Capo I

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Morbosità Capo II

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MORBOSITÀ


CAPO I.

S’erano fermate le due victorie una accanto all’altra, sul fianco della strada all’ombra dei tigli. Prima ne scese la marchesa Elena Malaspina, vestita di nero, colla mantellina coperta di jais il cappellino piccolo appena appoggiato sulla testa, con una grossa piuma di struzzo nera in principio e che finiva in bianco alla punta, passando per tutte le gradazioni del bigio; i guanti lunghi, uno tutto abbottonato, l’altro arrovesciato metà sulla mano. Camminava svelta, ergendosi in tutta la maestà della sua opulente bellezza, senza curarsi menomamente del duca San Pietro, che era sceso appena dopo di lei, e le veniva dietro per raggiungerla.

— Volete scappare, marchesa, disse lui mettendosele accanto. [p. 6 modifica]

— No, voglio sgranchirmi le gambe, sono stanca di stare in carrozza. È stata una persecuzione la vostra, duca, perchè?

— Sapevo che sareste venuta quì, e sono venuto anch’io, ho fatto male?

— Nè male, nè bene.

— Oh! come?

— Potevate passarmi avanti e poi aspettarmi quì, se avevate tanta galanteria...

— Vi dava noia la mia vettura dietro la vostra?

— Molto, vedete che sono schietta.

— Passate per di quì, è un’ombra deliziosa.

— È troppo nero, è un labirinto, ho paura di perdermi.

— Non vi perderete, marchesa, ciò potrebbe accadere a me.

— Siete distratto voi, duca?

— Qualche volta, e voi?

— Io no, mai.

— Lo dicevo bene, tutt’al più arrischieremo di sorprendere qualche coppia romantica, che non ha paura di perdersi......

— Ed una grande volontà di trovarsi..... ho capito, duca, è una malattia come un’altra.

— La chiamate malattia.... è curioso....

— Niente affatto, l’amore è una febbre, e la febbre va guarita col chinino.

— E se non basta?

— Allora s’adopera l’antipirina,

— Siete orribile, marchesa.

— Nella faccia? ripetè lei sorridendo.

— No, nel cuore. [p. 7 modifica]

Ella tacque, fermandosi sui due piedi e disegnando coll’ombrellino dei cerchiolini concentrici che finivano con un punto che era un buco nella terra e così di seguito, distrattamente, cancellando, rifacendo quei geroglifici, che forse nella sua mente volevano dire qualche cosa.

— Andate in campagna, marchesa?

— Adesso? no, è troppo presto, è appena la primavera.

— Voi non l’amate la primavera.

— Io no. E una stagione inutile, sbiadita.

— Sbiadita! la calunniate, marchesa.

— La paragonerei ad una fanciulla già bellissima, ma molto ingenua, non ancora donna. - Per me amo il bel sole di luglio pieno e cocente, che mette delle punture nella carne, e un abbarbaglio negli occhi; amo la vita vera, scoppiante, divina nella sua manifestazione. La primavera è una strana insidiatrice nella sua incertezza, ha troppi fiori, troppi fremiti, troppi susurri. Mi mandate via, duca?

— Sì, per perseguitarvi.

— Sarebbe inutile, perseguitatemi quì.

— Me lo permettete?

— Non ve lo impedisco.

— Siete dura, Elena. Guardate che bel cespuglio di rose.

— Sono le rose della Madonna.

— Come della Madonna?

— Non lo sapete? è un’idea gentile delle nostre contadine che offrono quelle prime rose alla Vergine, sono fiori delicati con molto profumo è poche spine. [p. 8 modifica]

— Come le gioie della giovinezza,

— Avete ragione, duca, come quelle. Cioè io non ho goduto neppur quelle.

— Non lo dite, Elena, voi cogliete fiori ovunque passate.

— Certo, conosco molti uomini innamorati dei miei milioni, del mio palazzo, delle mie carrozze, e persino delle mie cameriere.... che mi gettano i fiori in grembo a manate, ma credete, hanno le spine che pungono troppo.

— Non tutti, marchesa, voi siete amata per voi, per la vostra bellezza.

— Dunque s’io non fossi bella come voi dite che sono?

— Sareste amata egualmente pel vostro spirito.

— E pel mio cuore no?

