Morbosità/Capo VI
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CAPO VI.
Si sentiva la voce della contessa Diana di Spa che parlava nella camera da pranzo, andando, venendo, dando gli ordini netti, precisi, colla sua bella voce insinuante, senza durezza, ma che non ammetteva replica.
— Suonerete alle sei precise, vi raccomando il pesce, è il piatto prediletto della marchesa.
— Com’è buona vostra moglie! disse Elena a Gastone, poi si abbandonò un poco sul divano, mandando piccole boccate di fumo dalla sigaretta.
Se ne stavano tutti e due vicino nella sala attigua, Gastone sulla fumeuse ricamata da sua moglie, molto tempo prima, da fidanzati; Elena sdraiata sul divano bassissimo di cuoio russo.
Negli angoli crescevano rigogliose quattro piante di tabacco, un contrabbando aristocratico di molto buon gusto, Elena stendeva il piedino fuori dell’abito, Gastone la guardava intensamente, provando certi slanci d’amore che gli annebbiavano il cervello, come il fumo del sigaro gli annebbiava gli occhi; la guardava attraverso a quel vapore grigiastro, bella, giovane nel succinto abito di lana che la modellava, coi capelli un po’ cadenti sul collo, gli occhi grandi, languidi, voluttuosi. — Istintivamente s’avvicinò a lei che fingeva di non guardarlo:
— Elena mi ami?
— Ti amo, rispose lei in fretta, ergendosi a sedere colle guancie accese, un sorriso che errava indefinito, carezzevole.....
Diana compariva sulla porta ignorante, sorridente:
— Elena t’ho assegnato il posto fra mio marito e Raul, ti contenti?
— Grazie, cara, e tu in mezzo a chi?
— Io rispose Diana arrossendo, colla voce un po’ soffocata, fra il duca San Pietro e la baronessa. Scomparve, ma Elena la richiamò:
— Ed il conte Sangui dove?
— Ah! il conte, fra la baronessa e Raul.
— Che te ne importa di Sangui, Elena? fece Gastone.
— Nulla.
— Il conte Sangui è uno stupido.....
— Perchè?
— Perchè lo è. Dammi la tua piccola mano, com’è bianca liscia, cara, Elena mia, Elena bella, Elena fata!
La marchesa si alzò d’un tratto gettando il mozzicone di sigaretta:
— Convenite, Gastone, che siamo molto volgari......
— Perchè dite questo, Elena?
— Ma via abbiate almeno il coraggio della colpa. Voialtri uomini siete molto vigliacchi, fate il male mentre non volete vederlo, noi invece guardiamo in faccia la colpa, ne vediamo tutta la profondità e vi ci gettiamo a capofitto, senza calcolo, senza sotterfugio, perchè ci trascina il cuore, la fantasia, che so io.... perchè è destino.
— Il cuore hai detto, Elena?
— Sì il cuore, ma non diciamo sciocchezze, quando un uomo ragionevole fa una cosa, il rimorso è perlomeno inutile se non è assurdo.
— Hai ragione, m’ami Elena? neh che mi ami? vedi senza di te la vita sarebbe insopportabile, tu sei tutto.....
— Tutto? e Diana?
— Elena, Elena, non parlarmi di lei, sei tu che cerco, sei tu che amo, sei tu che sogno, che vedo dovunque come una larva benigna, sei tu che mi svegli dal mio torpore d’uomo inutile a sè ed agli altri, che mi abbellisci la via spinosa, vuota, col tuo sorriso dolcissimo, sei tu, tu sola...
Tacquero un momento. La voce di Diana si sentiva ad intervalli, ma più lontana.
La contessa di Spa nell’ansia dell’aspettazione andava e veniva col cuore in tumulto, le mani che tremavano.
Si metteva nella poltrona del suo piccolo spogliatoio, poi si alzava di scatto, si puntava un fiore nei capelli e lo toglieva per rimetterlo. — Attilio non arrivava ancora! era assurdo, lui così in confidenza. Nel salone bisbigliavano il servo ed il conte Sangui; Diana ne sentiva la voce, e non si moveva: non c’era di che per quel povero conte così meschino nel suo eterno abito nero attillato, la gardenia all’occhiello, la faccia rasa azzurrognola al mento, gli occhietti neri, un po’ insignificanti quando si toglieva le lenti.
