,
Cui povertà fa ostacolo, riesce
Difficilmente di salire a galla,
Ma in Roma è quasi disperata impresa.

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Qui costa un occhio anche un meschino alloggio,
Dei servi il vitto, un occhio; una frugale
Cenetta, un occhio. Qui mangiare in piatti
Di terra un si vergogna: eppur sì a vile
Ciò non avrìa dei Marsi e dei Sabini
Seduto al desco. Là fôra contento
Pur d’un giubbon verdastro e grossolano.
   In gran parte d’Italia, se dobbiamo
Crederla verità, nessuno indossa
La toga che da morto.25 Se talvolta
A festeggiare un qualche dì solenne
Si raccolgon di frasche in un teatro;
E finalmente la già nota farsa
Ricomparisce sulle scene, e i rozzi
Fanciulletti nel grembo delle madri
Si rannicchian tremando, impauriti
Della boccaccia spalancata e truce
Delle pallide maschere; tu vedi
Gli abiti eguali; e somiglianti in tutto
Poveri e ricchi, eccettuando i sommi
Edili; che a mostrar d’onore un segno

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Vanno di bianche tonache vestiti.
Ma qui si vede nel vestire un lusso
Di là dal modo, e oltre il dover si sfarza,
Quindi si attinge nella borsa altrui.
Vizio comune a tutti, in povertade
Viver fastosamente. Ma che giova
Di farla tanto lunga? In Roma tutto,
Tutto si mette a prezzo. Quanto spendi,
Perchè t’ammetta Cosso al suo saluto,
E perchè Vejenton, senza dir motto,
Si degni di guardarti? Se qualcuno
Al cucco suo fa mietere i barbigi,
O lo zuccona; in casa le sfogliate,
Che si rivendon poi, piovono a josa.26
― «Gradisca! e questa torta alla sua grazia
Mi raccomandi».27 ― Così noi clienti
Dobbiam per forza ai servi ganimedi
Pagar tributi, e rinfrescar la borsa.
    Chi teme, o mai temè d’esser sepolto
Sottesso le ruine, o nella fresca
Preneste, ovvero in Bolsena, che giace

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Tra gioghi e boschi, o in Gabio semplicetta,
O di Tivoli aprica in sulla roccia?
Noi stiamo in tal città, che quasi tutta
Si regge sopra deboli puntelli:
Giacchè con questi ogni fattor tien ritte
Le case barcollanti; e ristuccando
Le vecchie crepe, «ora dormite pure
Fra due guanciali», ei dice: ma frattanto
Abbiam sempre la stiaccia sopra il capo.
Là viver dèssi ove non è paura
D’incendi nella notte o d’altri casi.
«Al fuoco! al fuoco!» grida, e mette in salvo
Le robe più minute Ucalegone.28
Già brucia il terzo piano, e tu nol sai;
Perocchè se il rimescolo incomincia
Dal pian terreno, ad essere arrostito
L’ultimo sarai tu, che dalle pioggie
Sol difendono i tegoli, lassuso
Dove i molli colombi fanno il nido.
    Di sua moglie più corto un letticciuolo,
E sei scodelle, e un misero boccale,

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D’un deschetto di pietra unico addobbo;
Ed un Chirone sotto il desco, in atto
Di sostenerne il peso; ed una vecchia
Zana, ripiena dei divini carmi
Dei Greci, cui rodevano a bell’agio
I topi ignorantelli: ecco di Codro
La masserizia. - «Nulla aveva Codro» -
È ver; ma questo nulla era il suo tutto:
E lo perdette il misero; e per colmo
Di sua disavventura il poveretto
Bruco e mendico stenderà la mano;
Ma non fia mai che lo sovvenga alcuno
O d’un tozzo, o d’un cencio, o d’un asilo.
Ma se va giù d’Asturico il palzzo,
Ecco le Dame sottosopra; in bruno
Tutta la nobilèa; mette il Pretore
Tanto di catenazzio al tribunale.
Allor piangiam di Roma la disgrazia,
Il fuoco allor malediciamo. Ei brucia
Sempre; e già corre chi marmi a lui dona,
E star vuole alle spese. Ignude e bianche
Statue da questa parte; da quell’altra

