Lettere dieci di Virgilio agli Arcadi (1800)/Lettera III
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LETTERA III.
Eravam ragunati Greci e Latini per leggere dopo Dante alcun maestro poeta d’Italia, che col suo stile ci consolasse dell’incoltezza deforme della divina commedia; ed io già stava per cominciare, quando improvviso levossi e gridò Giovenale.
Nec mi aurum posco, nec mi pretium dederitis
Nec cauponantes bellum, sed belligerantes...
e seguia pur con tai versi, e con papiri vecchissimi tra le mani vociferando, se Orazio non accorrea per farlo tacere. E che? rispose il satirico, poichè vi piace dormire al suon de’ versi di Dante, non è più giusto far questo onore a que’ di Ennio e di Lucilio, che furono i nostri Danti? Bene strano ei sarebbe, se i bisavoli della nostra poesia non ottenesser da noi quella venerazione, e quello studio che gl’italiani riscuotono sin dopo cinque secoli dai lor pronepoti. Io m’impegno di risuscitare la fama loro a dispetto della durezza, della rusticità, dell’oscurità del lor non inteso linguaggio. Ci farò tanti comenti d’attorno, e a fronte, e a tergo, che ne verrà un gran volume. Le allegorie ne’ passi più strani, un calepino di voci antiquate alla mano, i titoli di divina all’opera, ed altri simili ajuti con una setta di lapidarj, di antiquarj, e d’accademici dal mio partito, che voglian essere poeti malgrado un’anima fredda, e insensibile sapran screditare l’iliade, l’eneide, e tutto il parnasso, che scrive per dilettare e farsi intendere. Lasciate poi fare a’ pacuviani, ed agli enniani che ben sapranno moltiplicar l’edizioni a migliaja. Se ottengo solo otto o dieci seguaci fanatici e zelanti adoratori, questo mi basta. Dietro lor correrà tutto il mondo poetico, e que’ pochi meschini che ardiron nascere con buon orecchio, e con anima armonica, che gustano la chiarezza, la nobiltà, le immagini e i voli della poesia, saran trattati da sciocchi, da ribelli, da empj bestemmiatori della sacra antichità, sicchè dovranno tacersi per lo migliore. Udite, adunque, udite il divino Pacuvio, il divinissimo Lucilio:
Vivite lurcones, comedones vivite ventres,
Ricini auratae cicae, & ocraria mitra
Quinque hastae aureolo cinctu rorarius velox...
Ma tu hai ben torto, diss’io, rompendogli a mezzo que’ suoi magici carmi, perchè nel vero, Pacuvio, Ennio, Lucilio e gli altri nostri barbuti poeti non hanno bellezze da paragonarsi a quelle dell’italiano. Essi infine altro pregio non hanno fuor che l’aver cominciato a far uso di alcune robuste espressioni, e naturali con qualche maniera di metro rinforzandole. Ciò stesso è un pregio comune a quanti uscendo dalla barbarie tentano qualche cosa. Dante non dee mirarsi nè come epico, nè come comico poeta. Non fece altro che descrivere un suo viaggio, e il capriccio non meno che le passioni furono, più che non io, sue vere guide e compagne in tal via. Quello non da regole, che ignote erano al tempo suo, non da presenti esempli illustrato, in tante allusioni, in tanti simboli, ch’ei solo intendea, e in così svariati luoghi ed obbietti il traviarono. Queste il condussero a parlare malignamente di tanti fatti e persone del tempo suo, delle quali non s’ha più contezza e a far pompa vana di tanta erudizione fuor di proposito, poichè in vero dottissimo ei fu, ma qual esser potea di que’ dì, sopra d’ogni altro. Il volerlo tutti imitare, il proporlo ai giovani, l’esaltarlo senza conoscerlo e senza intenderlo quest’è che noi condanniamo. Se a miglior tempi fosse vissuto sarebbe forse il maggior de’ poeti. A Dante null’altro mancò che buon gusto e discernimento nell’arte. Ma grande ebbe l’anima, e l’ebbe sublime, l’ingegno acuto e fecondo, la fantasia vivace, e pittoresca, onde gli cadono alla penna de’ versi e de’ tratti mirabili. Anzi giudico, che da questi venuto sia l’abuso dell’imitazione tra gl’italiani. La sua commedia, mostruosa per altro, presenta qua e là certe immagini così forti e terribili, de’ terzetti sì bene organizzati, che t’incantano in guisa da non sentir l’asprezza d’altri dodici o venti, che vengon dopo. Quei si tengono a mente, quelli si recitano e divengono una ricchezza della nazione. Il tempo la consacra, e si crede mercè di quelli più bello assai che non è tutto il resto. Gl’imitatori sempre inferiori al lor modello ne crescono il pregio. Gl’inerti e pedanteschi letterati vi fanno la glosa, si citano le sentenze dai freddi morali, le strane parole si registrano ne’ vocabolari, e tanti infin partigiani e stimatori col tempo vanno moltiplicando, che hai contro di te un popolo immenso a voler censurare il gran poeta. Perchè, dimmi ti prego, quanti sono in una intera nazione, che possono giudicare per intimo senso e per anima armonica del poetar generoso? Dieci o dodici al più; e la metà di questi nacque nelle campapagne, o in condizione servile, onde si portano nel sepolcro un talento senza aver sospettato giammai di possederlo. Eccoti come Dante ha trionfato e ancor regna. Qualche vera bellezza del suo poema, e un gregge infinito di settatori ha fatto il suo culto e la sua divinità. E in vero chi può resistere per esempio all’evidenza di que’ bei versi?
