Melmoth o l'uomo errante/Volume I/Capitolo I
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CAPITOLO I.
Nell’autunno dell’anno 1861 Giovanni Melmoth, convittore del collegio della Trinità in Dublino, sospese momentaneamente i suoi studii per andare a visitare un suo zio moribondo, e dal quale dipendevano le speranze tutte della sua fortuna. Giovanni, che aveva perduti i suoi genitori, era figlio di un cadetto di famiglia, e le sue mediocri sostanze erano a mala pena sufficienti per far fronte alle spese della propria educazione; ma suo zio era vecchio, celibe e ricco. Dalla sua più tenera infanzia Giovanni erasi assuefatto a riguardare cotesto zio con quel sentimento che ad un tempo attrae e respinge, con quel rispetto misto al desiderio di piacere, che si prova per quell’ente, che tiene in mano in certo modo il filo della nostra esistenza.
Appena Giovanni fu informato della malattia del suo congiunto non tardò un momento a porsi in viaggio. La strada, che doveva fare, passava per la contea di Wicklou, e la bellezza del paese non gli impedì di abbandonarsi a delle triste riflessioni, alcune delle quali avevano relazione col passato; ma alcune, e queste in maggior numero, riguardavano l’avvenire. I capricci ed il carattere burbero e sofistico del suo zio; le strane voci, alle quali aveva dato luogo la vita ritirata, ch’egli menava da più anni; la dipendenza da cotesto uomo singolare, nella quale lo poneva la fortuna; tutti quanti questi pensieri tenzonavano nella fantasia di Giovanni. Egli faceva di tutto per discacciarli; soletto, dentro la diligenza contemplava il paese, consultava il suo oriuolo; i suoi pensieri gli lasciavamo talvolta un momento di tregua, ma non trovando come rimpiazzarli, era costretto a richiamarli per passare, se non altro, la noia della solitudine. A misura che la vettura approssimavasi alla Loggia, residenza di suo zio, il cuore di Giovanni diveniva sempre più oppresso e palpitante.
Gli ritornava alla mente tutto ciò, che dopo la sua infanzia gli era accaduto nella casa di cotesto terribile zio: le lezioni e gli avvertimenti cioè che gli davano prima d’introdurlo alla presenza di lui; le gravi raccomandazioni, che gli facevano di non essergli d’impaccio, di non avvicinarsegli di troppo; di non fargli alcuna interrogazione, di non turbare sotto qualsivoglia pretesto la disposizione che gli aveva data al suo orologio a pendolo, alla sua tabacchiera, agli occhiali; di non lasciarsi tentare dalla vivacità naturale al punto di toccare la mazza dal pomo d’oro che lo zio aveva collocata in un canto; finalmente di fare in maniera tanto nell’entrare che nell’uscire della camera di non urtare o scomporre i mucchii de’ libri, de’ globi, delle vecchie gazzette, delle testiere, delle pipe, dei vasi di tabacco, senza computare le trappole da topi ed i vecchi libri ricoperti di polvere e di ragnateli che occupavano il disotto delle seggiole. Dopo aver evitati tutti questi scogli, altro non gli rimaneva, che fare una profonda e rispettosa riverenza, chiudere piano piano l’usciale e discender la scala, come se avesse avute le scarpe di feltro.
Quando arrivavano le feste del Natale o della Pasqua, lo scarno e mal in arnese ronzino che gli mandava lo zio si fermava davanti alla porta del luogo dove stava in pensione, e diventava l’oggetto della derisione e dei sarcasmi dei condiscepoli. Giovanni vi montava sopra a malincuore per portarsi alla Loggia, ove non aveva altro passatempo, che di starsene assiso in faccia dello zio senza parlare nè fare un movimento, di maniera che rassembrava una statua, piuttosto che una creatura vivente. Allorchè si ponevano a tavola il vecchio non levava mai l’occhio di dosso al nipote, il quale rosicava de’ magri ossi di montone, che avevano bollito in un debol brodo, e gli raccomandava di non mangiare di troppo. La sera in quella casa vi era la consuetudine di andare a letto sul finir del crepuscolo, per risparmio d’olio o di candele, e Giovanni cui la fame impediva di prender sonno, non aveva altra consolazione, che, quando lo zio era andato a coricarsi, venisse la vecchia governante a portargli qualche avanzo del proprio pasto, raccomandandogli ad ogni boccone che faceva, di nulla dire al vecchio zio, suo padrone.
Dopo che Giovanni ebbe percorso con la mente il tempo della sua infanzia, pensò agli anni che aveva vissuti in collegio. Egli vi abitava una piccola camera a tetto in fondo di un cortile interno, e non era mai invitato a venire alla campagna, non volendo lo zio pagare le spese del viaggio. Passava l’estate percorrendo le vie deserte della città, ed in ogni trimestre la consueta lettera gli portava una scarsa, ma puntuale rimessa accompagnata da rimbrotti sulle spese enormi della sua educazione, da consigli di economia e da lagnanze: sul ritardo de’ fittaiuoli e sul basso prezzo delle terre.
