Capo II

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Capo I Capo III

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CAPO II.

La contessa Diana di Spa non pensò neppure un momento a suo marito; era così staccata da lui, così estranea nei suoi pensieri, nei suoi affetti, nelle sue occupazioni, che neppur l’ombra d’un rimorso la punse, di dare tutto il suo cuore, tutta la sua potenza d’affetto ad un altro che non ne aveva il diritto. Che cos’era lei per suo marito? Nulla. Era la donna giovane e bella che aveva piaciuto all’uomo giovane e sensuale; era stata la controbilancia, la vendetta venuta a proposito per lui, dopo l’abbandono d’una ballerina; era stata la ricca ereditiera che aveva aumentato le sue rendite del doppio; la donna più degna di portare il suo nome, illustrandolo colla sua splendida persona. Null’altro.

Salì lo scalone dell’albergo sola, lasciando trascinare l’abito, colle guancie accese gli occhi fulgidi fissi nella sua visione di cielo.

Sentiva un groppo alla gola ed una leggerezza soave in tutta la persona, il sangue le martellava lievemente le tempia. Aprì la finestra ed aspirò un profumo indefinito di fiori e di bocciuoli; pareva che la primavera l’avesse assalita ad un tratto insidiandola. Si tuffò nel suo amore colla ebbrezza disperata con cui il soldato si getta [p. 30 modifica]sull’acqua dopo un giorno di marcia al sole. L’aveva tanto agognato quel momento, l’aveva tanto sognato! il suo cuore colmo di passione si ubbriacava ora di felicità e di speranza.

Chiuse gli occhi strettamente e guardò nel caos. Non vedeva che miriadi di fiammelle roteare confondersi, poi tornare a disperdersi; la sua testa rifiutava l’ordine dei pensieri, le pareva che pochissimo tempo fosse trascorso dall’abbandono di Attilio, che non fosse vero il passato, ch’ella fosse ancora la fanciulla di sedici anni innamorata la prima volta, e per sempre. Era stata tanto violenta la gioia di rivederlo, che l’aveva affranta.

Stette a lungo pensando alla sua vita trascorsa, rifacendone tutte le vicende con miracolosa esattezza, poi la realtà l’assalse improvvisamente; urtando con violenza il filo dei suoi pensieri, innalzandosele dinanzi come una barriera. Alzò il capo come se materialmente qualcosa l’avesse sospinta; la sua posizione di donna maritata le si presentò ai suoi occhi atterriti. Non poteva pensare ad Attilio, non doveva. Si alzò col volto in fiamme, un pungente rammarico nella coscienza ed il suo profondo affetto nel cuore; cominciò a svestirsi adagio colle mani che tremavano, ma malgrado tutto, instintivamente, ritornava ad assaporare col pensiero la gioia intima, voluttuosa, dolcissima, che aveva provato a sentirlo ricordare il passato, a sentirsi chiamare per nome come allora. Rimase un momento dinanzi allo specchio, le braccia nude, rosee, levigate; il collo e mezzo il petto liberi dal corsetto di trina s’ergevano [p. 31 modifica]bianchi, superbi, nel loro candore tranquillo di perla orientale, si sentì follemente felice di essere bella, e sorrise.

Non avrebbe potuto dormire, sedette nella poltrona accanto al letto e posò i piedini nelle babbuccie di raso nero; quelle pianelle stonavano, parevano calzate nel piede d’una statua o ne guastavano la perfezione. Forse Diana se ne accorse e con quell’istinto che è nella donna di sentirsi bella scostò quelle scarpettine da bambola e restò coi piedi nudi, le mani incrociate, la testa china sul petto, bella e pensosa sotto il tiepido lume della lampada che ne illuminava i capelli dando al bruno dei riflessi azzurrognoli.


La marchesa Elena Malaspina aveva appena finito di pranzare, e stava sorbendo il caffè nella sua vasta sala da pranzo ornata alle pareti da enormi quadri di caccia intarsiati nel legno: una camera ricca e severa come tutte le altre del suo appartamento. Così vestita di nero con un largo colletto di pizzo giallognolo simile a quello che ornava le maniche, bella, coll’aria lievemente annoiata di chi aspetta, pareva la castellana che attendesse il ritorno del suo sposo e signore, e sembrava di udire in lontananza l’abbaiare dei bracchi ed il corno del falconiere.