E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago alla riva
si volge all’acqua perigliosa, e guata:
Chi la mollezza e il fresco non sente di quegli altri?
Quale i fioretti dal notturno gelo
Chinati e chiusi, poichè il Sol gl’imbianca,
Si drizzan tutti aperti in loro stelo:
Il maestoso e il terribile come nol vede in quell’entrata d’Inferno?
Per me si va nella città dolente,
Per me si va nell’eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente;
Giustizia mosse il mio alto Fattore etc.
Diverse lingue, orribili favelle,
Parole di dolore, accenti d’ira,
Voci alte e fioche e suon di man con elle.
Questo sì è un verso divino. Lo stesso dico del quadro, in cui dipigne l’arsenal di Venezia, sicchè proprio ti trovi là dentro, e delle apostrofi contro pisani e genovesi ecc. E di tali interi ternarj ve n’ha sino ad un centinajo, se ben gli ho contati, tra cinque mille, che formano tutto il poema. I versi poi soli or sentenziosi, or dilicati, or piagnenti, or magnifici, e senza difetto, ardisco dire, che vanno a mille... Dunque, restano tredici mille difettosi e cattivi, riprese allor Giuvenale con impazienza, e quattro mille novecento terzine all’incirca restano da soffrirsi. Il bel poema invero, e la dilettevole poesia, ch’è questa! Non è egli lo stile quel punto in poesia principale e decisivo per cui perirono tanti poemi, e per cui non periranno alcuni pochi giammai? La dicitura, la versificazione, la poesia verbale in somma, cioè la poesia della poesia è pur il sugello della immortalità per te, per Omero, per Pindaro, per Orazio, e per me stesso, malgrado i miei difetti, onde siam la delizia di tutti i secoli? Che può dunque pretender Dante se manca in questo nelle tredici parti, e se riesce in una soltanto? Io sfido il Poeta Scitico, e Geta più barbaro, che mai cantasse in riva de’ mari glaciali, a parlar più basso, più duro, più falso, più freddo che non fa Dante in tanti luoghi. Udite come loda quello Scaligero signor di Verona:
Questi non ciberà terra nè peltro.
Ma sapienza amore e virtute,
E sua nazion sarà tra Feltre e Feltro.
Grand’uomo era certo costui, che mangiava sapienza, e virtù non essendo assai ghiotto di peltro o di sabbia; e Verona contrassegnata da due termini sì precisi, come è Feltre nella Marca Trivigiana, e Montefeltro verso Urbino, non è bella geografia? Oh possanza d’una rima bestiale! Il peggio è, che tai rime son giojelli per Dante.
Pape Satan, Pape Satan Aleppe,
Cominciò Pluto con la voce chioccia,
E così par che vada cercando il suo malanmalanno per tutto quel canto, di rima in rima sempre più stravagante:
Così scendemmo nella quarta lacca
Prendendo più della dolente ripa
Che ’l mal dell’universo tutto ’nsacca:
Ahi giustizia di Dio tante chi stipa
Nuove travaglie, e pene quant’i’ viddi,
E perchè nostra colpa sì ne scipa?
