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Gli occhi grandi e lucenti di Raul guardavano lontano, là dov’era il palazzo bianco di casa Santelmo, dove la sua dolce, soave Costanza, passava le ore, le giornate, il tempo lungo ad intessere il più alto, il più sublime romanzo d’amore. La sua mente d’uomo forte ed innamorato correva, volava, colla vorticosa rapidità del desiderio; si vedeva a Roma, nell’immensa sala di Montecitorio e Costanza era là nella tribuna in faccia a lui, saettandolo coi suoi sguardi infocati d’amore; si vedeva grande, degno di lei, superiore, e sognava il premio da cogliere sulle labbra profumate di Costanza, e tremava d’amore e di desiderio. Era il sogno dell’avvenire.

Il duca San Pietro isolato nel suo cantuccio lontano dalla contessa Diana, la guardava con l’intensità morbosa dell’amore vero, profondo, ed infelice.

Ora l’amava davvero come non l’aveva amata mai cinque anni prima, come non si credeva capace di sentir l’amore. La sua anima bella già tanto travagliata dalla lenta strage che il tempo, le sue passioni, le circostanze avevano operato, ritornava giovane, saltava a piè pari il cumulo dei ricordi, delle piccole meschinità, delle grandi follie della sua turbinosa vita di scapolo, e veniva tutta pura, tutta nuova a posarsi accanto a quella di lei, che non l’aveva mai dimenticato, che aveva conservato il fuoco sacro con la tranquilla, la rassegnata costanza delle donne innamorate davvero che aspettano, pregano e sperano.

Attilio si riposava vicino a lei, sotto a quello