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Gli spiriti erano un pochino eccitati; il conte Sangui rosso, cogli occhi lucenti, mormorava piano delle frasi fatte, rettoriche alla baronessa Torre che rideva.

Elena teneva una mano in grembo e di sotto la tovaglia stringeva quella di Gastone.

Si parlavano pianissimo a fior di labbra, scambiandosi certi sguardi lunghi, infuocati, che solo il duca vedeva. I quattro o cinque piatti di cristallo pieni di frutta, brillavano spezzandosi agli angoli cesellati, in raggi luminosi come grossi diamanti. Le pesche rosee, vellutate, carnose, avevano un profumo speciale, strano, indefinito, che si mesceva a quelle delle pere butirro, gialle, liscie, delle fragole rosse di serra, dei frutti conservati nello spirito, e nel rhum. L’ambiente della sala si scaldava man mano; Diana sorridente, bellissima parlava al conte Raul e guardava Attilio San Pietro. Stavano vicinissimi tutti e due, sfiorandosi di tanto in tanto, trasalendo; il duca faceva una domanda vuota, a cui Diana dava una risposta assurda. Si parlò di Roma; Raul si ricacciò nel suo sogno d’ambizione e di amore. Elena se ne accorse, lo guardò un momento fisso, fisso, turbandolo poi ad un tratto:

— Verrò ad applaudirvi, conte Raul.

— Dove marchesa?

— Alla capitale, alla Camera non capite?

— Vi ringrazio, fece Raul alteramente, sorridendo un poco.

— E voi, conte di Spa, continuò cacciando i dentini nella pera ch’egli aveva mondata per lei,