S’erano dato l’appuntamento con la contessa Diana di Spa per le due sotto la Galleria degli Uffici, ed era appena, appena il mezzo tocco.

La marchesa pensava come avrebbe potuto [p. 32 modifica]occupare quell’ora che le restava, e nella dolce indolenza del dopo pranzo non si muoveva, centellinava come un vecchio il suo caffè senza zuccaro, aromatico, eccellente, portorico puro.

Faceva quasi caldo in quel pomeriggio di marzo, ed Elena sentiva un benessere che la rendeva buona, ben disposta verso la gente, contenta di vivere.

Il suo animo battagliero, turbolento aveva bisogno di quei momenti di calma per riposarsi; la sua fantasia eccitata sempre qualche volta si allentava, si assopiva; ma per ritornare subito a rifulgere più viva ancora. Non era la tranquilla serietà del pensiero che occupava quel cervello vano e bramoso d’emozioni, era la febbre continua delle passioni, dell’orgoglio, del trionfo. L’amore l’aveva appena sfiorata ed ella lo aveva guardato sorridendo, lasciando che si allontanasse dal suo cuore, senza far un moto per fermarlo, senza sentire un tremito, senza provare il bisogno di accogliere nel suo petto il bimbo gentile. — Non avrebbe saputo dove metterlo, non aveva nell’anima il cantuccio, il nido solitario per quel dio potente. Nulla; la vita le pareva tanto bella così, era stata pazzamente amata da suo marito, ed aveva accettato quell’amore tranquillamente senza commoversi, come accettava i gioielli, i fiori, e le dichiarazioni dei suoi adoratori; come cosa naturale, dovuta, giusta. Passava in mezzo all’amore che la chiamava da tutte le parti, come il re passa tra la folla plaudente, senza emozione, salutando lievemente col capo, senza misurare [p. 33 modifica]forse tutto il valore dell’entusiasmo di ciascun uomo in particolare.

Elena uscì a piedi, vestita di scuro, con una veletta bianca a mezzo il volto — come una piccola borghese, costeggiando l’Arno gialliccio, camminando in fretta, facendo dei piccoli sorrisi a chi la salutava. A mezza via vide il conte di Spa fermo sull’angolo, che guardava attorno coll’aria tranquillamente fatua d’uomo a cui la primavera dolcissima, l’aria mite e profumata, il cielo azzurro, non producono altro effetto che di fargli mutar il soprabito colla pelliccia in un altro leggiero color nocciuola, ben giusto alla vita, colle solite prime violette all’occhiello.

Il conte Gastone era un bell’uomo elegante, corretto, vestiva spesso il frak, e portava il cappello a cilindro, le scarpette lucide, i guanti imprigionati fra due bottoni dell’abito. Istintivamente a vederlo si pensava a quei certi mariti da commedia quasi sempre deputati, cavalieri, uomini politici, che si chiamano spesso: Roberto, Marcello, Dario o giù di lì, e visti dal palchetto sono tanto simpatici alle donne.

Dopo le ultime elezioni in cui era stato battuto dal conte Raul meno ricco di lui, ma più positivo, meno ciarlone e più sodo, s’era molto intiepiedito il suo fervore politico, era troppo debole, troppo vuoto per sentire violentemente il pungolo dell’ambizione, perciò sonnecchiava, occupandosi del bel mondo e del demi-monde come un giovane scapolo, facendo qualche leggiera corte, ma senza infervorarsi, contento di sè, dei suoi [p. 34 modifica]cavalli, dei suoi cani che servivano ad una caccia a cui non andava mai.

Appena ebbe scorto la marchesa Elena, le venne incontro sorridendo piegato un poco in avanti in atto d’ossequio; ma Elena con molta scioltezza gli porse la mano, stringendogliela all’inglese, affettando d’essere senza affettazione.

— Marchesa permettete che vi accompagni?

— Grazie, ma vi avverto che vado ad un appuntamento.

— Interessante?

Moltissimo, accettate ancora d’accompagnarmi?

— Vi pare? non m’aspettava una fortuna così grande.

— E Diana? non mi avete ancora detto come sta.

— Bene, comincia ad innamorarsi di Firenze.

— Lo credo; vostra moglie ha un senso artistico squisito.

— E il marito che cos’ha di bello? chiese Gastone ridendo.

— Ma non so, ha di bello il buon gusto d’aver scelta la moglie.

