Lydia/XV
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XV.
Nella caldura massima di luglio, la contessa Colombo decise di andare in villa, e Thèa la seguì per passare con lei l’ultima settimana di congedo — così diceva, ridendo. In agosto voleva trovarsi a Vienna, perchè suo figlio usciva dal collegio imperiale. Prese con sè anche Lydia. La villa era vicinissima alla città; un ampio e pomposo fabbricato, da gente rifatta; ammobigliato con lusso, con abbondanza eccessiva, ma comodo e perfettamente isolato nella pianura verde.
Otto, dieci giorni, sarebbero passati presto; troppo presto per le due amiche che avevano ancora tante confidenze da farsi, che provavano ad ogni istante il bisogno di stringersi la mano, di scambiare un bacio, di dichiararsi a vicenda che si volevano tanto, tanto bene.
Scelsero, per dormire, due camerette attigue; e sera e mattina era un andirivieni continuo dall’una all’altra, un cinguettare, un ridere, un chiamarsi, da vere bimbe in vacanza.
Thèa, ad onta de’ suoi trentasei anni, era viva, svelta, sempre allegra; sarebbe parsa una ragazza, se gli occhi profondi e il sorriso enigmatico non avessero indicato un doppio fondo di pensieri e di sensazioni affatto contrarie all’innocenza. La sua voce era strana, velata; principalmente quando parlava cogli uomini aveva inflessioni di abbandono, come di stanchezza voluttuosa.
— Io sento — le diceva Lydia — che tu devi piacere immensamente agli uomini.
— È vero — rispondeva la baronessa, cui un fremito agitava l’angolo della bocca — per equilibrio, le donne non mi possono soffrire.
— Ed io dunque?
— Sei l’eccezione.
Alla sera, mentre le due amiche si spogliavano, scherzando e ridendo finchè fossero in camicia tutte e due, Lydia osservò al collo di Thèa un medaglione appeso ad una catena quasi invisibile ed appoggiato fra le trine del busto.
— È il ritratto di tuo figlio? — domandò, avanzando la mano con un movimento istintivo.
— Sì, sì, di mio figlio — rispose in fretta la baronessa, sottraendosi alla curiosità dell’amica.
I primi quattro giorni trascorsero di volo. Il quinto, all’asciolvere, la baronessa ricevette una lettera, dopo la quale restò preoccupata e nervosa per il resto della giornata. Sul tardi ebbe un lungo colloquio colla madre.
Lydia immaginò che il barone le avesse annunciata qualche cattiva notizia d’affari; ma non ricevendo confidenze, non fece interrogazioni. Prima di coricarsi chiese a Thèa:
— Ti senti male?
Rispose di no.
— Posso esserti utile?
Rispose ancora di no.
Allora si salutarono, baciandosi sulle guancie.
Per la prima volta, Thèa chiuse l’uscio della propria camera.
L’indomani, Lydia, fu svegliata per tempo da un tramestìo nella casa; ed avendo cercato inutilmente di riaddormentarsi, si alzò e discese nel salotto terreno. Non c’era nessuno; le finestre chiuse, i fiori del giorno prima mezzo avvizziti nelle coppe, i giornali sparsi su per i mobili, tutto indicava che nemmeno le persone di servizio erano entrate ancora nel salotto.
Uscì nel cortile. Sulla porta delle stalle, un mozzo puliva i finimenti, e li metteva al sole per farne meglio asciugare e luccicare gli ottoni. Davanti alla cucina, un contadino con due corbe di frutta, aspettava. Dalle stalle uscivano i nitriti dei cavalli; dalla cucina veniva un odore penetrante di caffè bruciato, e sopra ogni cosa dardeggiava il sole, splendido, già caldo.
Senza piano stabilito, Lydia prese una stradicciuola nei campi; avrebbe fatto venti passi o ne avrebbe fatti cento, questo le era perfettamente ignoto. Appoggiava sul terreno molle la punta dell’ombrellino, gustando il piacere di passeggiare libera, fuori degli sguardi, senza preoccupazione dell’effetto; e siccome la sensazione esterna dominava sovrana sul vuoto del suo cuore e del suo cervello, ella provava un vero benessere, si sentiva più giovane.
Dopo i tentativi infruttuosi fatti in seguito alla lettura di Coppée, ella non aveva più pensato a collegare le sue impressioni con un raziocinio artistico; si accontentava di sentire. Così sentiva la freschezza dell’erba, dell’aria, pensando al nuovo colore imposto dalla moda, che non poteva in verun modo armonizzare col suo genere di bellezza. Errando collo sguardo sulle pratelline, sulle dolcissime pervinche, ella aveva ancora nella retina dell’occhio le figure procaci della Vie Parisienne, il giornale prediletto di Thèa, ma questo dualismo bizzarro, solleticando, più che urtando, i suoi nervi, le accresceva il piacere.