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Dei sommi Policleto ed Eufranore29
Qualche capolavoro: uno gli manda
Dei templi d’Asia gli antichi ornamenti;30
Uno, libri e scansìe; recagli un altro
Un busto di Minerva, e argento a sacca.
Così questo persian,31 ricco sfondato
E senza eredi, maggiormente e meglio
Si rifornisce: onde a ragion si crede
Ch’egli da sè le sue case incendiasse.
    Se puoi staccarti dai giuochi del circo;
E Sora e Fabrateria e Frosinone
T’offrono un bell’alloggio al prezzo istesso
Che quì ti costa l’annua pigione
D’una buja stanzuccia. Colà un orto,
E un pozzo poco fondo, ove attingendo
A mano e senza fune, a tuo bell’agio
L’umili pianticelle irrigherai.
Vivi del sarchio amante; e contadino
Del tuo, sia pur d’un orto, esso coltiva:
E ti darà di che fornir tu possa
A cento Pittagorici la mensa.

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In qualunque paese, in qualsivoglia
Deserto è qualche cosa il poter dire:
«Qui son padron; questo cantuccio è mio». -
    In Roma più d’un malato si muore
Di veglia: ed un s’ammala per cagione
Del vitto poco sano, che si ferma
Nell’infiammato stomaco e impietrisce.
Qual casa infatti che a pigion si prenda,
Permette il sonno? Per dormire in Roma
Ci vogliono gran denari, e gran palazzi:
Ecco il fonte dei mali. Il viavai
Dei carri per i vicoli a sghimbescio
E stretti; il tafferuglio dei rissosi
Mulattieri che danno in qualche intoppo,
Scoterebber dal sonno il dormiglione
Druso pur anco32 ed un vitel marino.
Se una faccenda lo richiama, il ricco,
Portato sulle spalle ben tarchiate
Dei servi, trotta via sopra le teste
Del volgo, che fa largo e si ritira.
E sì cammin facendo o legge, o scrive,
Ovver sonnacchia: perchè la lettiga

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Colle finestre chiuse alletta il sonno.
Pur giunge pria di noi; perchè la nostra
Fretta trattien la folla che precede;
E l’altra che ne seguita ci strizza
Col serra serra i fianchi: uno mi ammacca
Con una gomitata; uno mi cozza
Con un duro corrente; un altro in testa
Mi dà con una trave od un barile:
E tutto inzaccherato infino agli occhi,
Sì mi pesta il piedaccio d’un soldato,
Che nei diti mi ficca le bullette.
    Non vedi quanto fumo e quanta calca
Dove si dà la sportola? Son cento
I concorrenti, e ognun si porta dietro
La sua cucina.33 Corbulone appena
Potria gl’immensi vasi, e tante robe
Quante ne porta in capo un infelice
Servitoruccio che correndo in fretta
Ventila il fuoco; e se nol cansi lesto,
La paga il tuo giubbon, che fu pur dianzi
Rattoppato. Ecco viene un carromatto

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Con sopra un lungo abete che tentenna,
E un altro con un pino: ed ambedue
Barcollando minacciano la gente.
E se la sala, che sostiene il peso
Dei macigni ligustici, si rompe,
E rovescia sul capo ai viandanti
Quella montagna, che cosa rimane
Di quei meschini? Chi potrà le membra
O l’ossa ritrovarne? I corpi tutti
Stritolati spariron come un soffio.
Frattanto in casa di costor chi lava
Tranquillamente i piatti; chi ravviva
Il fuoco colla bocca; e chi ammannisce
L’olio, le stregghie e i panni per il bagno:
Tutti sono in faccende, ognun s’affretta
All’incombenza sua.34 Vana fatica!
Quei che s’aspetta, già novizio siede
Dell’Acheronte in riva, e raccapriccia
All’apparir del nero navalestro:
E il limaccioso stagno in sulla barca
Di traghettar non spera il meschinello,