— Gli concedete poco, marchesa, molto poco.

— È molto invece, la moglie è l’ornamento del marito, tutto sta nel saper prendere quello che migliora di più. Una moglie bella, buona, spiritosa.....

— Decisamente, marchesa, siete innamorata di Diana.

— Siete geloso, conte?

— Sì, sono geloso che vi occupiate troppo della marchesa. [p. 35 modifica]

La guardò da vicino, con la sua occhiata lunga, stanca, che pareva espressiva.

La marchesa sorrideva come se mentalmente completasse la frase lasciata a metà da Gastone.

— Avete capito? disse il conte supplicando.

— Perfettamente; volete la mia amicizia, nevvero? ebbene guadagnatevela.

È giusto, marchesa, proverò.

Accanto a loro passò una cavalcata di giovanotti con in mezzo una donna bellissima, bionda, con un visetto incorniciato di ricci sotto un grande cappello alla moschettiera, messo di traverso, con un’enorme piuma bianca che le batteva sulle spalle; vestita di nero sopra un cavallo bianco.

Gastone si volse, e si fermò a guardarla meravigliato.

È la principessa Wanda Forloff, una russa, disse Elena, un vero Napoleone I della galanteria, guardatevene, conte.

— La conoscete voi, marchesa?

— Eravamo amiche di collegio; lei però era intima della Gisanti, una marchesina, — la vedrete in casa mia, — che è ancora nubile; anzi vi è una storia fra lei e Wanda.

— Avreste ancora tempo a narrarmela prima d’arrivare all’appuntamento?

— Ah! l’appuntamento, avete ragione; ma ve la dico in due parole. Wanda era molto più bella della Gisanti, più giovane ed anche più ricca, superiore d’ingegno, di posizione, di tutto; ma nondimeno finchè si fu in collegio la marchesina [p. 36 modifica]parve non accorgersi che Wanda era troppo bella assolutamente perchè lei potesse starle impunemente dappresso, e la confidenza più intima e più affettuosa si era stabilita fra di loro.

Non arrivavano lettere dalla Russia a Wanda, che non fossero aperte dinanzi alla Gisanti e lette con lei; e alla sua volta la marchesina mostrava alla russa tutti i biglietti profumati che riceveva dalle amiche fuori del collegio, dalla madre, da..... dai cugini.

La marchesa rideva facendo quell’insinuazione e guardava tranquillamente Gastone, turbandolo col bagliore dei grandi occhi lucenti.

— Eppoi? disse il conte ad un tratto, per rompere quel silenzio espressivo che diveniva imbarazzante.

— Eppoi..... oh! mi scordavo la storia per pensare ad altro.

Gastone, avete sentito tutto quello che vi ho detto fin ora?

— Sicuro, marchesa, vi pare? avete una voce così strana, così dolce.

— Basta, basta, lasciatemi finire. Dunque chiamavano quelle due amiche: Maria Antonietta e la principessa di Lamballe. Poi l’anno finì, noi eravamo delle grandi, e ci preparavamo ad entrare nel mondo possibilmente al braccio d’un marito, perchè l’entrata fosse ufficiale. Wanda partì per Pietroburgo; la Gisanti venne tranquillamente a casa di sua madre, girò i balli, fece delle toelette abbaglianti, suono nei saloni tutte le fantasie e le riduzioni possibili ed [p. 37 modifica]impossibili fu ingenua e furba, orgogliosa e modesta, poi dovette rassegnarsi a non entrare nel mondo ufficialmente. — Nel primo carnevale si fecero parecchi matrimoni fra i quali il mio col marchese Malaspina. — Wanda arrivò ad un tratto più bella di prima, maritata, milionaria, e principessa.

— Capisco il resto, disse Gastone.

— La Gisanti in un momento di pazzia invidiosa finse di non riconoscerla quasi più, la salutò freddissimamente; Wanda si rassegnò subito e lasciarono affatto il saluto.

Fu una scenata, una volgarità da provincia, se ne è parlato molto.... eppoi s’è dimenticato l’incidente; adesso le chiamiamo Maria Stuarda ed Elisabetta, ma piano, piano, dietro il ventaglio con grande precauzione.

— Grazie della storia, marchesa, che mi ha dato il tempo di stare un poco con voi, credete ch’io non dimenticherò tanto presto l’incontro grazioso come voi avete obbliato l’incidente della principessa.