A tutte coteste rimembranze univasi quella delle ultime parole di suo padre: «Giovanni, mio povero figlio, vi deggio abbandonare. A Dio è piaciuto di togliervi il vostro genitore prima che esso abbia potuto fare ciò che renduta avrebbe questa separazione meno penosa. Da quinci innanzi, Giovanni mio, bisogna che riguardiate il vostro zio come l’unico vostro appoggio. Egli ha delle debolezze e delle bizzarrie, ma conviene che voi apprendiate a sopportarlo, siccome molte cose che non tarderete molto a comprendere. Possa quegli, che è il vero padre degli orfani aver pietà di voi, mio figlio, e toccare il cuore di vostro zio in favor vostro!» La rimembranza di cotesta scena riempiè di lagrime gli occhi di Giovanni, ma si affrettò a tergerle quando la vettura arrestossi davanti al giardino di suo zio.
Discese e si avvicinò alla porta tenendo in mano un fazzoletto annodato, nel quale aveva riposta un poco di biancheria, che formava tutto il suo equipaggio. Il casotto del portinaio cadeva in rovina, e da una piccola capanna vicina vide accorrere a piedi scalzi un giovanetto che si sforzò di far girare sopra il solo arpione che rimaneva, un cancello, che un tempo era stato una porta, e che allora si componeva di tre o quattro tavole sì mal connesse tra loro, che si muovevano come una banderuola quando il vento spira forte. Non senza molta pena finalmente la porta cedè agli sforzi riuniti di Giovanni e del giovanetto, ed aggirandosi a stento sul fango e sulla sabbia, aprissi finalmente lasciandosi dietro una larga rotaia. Giovanni dopo essersi invano frugato per le tasche, cercando qualche soldo per ricompensare il suo introduttore, proseguì il cammino; il giovane ad ogni passo entrava co’ piedi nelle pozzanghere mostrandosi orgoglioso non tanto della sua agilità, quanto dell’onore che aveva di accompagnare un gentiluomo. A misura che Giovanni procedeva per quella stradella, che anticamente era stata un viale, discopriva de’ nuovi contrassegni di desolazione, la quale era notabilmente aumentata dopo l’ultima sua visita fatta allo zio. Ogni cosa annunziava, che la rigida economia erasi convertita in sordida avarizia; nè una siepe nè un fosso erano in buon ordine; questi erano stati rimpiazzati da un muro a secco di pietre slegate dalle cui numerose cavità uscivan fuori dei cespugli di ginestre e di cardi. Nè una pianta nè un arbusto erano rimasti nel viale che dalla natura era stato allora trasformato in una specie di prato, dove qualche solitario montone andava in cerca de’ fili d’erba, che a stento si aprivano la via tra’ ciottoli, le spine e l’indurato terreno.
La casa risaltava molto bene fra le ombre del crepuscolo, perchè non vi erano nè boscaglie nè alberi, che le servissero di riparo. Dopo aver Giovanni gettato uno sguardo doloroso sul terrazzo ricoperto di erbe e sulle finestre serrate da pezzi di tavola, voleva picchiare; ma non avendo trovato il battente fu costretto servirsi di grosse piastre, che cominciò a scagliare contro la porta, come se avesse voluto atterrarla, fino a tanto che il reiterato abbaiar d’un mastino (il quale sembrava volere spezzar la sua catena, e di cui la voce esile e gli occhi scintillanti davano ad un tempo stesso indizio di fame e di collera) non fece togliere l’assedio. Abbandonò dunque la porta principale, e si diresse verso una porticina, che dava ingresso alla cucina e ch’egli conosceva perfettamente. Avvicinandosi vide de’ lumi attraverso le fenditure della porta; alzò con mano tremante il saliscendo, ma quando vide le persone, ch’erano dentro la cucina, si avanzò arditamente e senza timore che gli venisse fatta cattiva accoglienza.