Non pensava, pensare è una fatica. Assisteva semplicemente come spettatrice allo sfilare caleidoscopico delle impressioni. “Bella quella siepe! Ne cherche pas quels doigts ont effeuillé l’érable. Che cos’è érable? Pioppo? Non mi pare. Ni quels pieds ont laissé leurs traces sur le sable. Sable, érable, forse érable è biancospino; no, biancospino è aubépine. Indovinala grillo! Ogni albero ha un nome come i personaggi dei romanzi, che poi si confondono... Oddo, Max, Ralph... Mi piace Ralph; dovrebbe essere biondo nei baffi, coi capelli bruni e gli occhi azzurri — nordico. Un viaggio sul Reno, quale prospettiva! Che pace, che frescura, che biondezza! Mangiano il filetto di bue coi lamponi, però. Lamponi o fragole? L’acqua di fragole, per la pelle, ottima, lo dice Mantegazza. Le fragole, della terra promessa... ah! no, era l’uva. L’uva, Mosè, il popolo ebreo... Le ebree non portavano busto; forse mi confondo, sono le messicane che non lo portano; ma fa lo stesso, vorrei vederle a quarant’anni... Ne cherche pas quels doigts... Caprifoglio? Acacia?„
Il sentiero non era deserto; qualche contadino passava, grave in volto. Più spesso una o due donne le giungevano alle spalle, leggiere, cogli zoccoli in mano, sfiorando la terra con le loro pianelle sottili senza tacco; avevano certe gonne arricciate sui fianchi e le tenevano rialzate per non imbrattarle, mostrando la sottana bianca coll’orlo alto, sormontato da un merletto che formava trasparente fra l’orlo e la sottana, e attraverso il quale si vedevano le caviglie.
Questo particolare fece a Lydia una impressione buffa. Si pose a guardare quelle donne con maggior interesse, e fu sorpresa di vederne sempre crescere il numero, tutte vestite in ghingheri, colle sottane bianche e la pezzuola in testa.
Dove diamine vanno? — pensò — ma non seppe vincere una certa ripugnanza a rivolgere loro la parola; finché allo svoltare del sentiero le apparve chiara la meta di quel pellegrinaggio in una chiesuola parata a festa, sulla cui porta si accalcavano altre donne tutte compunte e nello stesso tempo ilari.
È forse domenica oggi? — tornò a pensare Lydia, — e fatta persuasa, da un breve calcolo, che non poteva essere domenica, si sentì trascinata a entrare nella chiesuola. Era, dopo tutto, una cosa nuova per lei.
La religione non teneva nessun posto nella sua vita, nè come fede, nè come protesta. Non era nè credente, nè atea, perchè non ci aveva mai pensato. Da bambina si era abituata a considerare la messa della domenica come uno dei tanti riti sociali, come il saluto alle persone che si conoscono, come il cedere la destra, non sedersi a mensa prima dei superiori, mandare un biglietto di congratulazione, fare una visita di condoglianza, assistere a una conferenza della quale non si capisce nulla, e applaudirla.
Il suo pensiero, spoglio di idealità, non aveva mai provato il bisogno di innalzarsi verso un essere superiore; il suo cuore, senza veri dolori, non era mai stato trascinato allo sfogo consolante della preghiera. Le mancava affatto il sentimento religioso, nè in famiglia era stato coltivato; poichè don Leopoldo apparteneva un pochino, moderatamente, alla schiera volterriana che, sul principio del secolo, accoglieva le intelligenze più sottili, e Donna Clara, massa inerte, avrebbe insegnato col suo contegno la più grande indifferenza, se l’indifferenza per tutto ciò che esce dal benessere sensuale, Lydia non l’avesse già respirata in sè e attorno a sè, dal giorno della sua nascita.
La chiesuola era nuda di pitture e di marmi. Sull’unico altare stava raccolto tutto il lusso disponibile: quattro candelabri di rame, due di legno e un mazzo di fiori rusticani, dalie, garofani e rose della madonna. Il prete, con una stola verde e la cotta bianca inamidata, salì all’altare e si fece il segno della croce. Subito si segnarono tutti, anche Lydia, meravigliata di trovarsi in quell’ambiente, ritta in piedi accanto al primo pilastro, osservando quel pubblico così nuovo. La maggior parte erano donne, quasi tutte o brutte o vecchie, colle vite grosse, deformate; la pelle rugosa, le mani incallite dal lavoro. I loro abiti sapevano di cotone tinto, e dai loro corpi uscivano, sotto forma di odori indistinti, delle reminiscenze di lavatoio, di latte quagliato, di piatti di stagno, di tela di canape e di bambini sudici.
Lydia guardò sé stessa, le sue manine trasparenti e candide, che nessuna puntura aveva offese mai, che i profumi avevano penetrato fin sotto la pelle; pensò alle sue biancherie di batista, al suo corpo che le cure assidue conservavano puro, e in quel confronto, la sua vanità trovò ancora una gioia. Sollevò la testina altera, e dal busto di raso, il petto, sotto un impeto d’orgoglio, balzò, procurandole una rapida sensazione di ebbrezza.