Il servo annunciò alla signora:
— La baronessa Torre, il conte Sangui.
— Nessun altro? disse Diana in fretta instintivamente.
— Nessuno, contessa.
Diana entrò nella sala contratta col volto pallido, un sorriso forzato sulle labbra tirate da un tremito nervoso.
— Sono in ritardo, contessa? disse la Torre gettando uno sguardo fuggevole sul vecchio Sangui, che la guardava.
— No, no, aspettiamo ancora Raul ed il duca.
— E la marchesa Elena?
— La faccio chiamare. Premè il bottone del campanello; la porta si aperse subito.
— Il duca San Pietro, il conte Raul.
Come vide il duca, Diana si rasserenò; una leggera ondata di sangue le salì alle guancie.
Elena entrò in fretta, bella, fresca, sorridente portando seco uno sprazzo di luce, dietro Gastone preoccupato, guardandola fissa con insistenza.
Tutte quelle persone, giovani, vecchie, belle, simpatiche od insignificanti si sorridevano a fior di labbro, avente ciascuna nel profondo del cuore la propria cura insistente e segreta, l’amore, la passione, la civetteria, l’ambizione tutte le più delicate e tenui sfumature del sentimento e del pensiero, circolavano in quel gruppo illuminato fiocamente dalla pallida luce che filtrava dalle tende abbassate.
Gli occhi grandi e lucenti di Raul guardavano lontano, là dov’era il palazzo bianco di casa Santelmo, dove la sua dolce, soave Costanza, passava le ore, le giornate, il tempo lungo ad intessere il più alto, il più sublime romanzo d’amore. La sua mente d’uomo forte ed innamorato correva, volava, colla vorticosa rapidità del desiderio; si vedeva a Roma, nell’immensa sala di Montecitorio e Costanza era là nella tribuna in faccia a lui, saettandolo coi suoi sguardi infocati d’amore; si vedeva grande, degno di lei, superiore, e sognava il premio da cogliere sulle labbra profumate di Costanza, e tremava d’amore e di desiderio. Era il sogno dell’avvenire.
Il duca San Pietro isolato nel suo cantuccio lontano dalla contessa Diana, la guardava con l’intensità morbosa dell’amore vero, profondo, ed infelice.
Ora l’amava davvero come non l’aveva amata mai cinque anni prima, come non si credeva capace di sentir l’amore. La sua anima bella già tanto travagliata dalla lenta strage che il tempo, le sue passioni, le circostanze avevano operato, ritornava giovane, saltava a piè pari il cumulo dei ricordi, delle piccole meschinità, delle grandi follie della sua turbinosa vita di scapolo, e veniva tutta pura, tutta nuova a posarsi accanto a quella di lei, che non l’aveva mai dimenticato, che aveva conservato il fuoco sacro con la tranquilla, la rassegnata costanza delle donne innamorate davvero che aspettano, pregano e sperano.
Attilio si riposava vicino a lei, sotto a quello sguardo sereno emanante l’amore, vibrante l’amore, languente d’amore.
Il ciclone orrendo del dolore aveva turbinato attorno a lei, l’aveva travolta, avviluppata, sbattuta; la fanciulla era uscita donna da questo turbinío pazzo di circostanze, le sue illusioni erano infrante, il suo amore intatto. - Attilio vedeva tutto, un’immensa tenerissima riconoscenza per quella donna lo afferrava, la sua forza d’amore si centuplicava rapidamente, ad ogni istante, traboccava in due grosse lagrime che spuntavangli sugli occhi, e che nessuno vedeva nella penombra del salone.
Diana sorridendo lottava, la sua eterna, tremenda, inesorabile lotta del dovere coll’amare, mentre un sottile, ma tenace, filo d’odio, la legava a suo marito.
Vedeva Elena ebbra, dimentica nel trionfo della sua grande vanità soddisfatta, dimentica nel grande fuoco di passione che le ardeva negli occhi, e non capiva nulla. Solo una ripugnanza istintiva, un ribrezzo inesplicabile l’assaliva per Gastone, per quell’uomo fatuo, nullo, che non l’aveva mai amata.