— Pel vostro cuore no.

Il sole entrava tra i rami dei tigli in fiore, e l’aria era satura di profumi; il duca Attilio San Pietro camminava vicino ad Elena dando di tanto in tanto dei piccoli colpi col piede all’abito di lei.

Però non si guardavano, Elena aveva la faccia volta dall’altra parte, e guardava la collina delicatamente verde, col suo sguardo profondo, nero, che aveva la durezza luccicante dell’acciaio. — Aveva una figura greca, regolarissima, fin troppo severa che la faceva assomigliare ad una Minerva. Sorrideva con una piccola tinta d’ironia che affascinava.

Lui, il duca Attilio era bello, d’una bellezza non tanta regolare, ma simpatica per la vivacità degli occhi che animavano tutta la figura, pel [p. 9 modifica]sorriso furbo, un pochino sprezzante, per un non so che di superbo che rilevava l’uomo d’ingegno — Erano arrivati ad una rotonda che guardava l’Arno, la marchesa si fermò un momento fissando intensamente una barca che attraversava.

— Sono quelli che trasportano la sabbia, nulla d’interessante, marchesa, disse Attilio, ridendo.

— Chi lo sa, tutte le cose hanno il loro lato interessante, ed anche commovente, Ritornò a tacere e a guardare. Il duca le aveva preso l’ombrellino e glielo teneva aperto sulla testa.

— Non state ad incomodarvi, io non soffro il sole, l’amo anzi.

— Sarà forse l’unica cosa che amate, beato lui!

— Mah! a me pare di amare molte cose, ma a modo mio, senza tanta squisitezza d’analisi, senza tanta varietà di tinte, io amo fortemente tutto ciò che mi piace, ch’è bello, grande, forte e giusto. Vedete, duca, io amo sopratutto il vero.

— Allora, marchesa, nel mondo dovrete limitarvi ad amare la vostra sola bellezza.

— Grazie dell’adulazione, ma non mi avete compreso o non mi avete voluto comprendere. Io intendo per vero tutto ciò che esiste, che si sente, che non si può negare, perchè è attaccato a voi e vi scuote, e vi fa soffrire e gioire realmente e non è creato dalla fantasia. Io non intendo le sentimentalità aere, vaporose, le melanconie senza ragione, le lagrime versate perchè il sole tramonta ed indora le nuvole, perchè una rosa appassisce sfogliandosi sotto i raggi del sole, perchè..... [p. 10 modifica]

— Perchè voi non intendete la poesia del cuore e della mente, l’interruppe Attilio.

— Eh? cosa dite duca?

— Dico che voi siete una donna singolare.

— In che modo?

— Mah! non saprei spiegarmi bene, siete una contraddizione del fisico col morale, del cervello col cuore....

— Credete, duca, è convenzionale che il cuore sia tanto staccato dal cervello, mentre egli non fa che ripercuoterne le sensazioni come uno specchio.

— Siete materialista, Elena?

— Un poco, per forza, cioè no, sono ragionevole, disse la marchesa tranquillamente, come faceva sempre quando voleva schiacciare qualcuno sotto il verismo ch’era nel suo carattere. Poi riprese senza dare il tempo ad Attilio di rispondere:

— Venite al mio the questa sera vi presenterò alla contessa Di Spa ed al conte Gastone Di Spa suo marito; In contessa è una donna perfetta, vedrete.

— Non mi preme di conoscerla.

— Oh perchè?

— Perchè le perfezioni sono monotone.

— Non sempre, duca, e nelle donne mai.

Il duca s’inchinò cortesemente assentendo:

— Verrò, marchesa, e sarò felicissimo di trovare voi sola a costo di.....

— Di che cosa? interruppe Elena sorridendo un poco.

— ..... di essere battuto come sempre. [p. 11 modifica]

— Da me?

— Da voi.

Rifecero il viale adagio senza parlare. Elena strappando le foglioline verdi delle siepi e masticandolo coi suoi bei dentini bianchi e distruggitori, Attilio San Pietro guardando attorno nelle sue lenti cerchiate d’oro.

— Dunque posso aspettarvi, duca?

— Mi aspetterete davvero, marchesa?

— Vi avverto, non più di cinque minuti, è il tempo che uso dedicare a tutti i miei amici quando li aspetto.

