Morbosità/Capo IV
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CAPO IV.
La giornata era calda; solo negli angoli molto ombrosi del parco, e vicino alla fontana un’arietta sottile scuoteva le foglie, increspava l’acqua alla superficie, lievemente, e pareva accarezzasse con giri voluttuosi la Venere di marmo bianco, che sorgeva dal bacino nell’attitudine pudica d’una bagnante che, sorpresa dai fiori, dal zeffiro, dal cielo, si voglia schermire.
Vi era una coppia di cigni, ma non così bianchi, nè così intelligenti come quello del Lohengrin, che fuggivano starnazzando le ali appena si avvicinava qualcuno per guardarli.
Una pace soave, serena, occupava quell’angolo di terra ove la vegetazione più rara e più ricca cresceva rigogliosa, superba, completa, nella sua magnificenza. Un’immensa quantità di fiori belli, tutti preziosi, tutti fini, si guardavano sdegnosamente, confrontandosi, come facevano fra di loro le dame gentili, incaricate di strapparli dal gambo e posarli fra le treccie o sul petto.
Quel castello e quel parco erano un acquisto fatto dal conte di Spa, appena era giunto a Firenze; ivi Diana s’era ritirata, felice di trovarsi in un angolo tranquillo, lungi dal tumulto, sola coi suoi pensieri ed i suoi affetti, abbandonata ai sogni della sua fantasia, alla cura insistente del suo cuore ammalato.
Riceveva poche visite e moltissime lettere della madre che, con quel tatto tutto speciale dell’amore, cercava di lenire in lei una piaga che non conosceva, ma di cui sentiva istintivamente ammalata sua figlia.
Diana rispondeva con sei, otto, pagine del suo caratterino elegante, finissimo, ma di Attilio non le aveva detto nulla, neppure che l’avesse ritrovata. Era il primo segreto che facesse a sua madre, e ne provava rimorso, ma non sentiva la forza di rivelarglielo, pel timore ch’ella la richiamasse, la consigliasse, la strappasse dall’orlo dell’abisso. Diana si compiaceva di guardare nel baratro che le stava dinanzi, godeva di quella vertigine; tanto sapeva che non l’avrebbe fatta cadere. Voleva assaporare l’ebbrezza divina di aver Attilio dappresso, di sapere che l’amava, di sentirselo a dire; godeva della battaglia ch’essa combatteva lasciando lembi di cuore ad ogni colpo, striscie di sangue e di lagrime ad ogni passo.
Se aveva da morire, voleva morire da eroe, sorridendo al nemico, cadendo sulla breccia superba della sua innocenza, e del suo martirio.
L’amore era grande, infinito; il sacrificio doveva essere immenso; lei sentiva la forza d’una santa, lo zelo fervente d’un apostolo, il coraggio d’un disperato. Quell’uomo era la sua vita, e lei voleva vivere, s’era accumulata in sè stessa tutta quella passione, e voleva costringerla in fondo all’anima, voleva schiacciarla col dovere infrangibile, inesorabile. Ma la passione più forte ritornava a bruciarla, a dilaniarla, a reclamare la sua parte di sole; l’assaliva come un demonio, ed ella torceva, straziava il suo povero cuore; colla febbre nel cervello, nel petto, nel sangue, gridava inesorabile: No.
Era quella l’espiazione di un peccato che non aveva fatto, della colpa soave e santa dell’amore! Ma allontanarsi da Attilio non poteva, sarebbe morta. Quando la notte era buja e senza stelle, Diana s’affacciava al balcone, figgeva gli occhi in quel trionfo del nero, e la testa ardente di pensiero si riposava accarezzata dall’aria; quella pace solenne e misteriosa la sollevava, le pareva di poter scendere meglio nel bujo dell’anima sua affitta e poteva piangere. Ma in quella lotta il suo amore e la sua coscienza si purificavano come il diamante, stando insieme senza toccarsi, senza macchiarsi, senza che un sol colpo potesse guastare o l’uno o l’altro.
Elena si alzò un momento, scosse l’abito bianco, leggero, a pisellini azzurri, ornato da fiocchetti di nastro azzurro al gomito ove finiva la manica e sulla spalla sinistra.