Intorno ad un fuoco di torba bene acceso, e la cui quantità indicava la disposizione del malato, era assisa la vecchia governante in compagnia di due o tre sue amiche, del genere di quelle, la cui sola occupazione consiste in mangiare, bere e cicalare in tutte le cucine del vicinato, le quali si trovano aperte per qualunque evento fausto od infausto che sia, e tutto per amore del padrone di casa o pel grande rispetto che nutrono per la famiglia. Eravi ancora un’altra vecchia, che Giovanni riconobbe per la medichessa del villaggio: sibilla dal volto rugoso, che prolungava la miserabile sua esistenza, traendo partito da’ timori, dalla ignoranza e dalla mala sorte degli enti a sè compagni nella miseria. Ammessa talvolta nelle case di oneste persone, per esservi stata introdotta dalla gente di servizio, faceva in esse la prova di qualche erba medicinale, ed i suoi tentativi non erano sempre privi di effetto. Con la bassa plebe ella parlava sovente de’ perniciosi effetti del cattiv’occhio, contro i quali diceva di possedere una contramalia, che mai fallava, e nel tempo che diceva così tentennava il capo e faceva muovere i suoi bianchi capelli con una tale vicacità, che ordinariamente comunicava a’ suoi ascoltatori gli uni atterriti gli altri creduli, una parte dell'entusiasmo, che ella medesima o fingeva o sentiva in realtà. Se intanto il caso oltrepassava i limiti della sua arte, se ella vedeva dileguarsi ad un tempo la speranza e la vita, costringeva i miseri malati a confessare, ch’essi avevano qualche cosa nel cuore, e dopo una tal confessione estorta dalla intensità del dolore o dalla ignoranza propria della povertà, ella facendo un segno col capo pronunziava delle misteriose parole, che davano bastantemente a conoscere agli astanti di aver avuto a combattere degli ostacoli sovraumani.
Allorquando la sanità che regnava ad un tempo nella cucina del padrone del castello e nelle capanne dei vassalli minacciava di farla perire di fame, le rimaneva un’altra risorsa: ella prediceva la buona ventura.
In una parola nessuno meglio di lei sapeva tormentare o spaventare le sue vittime, fino a persuaderle della verità di un potere, per cui più di una volta ha poste le anime più forti in balia delle più deboli.
Tale era la creatura alla quale il vecchio Melmoth parte per credulità, e molto più per avarizia, aveva confidata la cura de’ suoi giorni. Giovanni si avanzò in mezzo a quel gruppo riconoscendo gli uni, veggendo altri con pena e dispiacere, e diffidando di tutti. La vecchia governante gli fece una molto amichevole accoglienza: Ecco, disse ella, la mia testolina bianca; (notate, che egli aveva i capelli neri al pari dell’ebano) e dicendo queste parole voleva alzare la rugosa sua mano sul capo di Giovanni con un movimento, che teneva il mezzo tra una benedizione ed una carezza; ma la difficoltà che provò le fece conoscere, che quella testolina erasi alzata di un piede dall’ultima volta, che l’aveva carezzata. Al primo presentarsi di Giovanni tutti gli uomini che ivi si trovavano, si alzarono con i contrassegni di quel rispetto, che gl’Irlandesi non mancano mai di dimostrare alle persone di un rango superiore. Essi gli augurarono mille anni ed una lunga vita di soprappiù, e gli domandarono se volesse bere un bicchiere per calmare il suo cordoglio; ed all’istante medesimo si videro cinque o sei rosse e scarne mani presentargli ad un tempo de’ bicchieri di whiskey.
In quel frattempo la sibilla assisa in un canto del caminetto attendeva a fumare la sua pipa senza proferire parola. Giovanni ricusò gentilmente il liquore che gli veniva offerto, e diede un’occhiata così alla sfuggita alla vecchia grima ed un’altra alla tavola, ove era imbandito un magnifico trattamento ben differente da quello che era accostumato di vedervi un tempo. Il piatto delle patate avrebbe sembrato al vecchio Melmoth, che dovesse servire per otto giorni: nè questo era tutto; vedevasi ancora preparato un piatto di vitello contornato d’interiora d’animali, dei gamberi di mare e del rombo fritto.
Per umettare un tale e sì splendido pasto, si vedevano disposte in fila molte bottiglie di ala di Wicklou, prese segretamente dalla cantina del padrone di casa, ed il cui sordo fischiare dava assai chiaramente a conoscere l’impazienza che si levasse il turacciolo; ma il whiskey ben fatturato era quello che riportava la palma, onde è che ognuno ne faceva l’elogio, e per contestarne la sincerità ne beveva a lunghe sorsate.