— Grazie, marchesa, è già troppo, disse Attilio un po’ comicamente, verrò.

Elena salì leggera nella sua victoria senza aspettare l’aiuto del duca.


Era un appartamento ampio, arioso, severamente elegante. La marchesa Elena lo avea fatto addobbare con un gusto squisito, ma un pochino pesante: i mobili del salone erano grandi, dalle forme riccamente rotonde e piene, i seggioloni di damasco pareva volessero accogliere nelle loro braccia qualche bella matrona, colossale nell’ampia crinoline dei tempi di Luigi XVI.

Erano le scolture massiccie fatte nel mogano, sulle consolide splendeva il marmo verde di Carrara così cupo e così signorile; non vi erano i piccoli tavolini di lacca, così graziosi fatti apposta per posarvi un album, per mettervi un giornale, per scrivervi una letterina rosea da diritti, coi guanti. [p. 12 modifica]

Non le piccole statuine di terracotta, di bronzo, di alabastro che rappresentano tante belle figurine artistiche tentatrici, non i nonnulla, costosi e civettuoli dei salotti delle signore; quei piccoli oggetti che parodiano l’ambiente alla camera, che la riscaldino colla loro presenza, che ne riempiano di vita gli angoli riposti.

Non l’album particolare, intimo, su cui tutti possono scrivere un verso, mettere una data, accollare un fiore, Quell’album che è l’amico confidente e discreto che racchiude tanti pensieri, tanto stranezze, e tanti ricordi!

Vi era quello grosso dei ritratti rilegato in marocchino bruno a fermagli d’argento bronzato, tutte le riviste illustrato dei migliori quadri del Salon di Parigi, capolavori d’incisione; un servizio da birra in cristallo cesellato, un lavoro artistico d’immenso valore.

Poi gli specchi alti, nitidi nelle larghe cornici dorate, parecchi quadri d’autori, un Van-Dick ed un Murillo accanto al ritratto ad olio quasi a grandezza naturale della marchesa Elena, vestita di bianco, scollata, col diadema di perle, bella e superba nella sua perfezione di statua viva. In faccia a lei era il ritratto in eguale grandezza di suo marito, il marchese Alfonso Andrea Malaspina.

Il gentiluomo la guardava dalla sua cornice coi grandi occhi dolci e profondi, come aveva sempre fatto in vita, la guardava con un profondo senso d’amore ed un grande sconforto.

Per lui quella donna era stata la sfinge [p. 13 modifica]adorabile e muta, e lui aveva tanto cercato di penetrare in quell’anima chiusa agli affetti gentili e soavi dell’amore, alle tenerezze della donna; e non era riescito mai ad intendere nulla. A volte Elena aveva per lui degli slanci subitanei e selvaggi che stordivano quell’anima mite, a volte aveva delle freddezze crudeli, assidue, sprezzanti, che lo ammalavano di dolore.

Egli aveva consumato così gli ultimi anni di una giovinezza appassita, e poi era morto etico a Bordighera, chiamando e benedicendo Elena, che faceva i bagni a Nizza in una palazzina che egli le aveva comperato.


La contessa Diana di Spa, in veste da camera i capelli mal pettinati, e con l’aria stanca di chi ha passato la notte in ferrovia, s’aggirava nel suo appartamentino d’albergo, provando quel vago senso di solitudine che ci sorprende sempre fuori di casa. - Apriva gli armadi che mandavano un odore di umidiccio, che attaccava alla gola per la lunga abitudine di star chiusi e vuoti. Le serrature dei cassettoni non chiudevano bene e Diana non sapeva trovare un posto alla sua roba; tutti quei mobili lucidi, signorili, avevano un non so che d’estraneo che l’attristava, i grandi seggioloni che offrivano le lor braccia arrotondate, avevano qualche cosa della cortesia mercenaria del padrone d’albergo.

Diana abituata nel suo salottino stile barocco, ove passava le lunghe ore sdraiata sulla dormeuse [p. 14 modifica]col ricamo in mano, ove tutti i mobili, i gingilli delle caminiere, parevano conoscerla e volerle bene, provava una stupefazione dolorosa, causata anche un poco dalla fatica del trasloco e del viaggio.