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Perchè non reca in bocca la moneta
Da offrir pel suo passaggio. - Or poni mente
Ai molti rischi della notte, e mira
Come sono alti i tetti, e come un coccio,
Che piombi di lassù, faccia il cervello
Andare in acqua; e come un vaso fesso
O rotto, che giù venga da un balcone,
Battendo a forza sul selciato, un marchio
Vi lascia. Un gocciolone, uno scapato,
Che non provvede a nulla, ti diranno,
Se tu vai fuori a cena, e testamento
Prima non fai: poichè son tanti i casi
Di morte, quante sono in quella notte
Le vigili finestre ove tu passi:
Talchè dovrai far voti, e dir che avesti
Tre pan per coppia, se saran contenti
Di votarti sul capo un gran pitale.
    Se un briacone accattabrighe innanzi
Non spianò le costure a qualcheduno,
Non ha pace la notte; e come Achille,
Quando piangea l’amico,35 si rivoltola

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Or bocconi or supino. - «E in altro modo
Non trova sonno?» - No: certi cotali
Non chiudon occhio, se qualche baruffa
Prima non fanno. Ma sebben costui
Sia pel bollor degli anni e più del vino
Un vero rompicollo, oh! ben si guarda
Ti torcere un capello a cui fa scudo
Una purpurea toga ed un codazzo
Lunghissimo di servi, e molte torcie,
E lampane d'argento. E me, cui guida
Il chiaro della luna, o il lumicino
D'una candela, onde col dito io stesso
Il lucignolo regolo e risparmio,
Me vilipende. Ascolta della rissa
Miseranda il proemio; se una rissa
Può dirsi quella, dove tu le dài,
Ed io le busco. Ei ti si pianta innanzi
E «ferma» grida: ed obbedir t'è d'uopo.
Infatti che faresti con un matto
E più forte di te? «di dove vieni?»
Ti chiede: «ove sei stato a empirti l'epa
Di baccelli d'aceto? chi è, dimmi,

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Quel ciabattino che ti ha dato a pranzo
Foglie di porro, e mannerino allesso?
Ohè! non mi rispondi? o parla, o piglia
A conto questo calcio. Dove stai,
Birbaccione? in qual ghetto è il tuo recapito?» -36
O tu dica qualcosa, o zitto zitto
Te ne ritorni indietro, ell'è tutt'una:
Ti dan le paghe nello stesso modo:
Quind'irati ti fanno una comparsa.
Ecco qual'è la libertà del povero!
Battuto e pesto a furia di cazzotti
Prega e scongiura che gli sia permesso
Di riportare a casa qualche dente.
    Nè questo è il solo che temer tu dei:37
Poichè non manca chi vorrà spogliarti,
Non sì tosto le case sien serrate,
E la notte abbia messo i catenacci
Per ogni dove ai fondachi deserti
E silenziosi. Mentre la palude
Pontina, e la pineta Gallinaria38
Guardan le squadre armate; gli assassini

[p. 63 modifica]

Trottano tutti qua, come a pastura,
E stilettando fan le loro faccende.
Eppure in qual fucina, a quale incude
Non si batton catene? Una gran parte
Del ferro va in manette, talchè io temo
Che al vomer manchi, al sarchio ed alla marra.
O ben felici gli avi de' nostri avi!
O fortunata età, che vide in Roma,
Governata dai regni e dai tribuni
Una sola prigion bastare a tutti! -
    Altre e molte ragioni addur potrei;
Ma scalpitano i muli, e il sol declina
Verso il tramonto: è tempo di partire.
Già da un pezzo, schioccando colla frusta,
Mi chiama il vetturale. Dunque addio:
Ricordati d'Umbrizio; ed ogni volta
Che, per sciantarti un poco, alla diletta
Aquino tua39 da Roma il cammin prendi,
Me pur strappa da Cuma: ed alla vostra
Cerere Elvina40 ed a Diana anch'io

[p. 64 modifica]

M'inchinerò con teco: e ben calzato
Ti seguirò per quei gelidi campi:
E se di tanto onor mi credi degno,
Delle satire tue verrò in aiuto».