Giovanni dando un’occhiata intorno a sè non potè fare a meno di risovvenirsi della morte di don Quichiotte, quando non ostante il dolore, la sua nipote mangiò secondo il solito, la governante bevette pel riposo dell’anima di lui e Sancio stesso credette di poter sollazzarsi un poco. Dopo che Giovanni ebbe restituito il saluto a tutti gli astanti, dimandò come andava la salute di suo zio: Non c’è male; rispose uno: un poco meglio, disse un altro: ha peggiorato un poco, replicò un terzo. Giovanni rivolgendosi con vivacità ora da una parte, ora dall’altra, pareva voler dimandare a chi dovesse prestar fede: Dicono che il buon vecchio ha avuto uno svenimento, soggiunse un uomo di una corporatura robusta e alto quasi dieci piedi, che dopo essersi avanzato con aria misteriosa fece rimbombar, con una voce stentorea sei pollici al disopra della testa di Giovanni le surriferite parole. Sì, aggiunse un secondo, ed intanto tracannava il bicchiere che Giovanni aveva ricusato, ma il malato ha avuto il tempo di rimettersi. All’udir coteste parole la sibilla senza muoversi dal posto dov’era, si cavò lentamente la pipa di bocca e si rivolse verso la comitiva. Giammai la Pitonessa montata sul suo tripode non eccitò maggiore spavento, nè fece fare un silenzio più profondo: Non è già qui, disse ella ponendosi lo scarno dito sulla fronte ricoperta di solchi, nè qua nè qua, toccando successivamente la fronte di quelli, che le stavano vicino e che si abbassavano come per riceverne la benedizione, e bevendo in seguito un bicchiere quasi per assicurarne l’effetto: Il suo male è qui, intorno al suo cuore, e così dicendo appoggiava le dita sull’incavato suo petto, e con tale una forza di azione, che fece fremere tutto il suo uditorio. Il suo male è qui, ripetè ella, eccitata senza dubbio dell’effetto, che vedeva di aver prodotto; dopo di che ricadde sul suo sedile, si avvicinò di nuovo la pipa alla bocca, e non proferì più alcun accento. In cotesto momento d’involontario tremore e silenzio un sinistro suono udissi rimbombare per la casa, al quale tutta parve elettrizzarsi la comitiva. Cotesto suono era del campanello di Melmoth. I domestici di lui erano tanto scarsi di numero, e sempre stavano a lui tanto vicini, che il suono del campanello fece su di essi lo stesso effetto, che se avessero sentito da lui medesimo suonare la campana pel suo interramento. È stato sempre solito di picchiare su di un tavolino quando mi voleva, disse la vecchia governante, perchè egli non voleva consumare il cordone del campanello.
Ciò non ostante quel suono produsse l’effetto, che si doveva aspettare naturalmente. La governante si slanciò nella camera del malato, seguita da molte femmine (piangneti) pronte ad ordinare de’ medicamenti se egli respirava ancora, od a piangere per lui, se avesse omai renduto l’ultimo respiro. Elleno battevano palmo con palmo le mani, e si rasciugavano gli aridi occhi. Coteste vecchiaccie laide attorniarono il letto, ed a sentire le voci lamentevoli con le quali andavan ripetendo: Oh! egli se ne muore! Il signore va a morire! va a morire il signore! sarebbesi creduto che la loro vita fosse irrevocabilmente attaccata a quella di lui. Quattro fra loro si torcevano le mani e mandavano degli urli intorno al letto, intanto che una quinta sollevò con una prestezza inconcepibile le coltri per sentire i piedi del malato, e dichiarò che erano freddi siccome un marmo.
Il vecchio Melmoth ritirò prontamente i piedi, e con un occhio, cui la vicinanza della morte nulla aveva tolto della sua perspicacia, contò il numero delle persone, ch’eransi radunate intorno al suo letto, si alzò a metà, appoggiossi sull’appuntato gomito, e respingendo la vecchia governante che voleva raddrizzargli il berretto da notte, gridò con una voce, che fece trasalire tutti gli astanti: che diavolo siete voi tutte venute a far qui? Cotesta invettiva disperse per un momento la truppa di quella femmine, le quali però non tardarono a riunirsi. Parlavano sommessamente tra loro, e dicevano facendosi de’ replicati segni di croce: Il diavolo! che Gesù Cristo abbia misericordia di noi! il diavolo è stata la prima parola, che ha pronunziato la sua bocca! Sì, gridò con quanto aveva di forza il malato, e il diavolo è il primo oggetto che gli occhi miei abbiano veduto. Quando? dove? esclamò la governante spaventata, e nascondendosi nella coperta, che senza misericordia aveva tolta dal letto del moribondo. Là, là, riprese egli accennando le femmine riunite, e sorprese di sentirsi trattare da demonii, mentre elleno erano venute per discacciarlo.
Signore! disse la governante con un tuono di voce più raddolcito, e che non le riconoscete più? Non è quella la tale e l’altra la tale? Noi risparmiamo a’ nostri lettori una folla di nomi irlandesi barbari che ci sarebbe impossibile di pronunziare, e non ne citeremo che un solo per esempio; desso era Cotchleen O’ Mullighan.