Sul tavolino invece del solito libro nuovo che suo marito aveva la cortesia di procurarle, vi era l’antiartistico, il borghese orario delle ferrovie volgare nella sua copertina gialla, ineducato nelle sue fitte linee di nomi, che pare sempre voglia mandarmi via: da Torino a Firenze, da Firenze a Roma, da Roma a Napoli, e così di seguito tanto da dar le vertigini della corsa a solo pensarvi, s’era affacciata all’ampio balcone di pietra, ma si era ritirata subito stordita dalla folla che schiamazzava; dall’interno della camera si vedeva in lontananza fra le cortine un’insegna dorata d’un magazzino sulla piazza in faccia, con nome strano che non aveva mai udito, e che l’irritava. Era ansiosa che suo marito ritornasse, ma non osava uscir dalle stanze e farsi vedere dai servi sulla scala ad aspettare.

Attendeva tanto suo marito, perchè si sentiva troppo sola, le cameriere dell’albergo le davano una specie di soggezione noiosa, poi parlavano troppo e la stordivano colla loro aspirazione toscana.

Non s’era portata seco la servitù, voleva far casa nuova; anche i cavalli erano rimasti a Napoli.

Il giorno tramontava e Diana sentiva uno stringimento al cuore, pensando a sua madre che aveva [p. 15 modifica]lasciata per chissà quanto tempo pensando al suo appartamento tanto vicino a quello di lei che si vedevano ad ogni ora; appoggiò la testa fra le mani, e stette a lungo a fantasticare e a ricordare.

Il conte Gastone di Spa, e Diana Malvezzi non si erano sposanti d’amore.

Diana era d’indole delicatissima; sentiva profondamente e tenacemente; a sedici anni aveva amato il duca San Pietro, l’aveva amato con tutta la potenza dell’anima, come solo certe donne sanno amare a quell’età, e d’un amore che certe altre non possono neppur supporre che esista.

Era stata la fase più felice della sua vita, tutta la sua forza d’affetto l’aveva esaurita per lui, era roba sua.

L’immagine di Attilio s’era scolpita nel suo animo e nulla l’aveva più potuta cancellare. Il duca che l’aveva amata anche molto, ma molto meno di lei, ed in diversa maniera, la lasciò tranquillamente senza veruna ragione apparente.

Diana aveva sofferto moltissimo, in segreto, aveva pianto, s’era accasciata, l’esile fiore aveva minacciato d’infrangersi sotto quell’orrenda bufera. Dopo una lotta accanita, in cui l’orgoglio solo l’aveva debolmente sostenuta, Diana uscì vittoriosa, cioè non morì di dolore. Visse perchè aveva sedici anni, e la giovinezza è difficile che soccomba; visse perchè aveva sua madre che adorava; si fece una seconda religione della memoria del suo amore immenso, seppellì in fondo al cuore i frantumi del suo passato, irrugiadò ancora quella tomba con molte lagrime amarissime, e comparve nel mondo bella è sorridente. [p. 16 modifica]

S’erano incontrati qualche volta il duca e Diana, o al teatro, o al ballo; si salutavano cortesemente senza parlarsi; lei impallidiva mentre il cuore le batteva a scoppiare, lui da uomo di mondo guardava subito dall’altra parte con grande disinvoltura. Allora per parecchi giorni Diana piangeva, si disperava da sola colla febbre nel sangue; la ferita si riapriva, era sempre la stessa, l’ideale infranto tornava ad ergersi inesorabile dinanzi a lei.

Un giorno il duca partì improvvisamente per un lungo viaggio all’estero, ed il conte Gastone di Spa chiese la mano di lei, in un momento di amarezza e di solitudine.

Era un gentiluomo perfetto, un cuore piccolo, egoista ed ambizioso; tendeva a salire senza affaticarsi, si sentiva abbastanza ricco da poterlo fare: spendeva tranquillamente il suo danaro, ed era deputato per la terza volta.

Diana aveva accettato, rimanendo parte passiva, erano passati due anni dell’abbandono del duca, ed il suo amore era intatto come il primo giorno. Alla vigilia del matrimonio la sposa aveva tolto da un cassettino molti mazzi di fiori che odoravano ancora, li aveva baciati, guardati a lungo, poi con un moto risoluto aveva gettato tutto sul fuoco: Sono d’un’altro! aveva detto semplicemente, compiendo quel sacrificio come un dovere.

