Morbosità/Capo V
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CAPO V.
Parlavano tutte insieme, soverchiandosi, interrompendosi vivacemente, mozzando le frasi con motti arguti, osservazioni fine, intime, crudelmente spiritose. In quel salotto azzurro di raso trapunto, troppo grande per essere uno spogliatoio, in quel lieve ambiente di veloutine, il sole entrava a stento fra i cortinaggi doppi di tullo e di seta, e si andava a posare sopra un mobile piccolo di legno biondo, ombreggiandolo lievemente d’azzurro, facendo luccicare un poco le placche d’argento delle serrature, dando all’aria una nebulosità di cielo, ed una profonda, acre voluttà terrena.
Diana era sdrajata mollemente in un angolo, sopra una dormeuse bassa, elastica, arrovesciata all’indietro in una ricchezza di panneggiamenti; un piccolo nido ricco, fatto per uno solo, e creato apposta per starvi in due, vicini, sognanti, innamorati.
Lei era tutta sola in una vestaglia di merletti d’un giallo antico, uno di quegli abiti lunghi, larghi, fluttuanti, che celano le forme castamente, rivelandole a tratti d’improvviso, con una provocazione velata, irritante. La faccia pallida della donna bellissima si riposava in una immobilità di statua, senza un angolo delle labbra piegato lievemente al sorriso, senza un bagliore negli occhi grandi e profondi, senza l’ombra del pensiero su quella fronte.
Non si vedeva a pensare.
Accanto a lei la baronessa Torre animata, quasi bella, sotto il cappellino di paglia d’oro, stretta nel busto di étamine nera, con una pioggia di merletti sul petto meschino che la completavano, eretta sulla vita piccolissima di serpentello.
La marchesina Gisanti, la nemica della principessa russa, tutta accesa dal desiderio di nuocere, col veleno sulle labbra, pronta al sarcasmo sanguinante, se ne stava in mezzo al divano lungo, tutta pallida coll’aria triste e patita di fanciulla vecchia.
Poi la marchesa Castellaccio una bellezza bionda, ma ardente, dai grandi occhi glauchi che facevano girare tante teste e battere tanti cuori; se ne stava tranquilla conscia della sua bellezza, sorridendo vagamente a tutti, a tutto, sempre.
Gettava delle frasi brevi, incisive, rovinava un’amica con una reticenza, un sorriso, ripetendo in certo modo una supposizione, poi rimaneva calma, a raccogliere le risatine delle uditrici, come se nulla fosse.
Elena entrò dopo, vestita d’una maglia di seta rossa, sanguigna, che le calzava giustamente il busto bellissimo, perfetto, i capelli rialzati che scoprivano la nuca bianca, delicata, la gonnella di merletto nero; sul petto un gelsomino si perdeva, appassiva, ingialliva, corroso da un fuoco di passione, languido.....
Parlavano della marchesa Roccabruna una bellezza spagnuola, vedova di un ministro, che innamorava tutti senza pietà, senza eccezione, sempre sorridendo, incidendo il ferro nella piaga colla fermezza cruda di un professore d’anatomia, al solo scopo di conoscere le passioni umane, di sviscerarle, di studiarle, per suo uso e consumo, senza vantarsene, abbandonando il paziente tranquillamente, dopo averlo mezzo ammazzato di passione per lei, concedendogli la mano bianca da baciare.
La Gisanti un momento era stata zitta, assorta, pensando profondamente il modo d’ingrandire un fatto qualunque sulla Roccabruna. La sua faccia lunga e giallognola aveva delle piccole contrazioni nervose accanto agli occhi dove una sottilissima, precoce retina di rughe compariva; il naso sottile, acuto, aveva delle trasparenze di porcellana.
— Suo cugino Arturo Gandi s’è rotta la carriera per lei, disse la Castellaccio lasciando passare le parole fra la bocca schiusa al sorriso tranquillo di donna bella.
— Oh! Arturo, scoppiò subito la Gisanti, afferrando la frase, un fanciullo ammalato, un sognatore fallito; s’è innamorato prima dei capelli della marchesa, e ne ha fatto una poesia, poi degli occhi, e ne ha creato un inno, poi del corpo bellissimo e ne ha fatto un poema, poi della sua civetteria ed ha fatto una sciocchezza, l’ha seguíta a Madrid, e si è rovinato.
Le signore risero della maldicente e della maldicenza. — Diana strappò coi denti un filo della trina del suo fazzoletto; dalla finestra vedeva Gastone che parlava vivamente col duca Attilio. San Pietro ancora a cavallo, si salutavano. Ella da pallida si fece livida. Attilio era venuto, l’aveva seguíta, era lì a pochi passi; colla seconda acutissima vista che dà l’amore, scorgeva i movimenti della bocca, capiva ciò che diceva, lo intuiva.