Tu mentisci, carogna, rispose borbottando il vecchio Melmoth; desse si chiamano legioni, perchè sono in gran numero; siano discacciate da questo luogo, lo siano di casa mia; se elleno vorranno piangermi dopo che sarò morto, ne darò loro il motivo. Elleno non tracanneranno il whiskey, che avrebbero involato, se loro fosse riuscito. Mentre diceva queste parole trasse fuori di sotto del capezzale una chiave, che fece vedere con un’aria trionfante alla sua governante, la quale ciò non ostante sapeva come fare quando voleva prendere del whiskey. E neppure, soggiunse il malato, mangeranno più le vivande, che voi avete loro regalate. — Regalate! mio Dio! esclamò la governante. — Sì, sì, so quel che mi dico. E perchè questa provvisione di candele, tutte di quattro per libbra? scommetterei, che in cucina ve ne sono altrettante. — In verità, signor padrone, sono tutte di sei per libbra. — Di sei! E perchè mai, diavolo, ne consumate da sei? Credete forse di esser prossima a vegliare il mio cadavere? Eh? no, signore, non siamo ancora al punto, non siamo al punto, gridarono ad una voce le fattucchiere, ma ciò sarà quando piacerà all’Onnipotente; il signore dovrebbe ben pensare alla sua anima. Ecco le prime parole di buon senso, che voi abbiate dette, riprese il vecchio Melmoth; datemi il mio libro delle preghiere. Voi lo troverete là sotto quel tira-stivali; toglietene i regnateli: sono molti anni che io non l’ho aperto.
La vecchia governante gli recò il libro; egli lo prese, e rivolgendo su di lei uno sguardo di rimprovero: Per qual motivo, le disse, consumare in cucina delle candele da sei, vecchiaccia scioperata? Quanti anni sono, che vi trovate a servire in questa casa? — Non saprei dirlo precisamente, signore. Mi avete mai veduto usare della prodigalità o fare spese superflue od inutili? — Oh! mai, mai signor padrone. — In cucina sono state mai bruciate candele più grosse di quindici alla libra? — Mai signor padrone, giammai. — Non vi ho tenuto tutto ben rinserrato per quanto è stato possibile? rispondete. — Senza dubbio, signor padrone. Tutti vi rendono giustizia, e sanno, che non vi ha in questi contorni nè casa nė mano tanto ben serrate quanto le vostre. — E se è così, come osate voi disserrarle prima della mia morte? Io ho sentito l’odore delle vivande; ho ascoltato il suono delle voci; ho sentito girare e rigirare la chiave nella serratura: Oh? perchè non sono io levato! aggiunse rotolandosi pel letto; oh! perchè non sono levato per vedere cosa si fa in cucina?.... Ma no, ciò mi ucciderebbe, il solo pensiero mi uccide. E così dicendo si gettò indietro di nuovo e posò il capo sul capezzale, perchè in vita sua non si era mai servito del guanciale, riputandola una cosa di troppo lusso.
Le donne straniere, che ivi erano, sconcertate ed abbattute cominciavano a ritirarsi guardandosi fra loro e parlandosi sommessamente; ma la voce acuta di Melmoth le richiamò, e ritornate indietro disse loro: ed ora dove andate voi? Ritornate forse in cucina per mangiarmi il mio? Non vi ha alcuna fra voi, che qui voglia fermarsi intanto che io faccio leggere una preghiera? Potreste averne bisogno anco per voi medesime, vecchie maliarde. Maravigliata di cotesta risposta e minaccia, la turba ritornò indietro, e si dispose di nuovo intorno al letto, intanto che la governante, quantunque fosse cattolica, dimandò al padrone se volesse farsi venire un predicante della sua credenza. Gli occhi del moribondo espressero il malcontento cagionato da tal proposizione. E per che fare, rispose, perchè faccia d’uopo somministrargli una ciarpa ed un velo pel mio interramento? Leggete, leggete vecchia balorda; ciò sarà tutto risparmiato.
La governante si provò a leggere, ma fu obbligata a smettere a motivo del pessimo stato de’ suoi occhi. Il malato dimandò, se fra tante donne ve ne fosse una che volesse rimpiazzarla. Se ne offerse una che aveva più buona volontà, che attitudine o capacità, e che leggendo senza intendere una sillaba di quello, che leggeva, terminò, senza accorgersene, la preghiera per gli agonizzanti, e proseguendo lesse quella della cerimonia della purificazione delle femmine dopo il parto, che nella liturgia inglese trovasi dopo le preghiere per gli agonizzanti. Dessa leggeva con una gravità maravigliosa; ma fu disgraziatamente interrotta due volte; primieramente quando il vecchio Melmoth disse alla governante: Andate, e coprite il fuoco in cucina; chiudete quindi la porta a chiave, e fate che io la senta girare dentro la serratura. Fino a tanto che tuttociò non sarà eseguito, non posso stare con la mente raccolta e badare alla lettera. La seconda interruzione fu quella di Giovanni Melmoth, che essendo entrato nella camera, sentì le parole che pronunziavano la vecchia ed inginocchiandosi avanti al letto di suo zio, tolse il libro di mano alla lettrice, e lesse a bassa voce le preghiere, che nella liturgia della chiesa anglicana sono state a conforto de’ moribondi destinate.