I conti di Spa fecero un lunghissimo viaggio di nozze, visitarono la Francia e la Germania, ciascuno trascinandosi seco il proprio fantasma, [p. 17 modifica]Diana il duca; e Gastone il musettino retroussé e la capigliatura arruffata d’una prima ballerina della Pergola, ch’era andata a Vienna senza neppure dirgli addio.

In faccia al mondo erano due sposi felici; quando stavano insieme al teatro od in carrozza, si sorridevano, scambiando qualche parola a fior di labbra, con una riservatezza di molto buon gusto fra marito e moglie; poi Gastone aiutava Diana a mettere la pelliccia, le dava il braccio nel peristilio, l'accompagnava alla vettura aiutandola a salire, si assicurava che lo sportello fosse ben chiuso, poi voltava indietro e si fermava cogli amici dinanzi all’uscita degli artisti.

Quando il conte rientrava era sempre molto tardi; se vedeva il lume in camera di Diana bussava e le dava la buona notte da sulla porta, se no, se ne andava nel suo appartamento, a cercar il sonno sotto il baldacchino di damasco giallo.

Finalmente Diana si scosse dalla sua fantasticheria, suo marito entrava nell’albergo.

— Sai, ho tardato, disse Gastone, perché un amico mi ha fatto vedere una pariglia che forse comprerò.

— Ah! sono belli, di che colore?

— Bai.

— Inglesi?

— Puro sangue, e giovanissimi.

Diana non disse altro, si alzò e cominciò a vestirsi per il pranzo. Suo marito accese una sigaretta. [p. 18 modifica]

— Permetti?

— Fa pure, grazie,

La contessa indossò un abito grigio di stoffa inglese che le modellava il corpo bellissimo, si passò il piumino sulla faccia, poi colla punta del fazzoletto si tolse la polvere di riso da sugli occhi, sempre con calma, guardandosi nello specchio, e sorridendo impercettibilmente alla sua immagine. Suo marito leggeva un Pungolo vecchio portato da Napoli.

— Hai visto il nostro appartamento? chiese Diana voltandosi.

— L’ho veduto, assomiglia un poco a quello di Napoli.

Il mobiglio è arrivato, ora stanno rimettendolo.

— Quando sarà abitabile?

— Fra una settimana, credo, ah! ho anche visto la marchesa Malaspina.

— Elena? e non mi dicevi nulla. . . .

— Sai, ho la testa tanto confusa! mi ha lasciato un mondo di cose da dirti, ma sarà meglio che le senta tu stessa, stassera ti aspetta al suo the.

— Riceve sempre, Elena. Mi secca perchè sono molto stanca,..... vacci tu.

— Impossibile, cara, ho un appuntamento.

Diana lo guardò un momento, poi esclamò con un legger tremito di dispetto nella voce.

— Diggià?

— Non vuoi andare? chiese lui fissandola col suo sorriso fine, ironicamente aristocratico.

— Se v’è molta gente, no. [p. 19 modifica]

— M’ha detto che troveremo solamente il duca,

— Che duca? chiesa Diana in fretta, impallidendo istintivamente.

— Il duca San Pietro.

Il braccialetto che la contessa si fermava al polso, cadde sul tappeto. Diana non disse una parola, non diede un grido, nulla, era impietrita.

Lui, Attilio! il suo amore la riafferrava potente, invincibile, insidiatore; si sentiva il cuore che scoppiava: si chinò a raccogliere il monile e strinse la testa fra le mani con un moto convulso; per un momento brancicò sul pavimento colle mani bianchissime, ingemmate: Mio Dio! come lo amo! mormorava piano fra i denti stretti, mentre qualcosa pareva le si lacerasse dentro, come lo amo ancora!

Il marito non la guardava, continuava a leggere; Diana restava lì accoccolata per terra, presa da un tremito,

— Dunque l’hai trovato? disse Gastone alzando gli occhi.

— L’ho trovato. Si rizzò pallidissima, e prese il braccio che il marito le porgeva per discendere lo scalone e andare a pranzo.


La marchesa Elena Malaspina aveva una maniera tutta sua di ridere, così bella, così affascinante, che metteva una vampa di fuoco nel cervello a chi la guardava.