Aspirò un poco l’aria a pieni polmoni, abbassando e sollevando il petto regolarmente.
— Si gode una pace di Paradiso qui, mia cara Diana, io mi riposo, mi par di trovarmi in un cantuccio ignorato, ove il mondo, gli uomini sciocchi e cattivi, non abbiano ancora potuto penetrare; ove la malignità, la bassezza, la volgarità della gente si sia fermata alla porta. Tutto è bello, tutto è puro, tutto è incantevole!
— Sono lieta che ti trovi bene, magari lo aduli un po’, il nostro povero parco, rispose Diana, continuando a ricamare, colla testa china, il corpo eretto, il braccio lievemente inarcato a tirare il punto.
Gastone di Spa era un poco lontano, seduto sulla balaustrata di marmo bianco del parterre. Guardava giù, distrattamente, Firenze che appariva luminosa in quel trionfo di sole, e che in distanza pareva una città dipinta, un po’ confusamente ad acquerello.
Era in un fantastico abito da caccia di velluto rigato color marrone, un cappello alto a punta, con la solita piuma di fagiano, senza fucile, senza carniere, col cane accovacciato ai piedi; un bel bracco dalle orecchie lunghe, cadenti, dallo sguardo intelligente, umano.
Forse sotto a quelle punture di sole, in quell’ambiente soave, il cervello di Gastone si svegliava, le sue passioni si scuotevano, lo mordevano; il pensiero si rianimava, sentiva di essere giovane, ricco, ambizioso; desiderava follemente la vita, la vita vera, completa; sentiva che nella sua vita fatua di gran signore, gli mancava il gran tutto; l’amore. A Diana non pensava, non l’aveva amata mai, eppoi Diana era sua moglie, l’amore con lei sarebbe stato volgare, borghese, inutile. Non avrebbe scosso le sue fibre d’uomo ammalato di noja, non gli avrebbe dato l’ebbrezza del proibito, dello strano, dell’avventuroso.
In questi tardi sogni di fanciullo ventenne, che venivano a stuzzicare potentemente l’uomo di trentacinque anni, vissuto e sciupato, una figura appariva insistente, assidua, morbosa; Elena.
Quella donna bellissima, fredda, vana, che non sentiva l’amore, che non lo intendeva, che lo accettava senza discuterlo; quella donna a cui il mondo concedeva tutto, senza chiedere nulla, aveva sconvolto la mente ed il cuore, di Gastone di Spa.
Egli vedeva colla coda degli occhi il gruppo bianco formato dalle due donne, ma non si voltava per indolenza, per timidezza, per una stravagante soggezione d’innamorato, e non poteva distinguere a quella distanza, e così di traverso, se quello che vedeva era l’abito salie di sua moglie, o quello di mussola di donna Elena. - Le due amiche continuavano a chiacchierare placidamente, lentamente; Elena faceva una domanda, a cui Diana rispondeva piano, macchinalmente, sempre continuando a lavorare, e senza interrompere il filo intimo dei suoi pensieri.
— Guarda, Diana, Firenze laggiù nel pulviscolo d’oro, così grande e bianca, sembra il mare.
— Con un po’ di fantasia, cara.
— Giusto, tutte le cose vanno ornate dalla fantasia, almeno un poco per parer belle.
Non senti la mancanza del mare, tu abituata a Napoli?
— Infatti la sento, rispose Diana chinando ancor più la testa, perchè non era vero.
— Hai fatto viaggi lunghi sul mare tu?
— Così, da Napoli a Palermo.
— E soffrivi?
— Nulla. Il mare m’inebbria, m’affascina, m’attrae.
— Hai ragione, il mare è grande, infinito, divino; è un amante misterioso che non si può tradire, lo si ama sempre, tutta la vita. E, senti, tuo marito divide questi tuoi entusiasmi pel bello?
— Non so, non conosco mio marito abbastanza.
— Strano! ribattè la marchesa.