Elena dal canto suo guardava l’amica con un profondo senso di compassione sprezzante; dalla sua tana fangosa non riusciva a distinguere il fuoco purissimo, continuo d’amore che bruciava l’animo di Diana.
Quelle tre creature si guardavano, si odiavano, si sprezzavano, senza comprendersi, senza studiarsi......
Gli spiriti erano un pochino eccitati; il conte Sangui rosso, cogli occhi lucenti, mormorava piano delle frasi fatte, rettoriche alla baronessa Torre che rideva.
Elena teneva una mano in grembo e di sotto la tovaglia stringeva quella di Gastone.
Si parlavano pianissimo a fior di labbra, scambiandosi certi sguardi lunghi, infuocati, che solo il duca vedeva. I quattro o cinque piatti di cristallo pieni di frutta, brillavano spezzandosi agli angoli cesellati, in raggi luminosi come grossi diamanti. Le pesche rosee, vellutate, carnose, avevano un profumo speciale, strano, indefinito, che si mesceva a quelle delle pere butirro, gialle, liscie, delle fragole rosse di serra, dei frutti conservati nello spirito, e nel rhum. L’ambiente della sala si scaldava man mano; Diana sorridente, bellissima parlava al conte Raul e guardava Attilio San Pietro. Stavano vicinissimi tutti e due, sfiorandosi di tanto in tanto, trasalendo; il duca faceva una domanda vuota, a cui Diana dava una risposta assurda. Si parlò di Roma; Raul si ricacciò nel suo sogno d’ambizione e di amore. Elena se ne accorse, lo guardò un momento fisso, fisso, turbandolo poi ad un tratto:
— Verrò ad applaudirvi, conte Raul.
— Dove marchesa?
— Alla capitale, alla Camera non capite?
— Vi ringrazio, fece Raul alteramente, sorridendo un poco.
— E voi, conte di Spa, continuò cacciando i dentini nella pera ch’egli aveva mondata per lei, e lasciandovi un’impronta sanguigna, voi non avete ambizione?
— Io non ne ho più, rispose Gastone, impallidendo lievemente.
— Peccato! e voi duca?
Diana arrossì; lo sguardo sfacciato di Elena la sconcertava, chinò un poco la testa, Attilio rispose tranquillamente:
— Io, marchesa, ho una grande ambizione!
— Montecitorio anche voi?
— No, marchesa.
— Bah! l’amore allora.
Tacquero tutti ad un tratto. La voce d’Elena vibrò un momento nell’aria, stridula, beffarda; una corrente di trepidazione circolava negli animi e sui volti smarriti improvvisamente, senza motivo, come se una gran verità, un gran segreto si fosse svelato ad un tratto, rudemente.
— La gloria! disse la baronessa Torre, riprendendo il discorso spezzato.
— Oh! baronessa, la gloria è inutile, fece Attilio sorridendo.
— Perchè, duca? chiese Raul.
— Perchè è fumo.
Diana si abbassò un momento verso di lui:
— Tutto è fumo, l’ambizione, la gloria, l’amore... e la vita, continuò pianissimo.
— La memoria no, Diana.
Si guardarono un momento, scambiando una vivissima corrente di passione che faceva tremare le loro pupille intente.
Elena si alzò improvvisamente tenendo alto il calice lungo, sottile, come una fuxia non bene sbocciata:
— Al vostro segreto, duca! disse gettando all’aria la sua risata gaia, pastosa, irresistibile.
— Al vostro spirito, marchesa! rispose Attilio drizzandosi.....
— Al vostro avvenire, Raul! e Diana gli sorrise dolce, dolce, facendogli quell’augurio.
— Al vostro passato! fece piano Raul che aveva compreso.
Erano tutti dritti ora; la baronessa cozzava il bicchiere con Elena; Sangui cacciava in mezzo il suo, ridendo, chiamando per carità un posticino fra due creature così belle. La Torre che si lasciava amare tranquillamente da lui, fingeva di aversene a male.
Raul pensava, con una profonda compassione dipinta sul volto. Diana e Attilio urtavano i bicchieri sfiorandosi le dita. Gastone guardava Elena, soffriva il vino, la gelosia, ed era pallidissimo.