Non voleva perdere un minuto della sua felicità, istintivamente fece atto d’alzarsi, risedette subito, non poteva con un atto scortese licenziare tutte quelle signore ch’erano riunite nel suo salotto, disposte a fermarsi ancora, feroci nel loro proposito di sgretolarsi a vicenda la riputazione, indecise ciascuna pel proprio conto di uscire le prime per non restare a discrezione delle altre. Guardava colla febbre dell’ansia tutte quelle dame che gareggiavano mirabilmente col servidorame dell’anticamera, che scendevano, che si abbassavano, che si sporcavano in discorsi volgari, in indiscrezioni grossolane, in bassezze vergognose; che entravano nella casa altrui, esaminando tutto e tutti, dal palafreniere al banchiere incaricato degli affari.
Elena Malaspina l’ospite di casa Spa guardava, vedeva, capiva tutto. S’avvicinò a Diana:
— Vuoi che scendiamo in giardino?
Diana afferrò quella proposta con gioia convulsa:
— Dillo a queste signore, se vogliono.....
Ma la Torre aveva sentito:
— Andiamo, andiamo, l’ora è splendida, avete ragione marchesa.
La sera nel giardino rimasero soli Gastone di Spa discorrendo a mezza voce con Elena, che si distraeva di tanto in tanto a guardare l’orizzonte rossastro, col peso dell’ombra che le si posava su tutta la persona abbattendola, dandole un indefinito senso di tristezza.
Diana sedette in un angolo lontano, sopraffatta da una ondata di felicità acre, intensissima, da un desiderio pazzo di rimanersene a lungo inerte, sola, pensando; sentendo un bisogno invincibile, puerile, di ripetere centinaia di volte: Attilio, Attilio, Attilio.....
Era venuta. Lei dimenticava la sua catena, s’abbandonava al suo sogno divino, all’incanto misterioso d’averlo dappresso. Guardava intensamente il grande viale lungo, oscuro, che Attilio aveva attraversato a cavallo; aspettava di vederlo ricomparire colla stessa calma soavissima d’una fanciulla fidanzata; scordava la lotta, il pericolo; amava come aveva fatto sempre nel profondo del cuore. La sua passione s’allargava tranquillamente come un gran fiume che trabocca, ed inonda, e distrugge senza muggire, ma infiltrandosi pacatamente nelle campagne, ingrossando, abbattendo d’improvviso, imponente, terribile.
Elena aveva strappato un cactus e lo esaminava:
— Conte, di chi è quella casa là bianca che s’erge fra le piante come un fiore?
— È casa Santelmo, colà l’amore sorride.
— Ancora?
— Sempre.
La marchesa alzò il capo, guardandolo stranamente. Chissà! rispose piano.
— Voi, Elena, non credete all’amore, non credete alla passione, non credete a nulla.....
— V’ingannate, Gastone, credo moltissimo.
— A tutto?
— A quasi tutto l’incredibile.
— Strano!
E come l’aria fresca del crepuscolo entrava scherzando, e scuotendo le glicinie in fiore, Elena stette aspirando la brezza, bella, strana, superba. sotto i raggi blandi del sole morente......
Vi amo, Elena, disse lui fremendo, serrandole le mani, Elena rispondete, vi amo, vi amo.....
La donna bellissima non tremò, non si commosse, lo guardò intensamente, a lungo, poi senza esitare, rispose piano: Grazie.
Diana non vedeva; un punto bianco s’avvanzava dall’estremità del viale, il cavallo di Attilio.
La donna gentile si alzò, e col suo bel passo da dea venne incontro al duca. Stettero un momento a guardarsi, muti, soffocati, scambiando rapidissimamente dai grandi occhi lucenti, le frasi più ardenti, più folli di passione; poi Attilio si chinò lievemente sulla sella:
— Ricordi, Diana? era un tramonto come questo, l’aria mite del mare ti scuoteva i riccioli bruni, e ci portava ondate di profumi acri e soavi, ricordi, mia celeste Diana, tu chinasti il capo come un esile fiore ed io ti baciai in fronte..... la voce del duca si spegneva in un soffio, la notte scendeva lentamente avviluppando quelle due ombre palpitanti, l’incanto d’un cielo intensamente azzurro sorrideva all’amore immenso di quell’uomo e di quella donna, che si amavano troppo, che soffrivano troppo, e che sapevano lottare.....
L’indomani all’alba la marchesa Elena appoggiata al davanzale della finestra, coi capelli disciolti, gli occhi nuotanti in un bagliore pieno di fremiti, non provava un rimorso d’essere l’amante del conte Gastone di Spa, il marito della sua amica.....