Lei sapeva il fascino che esercitava quella sua bocca umida, rossa, quando si socchiudeva, ed era [p. 20 modifica]troppo vana per non usarne ed abusarne; rideva spesso e schiettamente, rise anche quando vide a comparire il duca San Pietro.

— Siete venuto, bravo!

Attilio le portava un grosso mazzo di violette cupe, profumatissime; prima di porgerglielo ne scelse una e la mise all’occhiello.

— Grazie. Volete farvi perdonare le impertinenze di quest’oggi, disse Elena, badate che riuscirete solo a metà.

— Siete vendicativa, marchesa?

— Un poco.

— Anche se vi chiedo perdono?

Anche. Stasera sono tutta per Diana......

— Diana?

Sì, è il nome della contessa di Spa, vi piace?

— Molto.... è strano....

— Che vi piaccia? se è bello mi pare invece naturale; non mi avete detto cento volte che il bello vi piace?

— Moltissimo.... Attilio era lievemente distratto.

— Duca, mi permettete di far metà di queste violette con la contessa?

— Fate, sono vostre, anzi....

La conversazione, cadde, Il duca pensava, e quantunque serio, blasé ostinato, il nome di Diana lo aveva colpito. Se fosse stata lei! la sua vanità era dolcemente accarezzata da quell’idea. — Un uomo che sa di essere stato amato molto da una donna, conserva sempre in fondo al cuore l’illusione di essere amato ancora un pochino, di aver [p. 21 modifica]lasciato qualche cosa di sè, non fosse che cenere calda, ed ha la convinzione di saper ridestare la scintilla alla prima occasione. Attilio adesso aspettava con una specie di trepidazione che la contessa entrasse.

La marchesa lo guardava attentamente, con quel profondo senso di penetrazione ch’è nella donna: si sentiva lievemente ferita nella sua vanità vedendosi quasi dimenticata.

— S’è fermata una carrozza, è la sua, sclamò ad un tratto.

Attilio sussultò, Elena sorrise. Non era vero niente, nessuna carrozza s'eri fermata, ma la marchesa ne sapeva quanto ne voleva sapere.

La contessa di Spa entrò poco dopo, suo marito l’aveva lasciata alla scala, e sarebbe tornata più tardi a prenderla; era pallida e la voce le tremava orribilmente.

— Oh! mia buona Elena, come mi tardava di rivederti! esclamò gettandosi fra le braccia della marchesa.

Il duca s’era alzato, e stava immobile fissando intensamente la splendida figura di Diana.

L’ingenua, candida fanciulla si era completata, fatta perfetta; i grandi occhi che si alzavano così poco, ora mandavano lampi abbaglianti, ardenti, carichi di pensiero e di passione.

Si guardarono un momento, lei disopra le spalle di Elena, il duca sorrise stranamente, Diana volse gli occhi.

— Hai fatto bene a venire, come sei bella, più di prima, molto più di prima. E tua madre? ti surà rincresciuto lasciarla, m’immagino. . . . [p. 22 modifica]

Diana le strinse le mani e diede uno scoppio di pianto. Ne sentiva proprio il bisogno, aveva il cuore gonfio, gonfio, aveva troppo sofferto in due giorni, dalla partenza da Napoli a quel momento.

Attilio era dimenticato; le due amiche si erano isolate nell’intimità del loro affetto, e l’avevano escluso; ma il cuore di Diana era lì accanto al suo che batteva a spezzarsi, e lui sentiva vagamente che nel dolore della contessa aveva la sua parte.

Elena si volse finalmente:

— Scusatemi, duca, è tanto tempo che non ci siamo viste, e voi sapete che la lontananza rafforza i veri affetti, e noi ci vogliamo tanto bene. Poi senza dargli tempo a rispondere, volgendosi a Diana: Ti presento il duca San Pietro mio buon amico; — almeno, credo, aggiunse sorridendo, poi: La contessa di Spa, e dell’amicizia di lei, ne sono sicurissima.

Attilio non rispose, s’inchinò profondamente dinanzi alla contessa, Diana abbassò il capo in un saluto impercettibile.

Di mutuo accordo avevano finto di vedersi per la prima volta.