Poi tacque, arrovesciò la testa socchiudendo gli occhi, trastullandosi coi fiocchetti di nastro. Un colpo d’aria le sollevò i capelli sulla fronte.
— Viene il vento, mormorò pianissimo.
— Ti bacia, susurrò Diana.
Quelle due creature, ugualmente belle, ma diversamente belle, ugualmente delicate, ma stranamente contrarie di principi, di affetti, di aspirazioni, si fondevano, si completavano in quel momento, sedute dappresso, sotto il sole che allentava in quell’ora l’ardore dei suoi raggi, in mezzo ad una verzura ricca, coltivata, fra le campanule ed il muschio che scendevano a sfiorar loro i capelli.
Diana si alzò d’un tratto.
Un servo era apparso sul limitare del viale annunziando una visita.
— Vieni, Elena?
— Ti prego, dispensami, io resto quì.
— Come vuoi.
La svelta ed alta persona di Diana si allontanò nell’ombra verde. — Elena si scosse, si drizzò, portò le mani alla bocca come per fare un portavoce, e chiamò forte: Conte Gastone!
Il conte che l’aveva vista a rimaner sola e s’avvicinava, accelerò il passo:
— Mia cara marchesa venivo appunto da voi.
— Che cosa avete fatto in tutto questo tempo, conte?
— Io? nulla; cioè ho sognato.
— Di bello?
— Di splendido, d’amore.
— Ah! l’amore. Sedette di nuovo, tutta lunga, colle braccia prosciolte, le mani che sfioravano il suolo, ed in cui il sangue affluendo, arrossiva un poco, gonfiando le vene azzurre; un piedino lungo, arcuato, calzato d’una scarpina bassa, elegante, era rimasta fuori dell’abito, un piccolo tratto di calza azzurra di seta si vedeva.
— Avete sonno, marchesa, devo andarmene?
— No, no, rimanete è lo stesso.
— Volete sognare anche voi?
— Io non sogno mai, ve l’ho detto, vi ricordate quella sera in principio..... cioè non è a voi. Elena rise vagamente, continuando a guardarlo cogli occhi grandi e luminosi; un raggio di sole entrando fra i rami batteva sopra il diamante d’un orecchino, che si spezzava in sprazzi luminosi ed andava a ripercuotersi sull’albero a cui Elena appoggiava il capo, in piccole macchie lucenti e tremule che parevano morsicature di fuoco.
Gastone sentiva uno strano benessere accanto a lei, così bella, così cara, così ingenuamente civettuola, abbandonata su quel sedile rustico, coi capelli che baciavano la scorza del grosso tiglio; sentiva un profumo indefinito che pareva di fiori, di ylang-ylang un misto soave e snervante.
Le prese una mano, Elena non la ritirò, non resistette, chiuse gli occhi, lanciandogli ancora un ultimo sguardo, lungo, assassino. Lui non pensò più a nulla, incoraggiato da quell’abbandono di lei, portò la mano alle labbra lentamente, trepidando, inebbriato.....
— Conte Gastone, siete pazzo, fece lei ad un tratto, sollevandosi, fulminandolo, rossa d’ira e di vanità.
Gastone le abbandonò la mano, pallido, esterrefatto, spaventato da quello scoppio improvviso. Elena ritornò subito calma, sparì il rossore, il lampo degli occhi si spense:
— Siete un fanciullo, conte, disse con voce mite, dolcissima, un grande fanciullo!
Lui le stava dappresso, soffocato dalla lotta, del suo cuore, soffocato dalla passione, col sangue che gli batteva i polsi, colla sete ardente d’un sorriso di lei, pazzo come un giovanetto innamorato la prima volta, allucinato da quella figura alta, bianca, svelta, che pareva un gran fiore staccato da una pianta colossale e strana.
— Ditemi ancora che sono un pazzo, Elena, parlate ancora, che vi senta, che vi senta.
— Conte siete ammalato, disse lei adagio, è assurdo ciò che dite..... perchè non amate vostra moglie?
— Diana?
— Sì Diana, vi pare strano?
— Non è strano, è impossibile.
— Perchè?
— Perchè.
— Fate male, se Diana non fosse vostra moglie le fareste la corte.