— Bravo, conte, v’è una perfetta rettorica nel vostro periodo.

— Donna Elena.....

— Addio, conte, sono in ritardo d’un quarto d’ora.

Ritornarono a stringersi la mano, ed Elena andò verso le Gallerie; Gastone rimase a guardarla più distratto che impressionato.


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La contessa Diana di Spa rientrò in casa affranta; era stanca, dal passeggio troppo lungo; le bellezze di Firenze l’avevano impressionata. Era stata con un senso di profonda tristezza e quasi di sbalordimento attraverso a quelle meraviglie; il passato la schiacciava, l’idea che tante generazioni avevano visto successivamente quelle sale, ammirato quei dipinti che attraversavano tranquillamente i secoli, quasi guardassero filosoficamente le vicende a succedersi e rivoltarsi, rimanendo invulnerabili all’azione del tempo, le dava la melanconia. Che cos’era dunque l’uomo? nulla, se l’opera sua durava tanto più di lui. Le tombe di Santa Croce l’avevano fatta piangere, le ricchezze del palazzo Pitti l’avevano fatta pensare. Provava il bisogno di fare una grossa elemosina, e di sentirsi benedire dai poveri. D’una tempra soave e gentile, aveva tutte le raffinate delicatezze del suo carattere.

Tutto ciò ch’era grande e ciò ch’era debole aveva per lei un fascino arcano ed irresistibile; il genio la colpiva innalzandola, la propria ricchezza quasi l’umiliava.

Fra i suoi pensieri quel di Attilio era il primo, egli si presentava al suo cuore sentinella inesorabile e non vi lasciava entrare una stilla di gioia, versandovi invece il suo veleno divino e terribile.

La sala da pranzo della contessa era press’a poco come quella della marchesa, come tutte.

Erano in voga i soggetti di caccia; Diana macchinalmente fermò lo sguardo sopra un pezzo della tappezzeria. Era un falconiere che presentava il [p. 39 modifica]falco incappucciato ad una dama vestita di bianco, a Diana parve scorgere nel profilo del giovane una rassomiglianza col duca; stette un momento a guardare con un turbinio di pensieri nel cervello, poi s’avvicinò e fece un segno colla matita sull’abito bianco di lei, per poterlo trovar subito; ma allora s’accorse che tutti gli altri pezzi della tappezzeria assomigliavano a quello con una precisione irritante. Cercò di cancellare col dito, e fece una macchia, e le parve che le centinaia di falconieri e di dame tutti gli stessi, si guardassero fra di loro sorridendo ironicamente.

Chiuse gli occhi; ma Attilio era lì, sempre lì dinanzi a lei, ora sorridente ed innamorato, ora indifferente e corretto, ma sempre bello, affascinandola collo sguardo, mandandole al cuore vampe di fuoco.

L’amore per Attilio da cinque anni riposava in fondo alla sua anima, sotto le rovine di tante altre gioie, di tante illusioni, di tante speranze. Era l’unico fiore che crescesse profumato ed intatto sotto quelle macerie, ed ella scendeva a ritrovarlo, ad inebbriarsene, a bagnarlo di lagrime che le facevano bene.

Ma ora ad un tratto era morto il fantasma adorato in silenzio, ed era sbocciato l’uomo vero, più bello ed insidiatore, sempre innamorato, più devoto, più ardente. In lei era sparita la giovinetta ed era sôrta la donna, che amava profondamente, appassionatamente, con tutta la tenerezza segreta e possente, con tutto lo slancio, con tutto il delirio della donna vera e completa. [p. 40 modifica]

Quelle due anime che si cercavano, che si volevano, che s’imploravano, che si confondevano nella nebulosità azzurra dei sogni, nei guizzi infuocati del desiderio e della passione a lungo soffocata, battevano inesorabilmente in un ostacolo insuperabile. - Gastone di Spa stava in mezzo a loro, inconscio, felice, fatuo, perfetto nella sua eleganza, meschino nei suoi pensieri e nei suoi affetti, abituato a vivere, a respirare fra le trine delle dame e le garze delle ballerine, noncurante della moglie, e pronto a schiaffeggiare il rivale, se l’avesse avuto, per una tradizione d’onore che egli stesso non riusciva a comprendere in tutta l’estensione.