Questa è la voce di Giovanni, disse il vecchio, che ad un tratto si risovvenne di quel poco d’amicizia, che aveva sempre dimostrata all’infelice giovane. Ne rimase commosso; e d’altronde veggendosi attorniato da domestici, rapaci e senza attaccamento, e quantunque non avesse molto da sperare da un congiunto, che egli avea sempre considerato come estraneo, in quel momento sentì, che tale non gli era, ed a lui attaccossi, come suo unico ed ultimo sostegno. Onde indirizzandogli la parola con una certa inusitata amorevolezza: Sei dunque venuto, gli disse, mio caro Giovanni? Io ti ho tenuto da me lontano pel corso della mia vita, ed ora che io sono prossimo al fine dei miei giorni, tu mi sei al fianco?... Prosegui a leggere, il mio caro figlio, Giovanni profondamente commiserando la posizione in cui trovavasi cotesto uomo, povero in mezzo a tutte le sue ricchezze, e commosso alla dimanda solenne di apprezzargli negli estremi suoi momenti in cui avea qualche consolazione, continuò la sua lettura; ma la voce cominciò ad alterarglisi incontanente per l’orrore, che gl’ispiravano gli estremi singulti ed il rantolo della morte, in preda dei quali era caduto il malato, che non dimeno non cessava di tanto in tanto di dimandare alla governante se aveva ben coperto il fuoco.
Giovanni essendo dotato di molta sensibilità alzossi con emozione: Mi abbandonate voi pure al pari di tutti, gli altri? gli disse Melmoth facendo degli sforzi per sollevarsi sul letto. No, signore, rispose Giovanni osservando attentamente la fisonomia cambiata del moribondo; ma ho pensato, che voi potreste aver bisogno di ristorarvi, e prender qualche cosa per ritornare in forze. — Sì, sì, ne ho di bisogno; ma di chi fidarmi per mandare a prendere ciò che potrebbe farmi all’uopo? Di quelle ribalde forse? soggiunse volgendo lo sguardo su quelle donne che gli stavano in torno al letto, elleno sarebber capaci di avvelenarmi. — Fidatevi pur di me; andrò io dallo speziale, e dovunque fa di bisogno, se voi lo desiderate. Il vecchio allora lo prese per mano, e facendolo avvicinare un poco più al letto cominciò a gettare sugli altri personaggi delle occhiate or minaccievoli ora inquiete e titubanti, poscia disse sotto voce al nipote: Vorrei bere un bicchiere di vino; ciò prolungherebbe di alcune ore la mia esistenza; ma non oso di dare a nessuno l’incombenza di andarmelo a prendere; me ne involerebbero una bottiglia. Giovanni rimase al sommo indispetito e dispiacente per quella osservazione. In nome del cielo, gli disse, permettete a me, signore, che vada io stesso a prendervi il bicchiere del vino. Voi non sapreste dove trovarlo, gli rispose il vecchio con una espressione di fisionomia, che Giovanni non seppe comprendere, ciò non ostante si fece ardito a soggiungergli. No, signore, non saprei dove trovarlo; perchè voi sapete bene, che in questa casa sono stato quasi sempre come uno straniero. Prendete questa chiave, gli disse allora il vecchio Melmoth, dopo aver provato uno spasimo violento, prendete questa chiave; dentro quel gabinetto la vi è del vino, del Madera. Io ho sempre loro detto, che non v’era nulla, ma essi non mi hanno creduto; se non fosse stato così, avrebbero essi potuto derubarmi, come hanno fatto? Una volta dissi loro, che là dentro io teneva del whiskey; ma fu peggio per me: me ne bevettero al doppio. Giovanni prese la chiave dalla mano di suo zio. Il moribondo nel dargliela strinse la mano del nipote, il quale interpretando quel movimento per un contrassegno di amicizia, gliela strinse ancor esso; ma non tardò a rimanere disingannato dalle seguenti parole, che il vecchio gli disse all’orecchio. Giovanni, figlio mio, badate di non bere di quel vino mentre sarete la dentro. Giusto cielo! esclamò Giovanni gettando con indegnazione la chiave sul letto; ma poscia riflettendo, che l’infelice creatura, che gli stava innanzi agli occhi, non poteva essere oggetto del suo risentimento, gli fece la promessa, che egli aveva dimandata, ed entrò nel gabinetto in cui da sessanta anni da quella parte nessuno era entrato, ad eccezione di Melmoth. Ebbe della difficoltà a trovare il vino, e restò dentro tempo sufficiente a destare i sospetti di suo zio; ma il di lui spirito era agitato, la mano gli tremava. Non aveva potuto a meno di rimarcare, che lo sguardo del vecchio zio, nel dargli la permissione di entrare nel gabinetto, aveva congiunto il pallore dello spavento con quello della morte. L’orrore che avevano espresso tutte le donne quando egli vi si avvicinò non eragli similmente sfuggito, e finalmente quando vi fu entrato, la sua memoria fu bastantemente crudele da rammemorargli vagamente alcune circostanze, che vi avevano relazione, e che troppo erano spaventevoli, onde la immaginazione potesse arrestarvisi. Soprattutto però si fermò nella riflessione, che da un gran numero d’anni nessuno fuori di suo zio vi era penetrato.