— Non è vero.
— Siatene certo; siete un uomo debole, Gastone, un sognatore in ritardo. Nulla di più nocivo che le illusioni che non vengono a tempo; pare impossibile come per un cuore sciupato, che abbia passato per l’ardente gamma delle passioni umane, anche le più brutte, venga un momento che si risente giovane, vergine, assetato di quell’eterna e divina menzogna che è l’amore, e lo cerchi sempre quando e dove lo dovrebbe fuggire, L’ignoto v’attrae, ancora una volta, siete un fanciullo!
— Come parlate dell’amore, Elena.....
— Voi non mi amate, zitto non m’interrompete, e non dovete soffrire ch’io parli francamente se mi fate una dichiarazione, vi avverto, io rido: se piangete vi presterò il mio fazzoletto, ma non fatelo perchè è ancora più ridicolo, se mi scrivete vi risponderò forse, ma non sulla carta piccola e profumata, vi risponderò una lettera assurda, piena di sciocchezze, e non vi parlerò d’amore, se mi date dei fiori li lascierò appassire in un bicchiere, non sul cuore.
.... Tacque. Nella brutalità del suo discorso v’era una tinta d’amarezza che cercava tutte le fibre del conte. Nella mente esaltata di lui quel carattere si addolciva, le asperità di quelle parole grossolanamente vere, prendevano la forma d’uno sconforto interessante, l’ostacolo lo stimolava, lo instigava; quell’uomo abituato a scoprire le più basse, le supreme menzogne dell’amore, non voleva credere, non voleva vedere quel carattere che si rivelava con tanta verità nell’essenza, ma con tanto artifizio, tanto apparato di seduzione, di sconforto, di rimpianto verso il bello che negava.
Elena stette zitta a lungo, colla fronte corrugata leggermente sotto l’azione del pensiero che ferveva insistente, assiduo, morboso. Farsi amare sempre da chiunque, da tutti, soddisfare quella vanità che la divorava, accarezzare quell’orgoglio che l’ardeva, regnare bella, superba, invidiata, sempre.
— Gastone avete amata molto Adriana, quella ballerina della Pergola? chiese ad un tratto, senza guardarlo.
— No.
— Menzogna.
— No.
— Perchè negate adesso quell’amore che allora giuravate eterno? è una bassezza ed un’ingratitudine.
— Non era amore quello, era....
— Passione, fece lei interrompendolo.
— No, no, era un delirio, una febbre, era un sogno, era nulla....
— Bugia. Perchè cercate di ingannarvi? dimenticare non vuol dire non aver pensato, non aver sentito, l’oblio è la conseguenza quasi naturale dei grandi amori di voialtri uomini, forse adesso cominciate a dimenticare, siete strano e cattivo, Gastone.
— Ma, Elena, perchè parlarmi di lei?
— Potrei parlarvi d’altre a cui avete detto le stesse parole, ma è lei quella che forse pensate ancora, che sognate, di cui il vostro cuore è pieno..... Ditemi era bella?
— Non so, non ricordo, siete bella voi, Elena...
— Io? era bionda?
— Voi siete bruna come la notte, e bianca come l’alba.
— Era soave?
— Voi siete dolce come una carezza......
— E voi siete un sognatore, Gastone, rispondetemi com’era Adriana?
— Volete proprio saperlo?
— Lo voglio. L’ho vista tante volte, sul palco era splendida, nel salotto poteva essere o brutta o divina, com’era, com’era?
La gelosia era nella voce d’Elena che s’abbassava in un fremito. Gastone piegò un ginocchio, trascinato, affascinato, pazzo.
Diana appariva all’estremità del viale.
— Gastone alzatevi, disse Elena rizzandosi dinanzi a lui.
— Perdonami, Elena, t’ho lasciata per tanto per tempo, una visita lunga..... disse Diana senza veder nulla.
— Non importa, cara, avevo tuo marito, abbiamo parlato a lungo.
— Di che cosa? fece Diana scherzando.
— D’amore, rispose Elena franca, sfacciatamente, senza arrossire.
Gastone fremette, Diana rise.