Guardavano le stelle scintillanti a milioni sul cielo cupo. Una pace solenne s’innalzava da quella campagna vasta, silente; una pace di landa abbandonata. Diana spiccava tutta bianca, comparendo più alta in quell’oscurità del balcone, più sottile, vaporosa.
L’aria le sollevava i capelli, e le rinfrescava il volto infuocato; dentro la sala vedeva la baronessa Torre che scherzava con Sangui e con Raul, Elena era seduta al pianoforte e non si vedeva di lei che il colino della pettinatura, che di tanto in tanto scompariva quando abbassava la testa, Gastone doveva esserle vicino, ma non si vedeva.
Tutti e due sopraffatti dall’ombra, dal silenzio, dall’amore tremavano. Attilio aveva posato la mano sul largo parapetto di marmo, molto vicino a quella di Diana; istintivamente parlavano pianissimo, un susurro indistinto.....
— Quanto tempo, Diana, quante cose, quanta vita precipitata nel nulla, senza uno scopo, senza una meta, con un rimpianto assiduo, straziante, un desiderio vivissimo, solo, unico, il vostro..... il tuo perdono.
Ditemi che mi avete perdonato, ditemi che la vostra vita chiassosa, spensierata, non affogò il ricordo del vostro amico, di Attilio, di lui che amavate tanto, che vi adorava e che impazzì un momento pagando così cara la sua aberrazione, parlate Diana. Oh! i vostri capelli che consumai a furia di baci, laggiù nel Giappone, quando voi bella, ricca, invidiata, attraversavate il mondo, spargendo attorno a voi tanti desideri, tante passioni, tante ammirazioni devote; oh! Diana, Diana, come ho sofferto, lasciate che ve lo dica, lo so è un insulto la mia povera, schietta dichiarazione, voi che siete buona perdonatemi, tante cose avete a perdonarmi.....
La contessa ebbra, dimentica, accarezzata da quelle parole ardenti, da quell’alito caldo che le sfiorava i capelli, sorrideva, sorrideva intensamente come se un lembo di Paradiso le si fosse aperto dinanzi. Le loro mani avvinte si stringevano convulsamente, comunicandosi un fluido vivissimo d’amore. Diana vedeva l’abisso e ne scandagliava i recessi con una voluttà morbosa. Lo attraversava colla sicurezza malferma del funambolo, schivando la perdizione, ma gettandosi spensieratamente nel pericolo grande.
Attilio continuava, sempre più infervorandosi, colla voce rotta, appassionata: Vedete laggiù quel grande ammasso nero? sono i colli, là v’è San Miniato, là vi è la pace, l’oblío.
— Oh! i morti, disse Diana lievissimamente, i morti sono lieti, essi riposano all’ombra, essi pensano, essi pregano.
I pensieri, dei morti sono soavi come le viole che nascono sulle tombe, io invidio i morti, Attilio, invidio la calma, l’oblío, il nulla.
— Tutto è fumo, anche la vita, l’avete detto voi, Diana.....
— Il perdono no, Attilio.....
— Oh! come vi ringrazio......
Diana entrò nella sala.
La Torre parlava allora vivamente con Gastone di Spa, mentre Elena s’abbandonava con tutta la potenza della sua bella voce in una romanza di Rotoli:
..... Deh! fammi coi tuoi baci, |
Gastone sussultò, Elena lo trascinava, dovunque fosse lo incatenava con quel fascino misterioso, delirante della donna di spirito che vuole innamorare, che vuole piacere, che s’attacca alla passione, che ne attraversa le ebbrezze senza che il cuore sia tocco. Elena non amava già più Gastone, ma lo voleva, lo rubava, lo faceva impazzire, godendosi nel giuoco, inebbriandosi di vanità, assaporando la sua vittoria.
Raul disegnava sopra l’album di Diana, istintivamente aveva copiato Elena che cantava e gli restava accanto.
Quando ella ridendo gli tolse l’album, chinandosi su di lui, ringraziandolo troppo piano, Raul così serio, così innamorato, arrossì come un giovanotto di vent’anni.