Prima però di uscire alzò in aria la candela, e girò intorno lo sguardo misto di timore e di curiosità. Da principio non vide che inutili anticaglie quali uno deve aspettarsi di ritrovare nel gabinetto di un avaro, ma ben tosto i suoi sguardi si fermarono suo malgrado sopra un ritratto sospeso ai travicelli, e che gli parve meglio fatto di tutti quelli che si lasciano ammuffire sulle pareti de’ vecchi castelli. Desso rappresentava un uomo di mezza età; nel costume e nella fisonomia nulla vi era di rimarchevole; ma gli occhi eran di quelli, che uno non avrebbe mai voluto vedere, e cioè è impossibile dimenticare.
Spinto da un movimento doloroso, ugualmente che irresistibile, Giovanni si approssima la candela e distingue sul margine queste parole: In. Melmoth. An. 1646. Giovanni non era nè timido nè superstizioso: la sua costruzione non era nervosa, e ciò nondimeno non potè astenersi dallo esaminare il ritratto; ma fu compreso da un muto orrore, fino a che scosso da quel quasi letargo dalla tosse di suo zio, si affrettò a ritornare presso di lui. Il vecchio bevette il vino e sembrò un poco rianimarsi. Era molto tempo, che egli non aveva gustato nulla di così ristorante; aprì il suo cuore con una confidenza momentanea, e disse: Ebbene? Giovanni, che avete voi veduto in quella camera? — Niente signore. — Ciò è falso. Tutti qui vogliono o ingannarmi o derubarmi. — signore io non voglio fare nè l’una nè l’altra cosa. — Ditemi dunque che avete veduto ivi di... rimarchevole. — Niente altro che un ritratto, signore. — Un ritratto!... L’originale esiste tuttora!
Quantunque Giovanni non avesse obliata l’impressione fatta in lui dal ritratto, nulladimeno non volle dar nulla a conoscere. Giovanni, gli seguitò a dire suo zio, parlandogli sempre sottovoce, perchè gli altri non intendessero, Giovanni, pretendono che io muoia o questo e di quel l’altro malore, e chi dice che è per difetto di nutrimento, chi per non aver voluto far uso di droghe o di sostanze spiritose; ma s’ingannano. Qui la sua fisonomia si ricoprì di un pallore spaventevole, poscia proseguì. Oh! Giovanni, io muoio di una paura... Quindi stendendo le scarne braccia verso il gabinetto aggiunse: cotesto uomo... io ho delle buone ragioni da sapere, che esiste ancora. Come può esser ciò, rispose macchinalmente suo nipote, il ritratto porta la data del 1646? L’avete dunque veduto, l’avete esaminato? riprese suo zio. Dopo aver posato per alcuni istanti il capo sul capezzale, prese la mano di Giovanni, e con uno sguardo, che è impossibile dipingere gli disse: Ebbene! voi lo vedrete, perchè egli è ancora vivente. Il vecchio in seguito cadde in una specie di sonno o piuttosto di stupore, durante il quale i suoi occhi, senza mai chiudersi, erano fissi sul suo nipote.
Il più perfetto silenzio regnava in tutta la casa e nulla interrompeva le riflessioni del giovane Melmoth. Nel suo spirito si suscitava una folla di pensieri, che egli avrebbe voluto di scacciare; ma che suo malgrado gli si riaffiacciavano. Ripensò alle abitudini ed al carattere di suo zio, e disse fra sè medesimo. Non ha mai esistito persona meno superstiziosa di lui. Egli in tutta la sua vita non si è occupato che del prezzo degli effetti pubblici o del corso de’ cambi, meno che gli pesavano sul cuore più di tutto il resto. È egli credibile che un uomo tale di tal tempra muoia d’una paura ridicola? Immaginarsi, che un individuo, il quale viveva cencinquanta anni fa, viva ancora! Eppure... egli muore. Giovanni proseguiva oltre nelle sue riflessioni giacchè i fatti arrestano e fanno girare il capo al logico il più ostinato. Tutta la durezza del suo spirito e del suo cuore, non gli impedisce di morire d’una paura!... Me lo avevano già detto in cucina; me lo ha ripetuto egli stesso, nè può essersi ingannato. Se almeno avessi inteso dire lui esser di nervi irritabili, fantastico, lunatico, superstizioso ma il suo carattere è tutt’affatto! differente! Un uomo che avrebbe venduta la sua anima e il suo Salvatore!....... Che un tal uomo muoia di paura; e per ciò non ostante egli sen muore!... Mentre Giovanni proferiva queste ultime parole gettò uno sguardo doloroso sulla fisonomia di suo zio, che già presentava tutti i sintomi della faccia Ippocratica.