Note

  1. [p. 177 modifica]Presso Cuma era la grotta della più famosa tra le Sibille, detta perciò Sibilla Cumea.
  2. [p. 177 modifica]I Romani che si recavano a Baja per villeggiare o prender bagni, dovevano passare da Cuma: però questa è detta la porta di Baja.
  3. [p. 177 modifica]La Suburra era una delle vie più popolate di Roma, e correva dal gran Foro all’Esquilie.
  4. [p. 177 modifica]La porta Capena, oggi di S. Sebastiano, era ai piedi dell’Aventino, e metteva sulla via Appia. È detta umida, perchè lì vicino passava un antico acquedotto.
  5. [p. 177 modifica]Quando un editto di Domiziano cacciò di Roma gli Ebrei (e pare che a quel tempo si comprendessero sotto questo nome anche i Cristiani), fu dato loro il permesso di stabilirsi nella foresta d’Aricia, che era l’antico bosco della Ninfa Egeria. Viveano molto meschinamente, facendo il mestiere di mendicanti e d’indovini.
  6. [p. 177 modifica]Due tristi soggetti, che con male arti si erano arricchiti.
  7. [p. 177 modifica]Quando un gladiatore era ferito domandava grazia della vita a chi soprintendeva allo spettacolo, e questi consultava il popolo; il quale assentiva o dissentiva secondo che mostrava la mano col pollice piegato, o ritto e rivolto verso il gladiatore.
  8. [p. 177 modifica]I potenti non ti fanno doni che per averti complice alle loro iniquità. Una volta divenuto loro confidente ti[p. 178 modifica]temono, e vogliono toglierti di mezzo; e tu perdi prima la tranquillità, poi li stessi doni e la vita. Se ciò sia vero ben lo sa chi ha letto la storia delle due potentissime famiglie dei Borgia e dei Medici.
  9. [p. 178 modifica]I Romani chiamavano lupae le femmine da conio, che dipendevano da un lenone. Portavano in capo una mitra di più colori.
  10. [p. 178 modifica]Il latino dice: rusticus ille tuus sumit trechedipna da τρεχω curro e δειπνον coena, che era una veste di gala che i Greci indossavano quando recavansi a pranzo fuori. Io traduco: si vestono alla greca; perchè e il contesto e il vocabolo greco, preferito dal poeta, mostrano ch’egli ha qui specialmente voluto appuntare nei Romani la mania di vestire seconda l’usanza greca. E in questa opinione mi conferma anche l’altro vocabolo greco usato dal Nostro nel verso seguente: niciteria νικητήριον praemium victoriae, che era una piccola piastra o collana, che portavano al collo gli atleti vincitori; e che dava loro il diritto alle sportole imperiali.
  11. [p. 178 modifica]Tutte città della Grecia o dell’Asia minore.
  12. [p. 178 modifica]Noto oratore greco.
  13. [p. 178 modifica]Icaro.
  14. [p. 178 modifica]Le donne presso gli antichi non comparivano mai sul teatro, e le loro parti erano sostenute da uomini. A ciò giovava molto la maschera. Quelli che in questo luogo del testo leggono: Dorida nullo, invece di pullo cultam palliolo; non hanno badato alla contradizione che è tra cultam e nullo. Se culta vuol dire abbigliata con studio e ricercatezza, come può stare d’accordo con nullo che nega qualunque abbigliamento? — Dunque pullo è la sola e vera lezione.
  15. [p. 178 modifica]Quattro istrioni che avevano lasciato gran fama di sè.
  16. [p. 178 modifica]Costui è il filosofo Egnazio nativo di Tarso. Il fatto, a cui allude il poeta, è narrato da Tacito. Ann. lib. xvi. 32, 33.
  17. [p. 178 modifica]Adulatori e delatori divenuti potenti.
  18. [p. 178 modifica]Tutti i clienti e cattatori di eredità facevano a gara per essere i primi a salutare i loro patroni, appena che si svegliavano; e li stessi magistrati non rifuggivano da questa servilità.
  19. [p. 178 modifica]Due cortigiane, che si tenevano molto su.
  20. [p. 178 modifica]Le sgualdrine dei bordelli si mettevano in fiocchi, e stavano in mostra dinanzi alla porta, sedute sopra un’alta sedia, per accivettare meglio i passanti.
  21. [p. 178 modifica]Scipione Nasica, che per la sua integrità fu scelto dal senato a tenere in casa sua la Dea Cibele, portata da [p. 179 modifica]Pessinunto sotto la forma di una pietra bruta, finchè non le si fosse fabbricato un tempio.
  22. [p. 179 modifica]L. Cecilio Metello, tre volte console; appiccatosi il fuoco al tempio di Vesta, si slanciò in mezzo alle fiamme per salvarne il Palladio.