La conversazione che la marchesa cercava di tenere desta, zoppiccava malgrado i suoi sforzi. Diana parlava poco, il duca rispondeva a monosillabi, la marchesa chiacchierava moltissimo, volubilmente, sfiorando gli argomenti, sottolineando colla voce certe frasi, punzecchiando qua e là col suo spirito inesauribile. [p. 23 modifica]

Ad un tratto si chinò verso Diana, e le chiese con mistero:

— E..... sempre soli?

— Sempre!

— Peccato!

— Che vuoi? forse è meglio così, rispose Diana rassegnata.

— Dovreste prender moglie, duca, disse Elena.

— Perchè....?

— Ma, per assicurarvi un po' di felicità vera, perlomeno nei vostri figli.

— Ci ho pensato una volta.....

— E poi? chiese Diana che si era rinfrancata e parlava ora con calma.

— È poi non più..... adesso non ci penso affatto, ormai è tardi.

— Per prender moglie? fece Elena.

— Per prender l’ideale sognato.

— Avete sognato anche voi, duca, come tutti gli altri, non siete diverso, l’ho creduto un momento, ma non è vero.... io, vedete, non ho sognato mai, non mi sono illusa, perciò non mi dovetti disingannare, ho sempre guardato la vita dal lato brutto, e cercato di viverla dal lato bello.... e tu, Diana?

— Io? ho vissuto poco, ho sofferto molto, ma ho amato moltissimo, soggiunse tranquillamente, senza che la voce le tremasse, ed ora....

— Ora?

— Aspetto di morire.

— Decisamente il viaggio ti ha fatto male, disse Elena sgridandola colla voce..... tuo marito non viene? [p. 24 modifica]

— Credo di sì, mi ha detto che veniva. Aveva un appuntamento prima.

— Se non viene pregheremo il duca.

— Ho la carrozza, grazie, disse vivamente Diana, non occorre.

Portarono il the, Diana porse la tazza al duca senza guardarlo, intanto il conte di Spa entrò nella sala.

— Benvenuto, benvenuto, sclamò Elena, contenta d’introdurre un diversivo in quel trio impacciato, eppoi soddisfatta di aver qualcuno da far occupare unicamente di sè.

Presentò il conte al duca, i due uomini si salutarono con una stretta di mano.

La marchesa era vana, quasi non lo nascondeva neppure sapeva d’essere bella e voleva farselo dire, sapeva d’essere affascinante e cercava di affascinare; non amava nulla e nessuno, amava sè stessa devotamente, spezzava gli ostacoli calpestandoli coi suoi bei piedini piccoli e lunghetti, non guardandosi indietro, non volendo vedere se aveva fatto del male; col sorriso sulle labbra, i lampi negli occhi, lo spirito pronto, vivace, sgorgante. Dov’era la marchesa, era la luce, l’allegria, l’entusiasmo; il fumo e lo spirito dello champagne, che ubbriaca ed abatte. Dov’era Diana, era la calma solenne ed imponente delle aurore bionde sul mare, la profonda e sacra quiete del pensiero, i tumulti del cuore, intimi, accaniti, le battaglie lunghe in cui i sentimenti si rafforzano, si nobilitano, si completano.

Diana era soave, seria, triste come tutte le [p. 25 modifica]creature che amano da lungo tempo nel segreto dell’anima, che si purificano, che s’innalzano, che attingono sempre nuova lena da quell’amore.

Elena e Gastone erano sul divanetto a due posti vicini, da sposi o da innamorati. La marchesa ricordava d’essere stata molte volte su quel divano con molte persone successivamente, con suo marito no; il marchese Alfonso era sofferente, e stava lontano, da solo, guardandola intensamente mandandole di tanto in tanto ondate di passione profonda dai grandi occhi neri.

Ricordava d’avere ascoltato moltissime dichiarazioni, ch’ella mentalmente confrontava, analizzava come altrettanti documenti letterarî.

Parlava al marito dell’amica con quel suo fare indolente di qualche volta, quando voleva darsi tempo a pensare alle parole, a studiare l’interlocutore.

— Starete molto a Firenze?

— Molto. Diana ne è desolata, fortuna che ci siete voi.....

— Voi possedete una moglie perfetta.

— E mia moglie possiede un’amica....