Il vecchio Melmoth, era, come abbiam detto, immerso in una specie di supore. Giovanni credendolo addormentato, prese di nuovo in mano la candela, e spinto da un impulso del quale egli medesimo non poteva rendersi conto, entrò di nuovo nella camera condannata. Il movimento che egli fece risvegliò il moribondo, che si sollevò sul letto. Giovanni non se ne accorse; ma intese i gemiti o piuttosto il rantolo spaventevole, che annunzia l’ultimo contrasto tra la vita e la morte. Rabbrividisce e si rivolta per ritornare indietro, e nel volgersi gli sembra di vedere gli occhi del ritratto, sul quale i suoi erano fermi, muoversi e girare. Rientra precipitosamente pertanto nella camera di suo zio.
Il vecchio Melmoth morì nel corso della notte; egli morì qual visse, in una specie di delirio di avarizia. Giovanni non erasi mai formato l’idea di una scena tanto terribile, quale fu quella dell’ultima ora di suo zio. Egli si sfogò in vomitare giuramenti e bestemmie per una differenza di tre lire, che mancavano, secondo che egli diceva, da più settimane in un conto, che il suo palafreniere gli aveva fatto pel fieno del cavallo, cui egli faceva morire di fame. Nell’istante medesimo afferrò la mano di Giovanni, e gli disse di ammistrargli lui i sacramenti. Perchè, proseguiva a dire, se mando a chiamare un ministro ci vorrà del denaro, ed io non ho da dargliene: non ne ho assolutamente. Dicono che io sono ricco... guardate cotesti arnesi, che mi ricoprono; ma ciò poco m’importa purchè possa io salvare l’anima mia. Quindi credendo di parlare realmente ad un ecclesiastico aggiunse nel suo delirio: In verità, dottore, io sono miserabilissimo. Fino al presente non sono mai stato a carico della chiesa, ma oggi vi dimando due grazie: la prima di salvare l’anima mia; la seconda che procuriate che io sia interrato a spese della parrocchia perchè non mi trovo tanto da supplire a questa spesa. Io ho sempre detto di esser povero; ma quanto più io lo diceva, tanto meno mi volevano prestar fede.
Giovanni allora si allontanò dal letto con la più penosa sensazione, ed andò ad assidersi in un angolo della camera. Le donne erano tutte rientrate; il tempo era molto buio; Melmoth spossato non proferiva più accento; dappertutto regnava un tetro, silenzio. In quel stesso momento si spalanca la porta; un personaggio entra, dà un’occhiata intorno alla camera, e si ritira tranquillamente e senza parlare. Giovanni, che lo aveva veduto, riconobbe agevolmente l’originale del ritratto. La sua prima impressione fu di mandare un grido, ma la voce non lo secondò. In seguito voleva alzarsi per seguire l’incognito, e dopo un momento di riflessione si arrestò. Qualcosa più ridicola, d’essere spaventato o sorpreso dalla rassomiglianza fra una persona viva ed il ritratto di un morto? Cotesta rassomiglianza era, per vero dire, molto significante, talchè a ragione ne era rimasto maravigliato e sorpreso anco in una camera male illuminata, ma in realtà non poteva esser altro che una rassomiglianza; quantunque essa avesse potuto spaventare un uomo avanzato in età ed in cattivo stato di salute, Giovanni risolvette di non cedere ad una simile debolezza.
Intanto però che applaudiva a sè stesso per quella risoluzione; la porta si schiuse un’altra volta: e la medesima persona comparve una seconda volta facendo al nostro giovane de’ segni di testa e di mano, con una familiarità, che non rincerava molto. Giovanni si alzò precipitosamente dalla seggiola dove era seduto, determinato questa volta di seguirlo, ma ne fu ritenuto dalle acute, benchè deboli grida di suo zio, che combatteva ad un tempo contro la morte e contro la sua governante. Costei inquieta per la riputazione sua, e del suo padrone voleva a tutta forza mutargli la camicia, ed il berretto da notte per mettergliene di bucato, intanto che Melmoth, che conservava ancora tanto conoscimento da accorgersi, che gli levavano qualche cosa di dosso, gridava per quanto le indebolite forze glielo permettevano: Mi spogliano, mi derubano ne’ miei estremi momenti; derubano un povero moribondo. Giovanni, e non verrai tu in mio soccorso? Sarò costretto a morire sulla paglia; mi portano via la mia ultima camicia, muoio sulla paglia!... E proferendo queste ultime parole il vegliardo spirò.