  23. [p. 179 modifica]I primi quattordici gradini dei teatri erano riservati ai cavalieri, o a quelli che n’avevano il censo, che era di 400,000 sesterzi di rendita. Un articolo della legge diceva che giammai un gladiatore o un maestro d’arme non avrebbero occupato uno di quei posti. Ma le leggi, diceva bene quel savio, son fatte soltanto pei poveri; e sono come le tele di ragno, dove le mosche restano impigliate, e le aquile vi passano attraverso come nulla fosse.
  24. [p. 179 modifica]Non l’imperatore di questo nome, ma L. Roscio Ottone tribuno della plebe, che l’anno di Roma 685 fece passare una legge, per cui ad ogni ceto di persone era assegnato il suo posto nel gran teatro. Vell. Paterc. lib. 2.
  25. [p. 179 modifica]Nota che nelle altre città d’Italia si andava più alla buona, nè v’era tanta etichetta. Si vede che anche i Gentili aveano la pietosa costumanza di mandare i morti alla sepoltura vestiti dei panni più onorevoli.
  26. [p. 179 modifica]Quando alcuno in Roma cominciava a tosarsi la barba e i capelli, volea l’usanza che fosse regalato da tutti gli amici e clienti di casa; o fosse uno della famiglia, o uno dei servi più in grazia al padrone, come qui accenna il poeta.
  27. [p. 179 modifica]Il testo ha: accipe, et illud fermentum tibi habe. Mi pare che qui Giovenale, come è suo stile, faccia brevemente interrompere ad Umbrizio il suo discorso, per riferire le parole, colle quali il cliente accompagna la sua strenna. Tutti gl’interpetri da me veduti, e non sono pochi, non l’intendono a questo modo, ma riferiscono quelle parole allo stesso Umbrizio, e spiegano così: ascolta anche questa, e prendine argomento di sdegnarti. Perchè tale interpretazione fosse ragionevole, bisognerebbe che nelle parole che seguono Umbrizio parlasse di altre cose, diverse dalle precedenti; ma invece la materia del suo discorso non cambia, ed egli non fa che tirare la conclusione di ciò che ha detto innanzi. Fermentum, che tutti intendono per movimento d’ira, ha qui, seocondo me, il significato suo proprio di lievito; e le parole di Giovenale vengono in sostanza a dir così: accetta questo regalo, ed esso siami presso di te come un lievito, un eccitamento ad impetrarmi nuovi favori dal tuo padrone. Questa spiegazione, o io m’inganno, se non è la sola vera, è[p. 180 modifica]certamente la più naturale. E se una dotta autorità può renderla più accettabile, dirò che essa fu approvata da quell’uomo di ottime lettere, e tanto benemerito degli studii classici, che è Enrico Bindi, oggi Arcivescovo di Siena: al quale, ne’ miei dubbi, fui sempre solito ricorrere con grande stima e affetto di antico scolare.
  28. [p. 180 modifica]Allusione manifesta a quel di Virgilio: «jam proximus ardet Ucalegon». En. II. 311.
  29. [p. 180 modifica]Due scultori greci di gran fama.
  30. [p. 180 modifica]Quando i Romani entrarono colle armi vittoriose in Asia, la spogliarono d’ogni oggetto più prezioso: e molte famiglie conservavano ancora ai tempi di Giovenale quelle antiche rarità.
  31. [p. 180 modifica]Non che questo Asturico fosse veramente un persiano; ma perchè i Persiani erano proverbiali per le loro ricchezze e il gran lusso.
  32. [p. 180 modifica]Claudio Druso Cesare, del quale Svetonio in Claud. 8. dice che dormiva molto e così sodo, che neppure lo scoppio d’un tuono poteva svegliarlo. Quanto ai vitelli marini o foche V. Plin. nat. IX. 13.
  33. [p. 180 modifica]La distribuzione della sportola si faceva in danaro, in generi, ed anco in vivande calde. Qui si parla di quest’ultima; a pigliar la quale andavano tutti ben muniti di cassarole e d’un tamburlano con fuoco, dove le si mettevano, perchè si mantenessero calde. Questo Corbulone, o fosse un atleta molto gagliardo, o quel Domizio Corbulone, generale sotto Nerone e saccheggiatore dell’Armenia, che Tacito dice: «corpore ingens» nulla importa per l’intelligenza di questo passo.
  34. [p. 180 modifica]Tutto questo lavorìo, perchè si aspetta quel misero a pranzo. Prima di mettersi a tavola era uso di bagnarsi, ungersi e stregghiarsi ben bene.
  35. [p. 180 modifica]Nota la piacevolezza di confrontare questi eroi da taverna ad Achille. Come la morte dell’amico Patroclo togliesse i sonni ad Achille, sentilo da questi versi dell’Iliade tradotta dal Monti; lib. xxiv:

         .... in queste ricordanze
    Dirottamente lagrimava, ed ora
    Giacea sui fianchi, or prono ed or supino:
    Poi di repente in piè balzato errava
    Mesto sul lido.

  36. [p. 180 modifica]Gli Ebrei erano riguardati in Roma con grandissimo disprezzo, e nessun romano poteva entrare nelle loro[p. 181 modifica]sinagoghe senza coprirsi d’ignominia. Dopo ciò si capirà il veleno della domanda del nostro letichino.
  37. [p. 181 modifica]Questa scena del briacone insolente mi pare così comica, allegra e briosa da fare invidia, non che ad Orazio, a Plauto e a Luciano. Eppure si è avuto il coraggio di dire che Giovenale tinge tutto di nero, e non spiana mai le rughe della sua fronte aggrottata! Tanto può anche nei letterati lo spirito di partito.
  38. [p. 181 modifica]Tanto le Paludi Pontine, quanto questa Pineta o selva Gallinaria, posta in quel di Cuma, tra le foci del Volturno e del Literno, diveniano spesso nidi di briganti e assassini. 39 Aquino era la patria di Giovenale. 40 Cerere e Diana erano molto in venerazione presso gli abitanti di Aquino; forse perchè dediti principalmente all’agricoltura e alla caccia. Da una iscrizione, disseppellita pochi anni sono in quei dintorni, si sa che a Cerere aveva inalzato un tempietto il nostro poeta. L’aggiunto di Elvina dato a questa Dea, chi vuole che le venisse da una fontana di tal nome, che scaturiva presso del suo tempio; chi dal biondo (helvino) colore delle spighe.
  39. [p. 181 modifica]Aquino era la patria di Giovenale.
  40. [p. 181 modifica]Cerere e Diana erano molto in venerazione presso gli abitanti di Aquino; forse perchè dediti principalmente all’agricoltura e alla caccia. Da una iscrizione, disseppellita pochi anni sono in quei dintorni, si sa che a Cerere aveva inalzato un tempietto il nostro poeta. L’aggiunto di Elvina dato a questa Dea, chi vuole che le venisse da una fontana di tal nome, che scaturiva presso del suo tempio; chi dal biondo (helvino) colore delle spighe.