Intanto tutte le donne si erano messe in ginocchio, umiliate, sprofondate; e un canto lento, solenne, uscì dalle lor bocche, accompagnando il canto del sacerdote.
— Che cosa è questo? — chiese Lydia, quasi a sè stessa, involontariamente.
Una le rispose: — Le litanie. Si festeggia Sant’Anna, la protettrice di noi donne. Dicendo così, quella si serrava tra le braccia un figliuoletto, con una espressione di giubilo intenso, con un sentimento di riconoscenza mite e profondo.
Il canto saliva, intonato, tra i nuvoli d’incenso. Una voce fresca di fanciulla passò su tutte le altre con un acuto prolungato: Stella mattutina, e quelle due parole che parevano di romanza, di canzone d’amore, salirono più alte, librandosi come colombe, ricadendo morbide e dolci su tutte quelle teste piegate.
Le fiammelle dell’altare ondeggiavano, velate dai vapori dell’incenso; al di sopra del tabernacolo, un piccolo quadro rappresentante Sant’Anna, sembrava sorridere alla schiera devota, ammonendo e consigliando, mentre il mazzo di fiori un po’ stridulo nella pompa delle dalie e dei garofani rossi, portava una nota baldanzosa sulla penombra dell’altare. Dalla porta spalancata si intravedeva la fuga dei campi, dei prati opulenti, e più in fondo, radiosamente calma, la linea del cielo.
E il canto continuava lento, disteso. A tratti una invocazione più alta, quasi fatta con maggior fervore, colpiva le orecchie di Lydia: Regina Angelorum; Regina Martirum; Regina Virginum. Le voci erano appassionate, piene d’amore più ancora che di fede. Certi volti rugosi si illuminavano di una luce ispirata, certe labbra si protendevano come per baciare. Ora pro nobis, ripetevano in coro quelle donne, strette, unite da un solo sentimento, assorbite tutte nella dolcezza mistica della preghiera.
Lydia, ritta accanto al pilastro, era la sola che se ne stesse muta. Non sapeva pregare. Le venne bensì una voglia grande di conoscere quel canto, di ripetere quelle parole soavissime, ma non sapeva, non sapeva.
Ancora, come quando aveva voluto intendere i poeti, come quando aveva voluto interrogare la natura, le si affacciava il misterioso enigma della vita, il perchè di tante ebbrezze, di tante lagrime, di tante estasi che essa non conosceva. Ci doveva essere una emozione più intensa della gioia, un piacere più forte di quello che si chiama comunemente piacere, qualche cosa di profondo che doveva scuotere tutte le fonti del sentire. Ma che cos’era? Apparteneva alle sensazioni esterne, o non era piuttosto uno stato di grazia, un’intima fecondazione per cui, invece che dalla natura all’anima, saliva dall’anima alla natura l’intendimento di tutte le cose amanti?
Che provavano mai quelle povere donne, apparse un momento prima poco più che animali domestici? Perchè questa sembrava tanto lieta accarezzando la testa del suo bambino? Perchè l’altra si trasformava tutta in un atto di adorazione sublime, cogli occhi fissi sulle nuvole d’incenso? Si indovinavano i palpiti del cuore sotto le vesti di cotone, si capiva che le mani tremavano stringendo i rosarii. Cento anime ardenti, innamorate, volavano, insieme al canto divino, su in alto, fuori del mondo, trasportate da un ideale che Lydia non aveva — ed esultavano, erano felici...
Felici! Ecco dunque ciò che le sarebbe mancato sempre. Un affanno la prese, una tristezza senza nome e insieme la paura nel trovarsi così profondamente sola. Un minuto ancora ch’ella restasse nella chiesuola, e piangeva; sì, avrebbe pianto in mezzo a quelle donne, invidiandole, morsa al cuore dalla disperazione di non poter amare.
Si allontanò, inosservata, correndo; mentre sotto le vôlte della povera chiesa echeggiava l’ultimo canto: Agnus Dei, qui tollis peccata mundi.
Alla villa non si erano accorti dell’assenza di Lydia, la credevano in camera. Quando entrò nel salotto terreno, così come si trovava, col parasole in mano, vide Théa che discorreva animatamente con uno sconosciuto, in piedi tutti e due.
Volle ritirarsi, ma Thèa le gridò: — Vieni, vieni!
Lo sconosciuto si voltò verso chi entrava, e Lydia rimase colpita, guardandolo, come all’apparire di una visione.
— Keptsky! — mormorò.
— Siete vecchi amici, lo vedo bene; — si pose a dire ridendo la baronessa — le fotografie sono ormai così perfezionate che non c’è più bisogno di presentazione. Tuttavia, pour la forme: Il conte Keptsky, mio cugino: — la mia cara amica, contessina Lydia Valdora.