— ...... complimenti non ne voglio bisogna che impariate a conoscermi, conte, io sono cattiva, e sorrideva graziosamente, eppure qualcheduno mi vuol bene, Diana per esempio.....

— Lo credo, e quanto!

— Me ne vorrete anche voi col tempo, un pochino, tanto così per riflesso....

Diana sfogliava un giornale, il duca non osava rivolgerle la parola pel primo; finalmente si vinse. [p. 26 modifica]

— Perchè avete finto di non conoscermi, Diana?

— Sono la contessa di Spa, duca.

— Perchè? ripetè lui senza por mente all’interruzione.

— Perché..... io non so nulla, non mi ricordo di nulla.....

— Menzogna....

Diana si alzò di scatto:

— Vuoi che andiamo, Gastone? è tardi.

— Per questa sera ti perdono, disse Elena, sei stanca, sei stata molto buona a venire, bisogna che facciamo qualche gita al mio parco, il duca è matto per la primavera, ci terrà compagnia.

Ti parrà un po’ pallida la primavera da noi, tu abituata al fulgore di Napoli: siete stato, duca, a Napoli? È il trionfo della natura, è la nota gaia dell’Italia, è un sogno da poeti.....

Diana sorrideva a quella sfuriata di parole.

— Ci sono stato molto tempo, eppoi vi sono tornato dopo un viaggio in America e nelle Indie, e mi son fermato pochissimo.

La voce gli tremava lievemente accennando a quell’epoca. Diana arrossiva....

— Molto tempo fa?.....

— Cinque anni, ma ora amo di più Firenze.

— Davvero? grazie. Prese il mazzo di viole e lo divise con le sue piccole mani sottili e nervose:

— Prendi, Diana, me le ha portate il duca, ma mi ha autorizzato a farne metà con te.

— Grazie a tutti e due rispose la contessa guardando vagamente Elena e Attilio.

— Dovreste amare i fiori, marchesa, fece il duca tanto per dire una cosa, ogni simile.... [p. 27 modifica]

— Per carità lasciate stare quel proverbio brutto e vecchio, me lo son sentito dire a proposito d’una bella rosa canina quando avevo quindici anni.....

— Dovrete rassegnarvi a sentirvelo dire ancora molte volte, marchesa, disse Gastone di Spa, sorridendo galantemente.

— Sempre cortese malgrado il matrimonio.

— Oh! che volete dire?

— Un’uomo ammogliato, perde sempre un poco d’amabilità, non è vero Diana?

Diana rideva.

— Ma, non so, probabilmente soltanto con sua moglie.

— Brava, sei profonda tu!

Il conte di Spa scendeva la scala pel primo, Diana era rimasta indietro per sollevare l’abito ed abbottonarsi la mantiglia.

— Diana, prendete ancora questa viola e Attilio si tolse dalla bottoniera la violetta cupa.

— No, grazie, ho le altre.

— Oh, Diana come siete mutata!

— Io non intendo cosa vogliate dire.

— Avete dimenticato tutto, è naturale, disse Attilio amaramente.

Diana, inciampò nella guida dello scalone.

— Zitto!

— Tutto dimenticato, possibile, tutto?

Si sentiva la voce del conte che parlava col cocchiere:

— Accompagni la contessa, eppoi volti con me, via Calzaioli, 20. [p. 28 modifica]

— Non mi avete perdonato, Diana?

— Sì, sì, rispose la contessa impacciata, colla voce tremante.

— Ebbene, prendete la violetta.

Diana la lasciò cadere a terra, Attilio vi passò sopra schiacciandola col piede.

— Grazie, mormorò a denti stretti.

— Buona notte, duca, disse Diana forte, cacciandosi nella vettura senza dargli la mano, paurosa d’abbandonargliela per troppo tempo di tradirsi col tremito che la scuoteva, felice di trovarsi in un cantuccio sola, al buio, di tuffare la faccia in quelle violette brune che odoravano forte, di assaporare la sua ebbrezza che traboccava. Si sentiva un’ondata di giovinezza ardente nel sangue, guardava vagamente dallo sportello i fanali che si rincorrevano, e mandava baci di riconoscenza all’aria, alla luna che brillava pallida e cheta, a quei grandi palazzi neri, alti, enormi, a tutta Firenze gentile che ospitava la sua vita, il suo sogno, il suo lembo di cielo!