Diana si stringeva le tempia con disperazione selvaggia:

— È una colpa, mio Dio, è una colpa se l’amo, se questo affetto è nato quando io incominciai a comprendere che l’amore esisteva, se si è incarnato nel mio essere, se è parte di me, se lo respiro coll’aria che respiro, se è la mia vita? Ma è giusto che un uomo che non mi ama, che non mi cura, che m’inganna, che m’oltraggia, possa dirmi: Dimentica, soffoca, distruggi il tuo primo unico amore, perchè io sono tuo marito, perchè porti il mio nome, perchè ho il diritto d’importelo, se no ti caccio dalla mia casa, ed ammazzo il tuo amante come un cane, e nessuno avrà più ragione di ridere di me, e tutti avranno il diritto d’insultarti come una perduta?

Diana stette un momento ansante, con un sudor freddo che le stillava dalle tempia, gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto. [p. 41 modifica]

Era giusto. Ella era la moglie di Gastone dinanzi a Dio, e dinanzi alla legge; quest’uomo leggero e vizioso le aveva consegnato fiduciosamente il suo nome ed il suo onore, ed essa aveva giurato all’altare di conservare intatto il solenne e grave deposito. Il giuramento era sacro ed inviolabile.

Il suo delirio d’amore era un insulto sanguinoso all’onore di suo marito, i suoi principj si rivoltavano, la sua coscienza turbata si contorceva sotto le morse feroci del dovere.

Una donna che abbia profondo ed incrollabile il sentimento religioso, per quanto immensa sia la passione, la coscienza vince, per quanto il cuore si spezzi la ragione resta ferma e severa.

Stette a lungo colla testa china sul tavolo, le mani prosciolte, poi si alzò ed andò dritta alla camera di Gastone, ove non entrava mai. Il cuore le batteva forte, e la fronte ardeva.

Entrò trepidante e stette ferma guardando dattorno. Era una camera grande, ma tanto ingombra di mobili che pareva stretta e scura. Un lieve profumo di gardenia impregnava l’aria, una rosa appassiva sulla caminiera in un vaso di porcellana dipinta, specchiandosi e riproducendo la sua mesta agonia nei due specchi di fronte fino all’infinito. Un’immensità di nonnulla artistici e costosi giacevano alla rinfusa sui tavolini, sullo scrittoio di ebano intarsiato di madreperla; sotto ad un divano spuntava un guanto bianco.

Per un momento Diana dimenticò lo scopo per cui era venuta, quasi affascinata dall’ambiente [p. 42 modifica]misterioso e viziato di quella camera di cui tutti gli angoli rivelavano un lembo di passione, di leggerezza, di vanità, di sciupìo della vita; da cui si sprigionava la fatua vita intima di quell’uomo ch’ella avea sperato un momento di poter amare nella sua casta ingenuità di fanciulla.

Chinando gli occhi vide sul tappeto una forcina da capelli di tartaruga bionda.

Non era sua, non poteva esser sua, la prese e la lasciò ricader subito, quasi le scottasse le dita.

Aperse un album; nel primo foglio vi era un ritratto grande d’una ballerina. Era una donna molto bella, scollata, dalle forme perfette, gli occhi aperti, grandi, che dovevano essere molto lucenti, il nasetto francese, provocante, rivolto in su. I capelli ricci che le cadevano sulle spalle, sulla fotografia erano rimasti quasi bianchi, al naturale dovevano essere molto biondi.

In calce al ritratto, scritto con matita bianca: A Gastone che si sposa, la sua amica che lo ricorda. Adriana.

L’aveva ricevuto il conte il giorno prima del matrimonio dalla bella fuggitiva.

Diana lo guardò un momento, un vivo rossore le era salito alle gote, la ballerina pareva danzarle beffardamente dinanzi.

Chiuse l’album in fretta, e ricominciò a cercare. Vide in un angolo un quadretto incorniciato con entro accollato un mezzo riccio di capelli biondi che scintillavano sul velluto cremisi come una grossa virgola d’oro. [p. 43 modifica]

Diana sentì una vertigine, il suo orgoglio di donna, ferito, si rivoltava. Oh! era troppo! Non un ricordo di lei in quella stanza, non la parvenza dell’uomo che abbia la sposa. Si lasciò cadere sopra un divano e scoppiò di pianto: È giusto? gemette ancora rispondendo al pensiero fisso del suo cervello!