E di que’ malavventurati? Chi volta pesi a forza di poppa, e voltando a retro e gridando anche loro ontose metro. Poi dimanda:
Che gente è questa, e se tutti fur cherci
Questi chercuti alla sinistra nostra;
Ed egli a me tutti quanti fur guerci.
Sì della mente in la vita primaia,
Che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
Quando vengono ai duo punti del cerchio,
Ove colpa contraria li dispaia.
Questi fur cherci che non han coperchio
Piloso al capo, e Papi, e Cardinali,
In cui usa avarizia il suo soperchio.
e così va seguendo a dar del capo in rime strabiliate, e che portano sempre mala proprio una cosa infernale. Che dirò poi delle varie lingue in che parla? Rafel maì amech zabi almi - Vexilla Regis prodeunt inferni.
Di verno la Danoia in Austericch
Com’era quivi, che se Tabernicch
Vi fosse su caduto, o Pietrapana,
Non avria pur dall’orlo fatto cricch.
E così fa versi in lingue particolari di lombardia, e d’altre genti, che non pensarono mai dover entrare in un poema se non burlesco. Nè queste bizzarrie già condanno come il vizio peggior del poema. Condanno l’esser questo presso a poco di un gusto, e parlar barbaro, e duro perpetuamente, benchè le parole non sian sempre sì barbare. I glossatori trovano almeno i più be’ misteri del mondo e le più vaghe novelle che fosser mai dentro a que’ strani linguaggi. Leggete, vi prego, i grossi trattati, che han fatto ne’ loro gran tomi su questi passi divini il Vellutello, il Landino, Benvenuto da Imola, il Daniello, il Mazzoni, e tant’altri; e qual battaglie non attaccarono anche i moderni? Ma quando poi giungono al Purgatorio e al Paradiso, anch’essi questi campioni dan segno di stanchezza per quei diserti; perche dovete sapere, che non ho citato se non se passi dell’Inferno, che è il più nobile, e il più poetico della divina commedia, come già udiste. Tutto questo ho voluto leggere dopo l’ultima nostra conversazione, e parmi d’averne intesa, se troppo non son temerario, la metà incirca; ma l’altre due parti ho scorse qua e là prestamente, per tema di perdermi in quell’eterna vacuità. Per la qual cosa, o Virgilio, tu non devi anteporre per alcun modo il tuo Dante ad Ennio, o a Pacuvio, perche se mancano questi di qualche bel passo, e di fuoco, e di forza per consolar chi legge, non hanno nemmeno la crudeltà di Dante, onde tormenta senza pietà le orecchie, e la pazienza di chi si lascia condurre per quelle arene, per que’ precipizi, per quelle tenebre, per quel labirinto inestricabile ed infinito. Che se pur egli è vero, come verissimo è pure, non consistere il pregio d’un libro, e d’un poema in alcuni bei tratti qua e là scelti, e cercati, ma sì nel numero delle cose belle paragonato a quello delle malvagie, e nella soprabbondanza di quelle a queste, io concludo che Dante non deve esser letto più d’Ennio e di Pacuvio, e che al più se ne devono conservare alcuni frammenti più eletti, come serbansi alcune statue o bassi rilievi d’un antico edifizio inutile e diroccato.
Tacque alfin Giuvenale, e parve a tutti quel declamatore e satirico ch’egli è infatti per sua natura, ma insieme fu riconosciuto veridico e giudicioso nella sostanza delle sue critiche. Allor tutte quell’ombre di poeti, che mi stavano attorno, e massimamente i greci, che si dolevano del torto lor fatto per tanto tempo dagl’italiani, i quali avean messo Dante in pari sede con esso loro, dimandarono d’essere redintegrati. Fu dunque deciso, che Dante non dovesse aver luogo tra loro non avendo il suo poema veruna forma regolare, e secondo l’arte. Esiodo, Lucrezio e gli altri autori di poemi storici o filosofici a’ quali parea più tosto appartenere, ricusaron d’ammetterlo, se non si purgava di tante finzioni ed invenzioni capricciose e non ragionevoli, che forman per altro una gran parte dell’opera. Terenzio, Aristofane e i comici dimostrarono che per un titolo di commedia non si può divenire poeta comico, massimamente dove mai non si ride, e spesso si dorme, infin non trovavasi chi volesse della divina commedia restar onorato, e Dante correva pericolo d’essere escluso dal numero de ’poeti. Se non che veennemi in mente di propor loro in buon punto un consiglio: ciò fu di estrarre i miglior pezzi di Dante, che a loro stessi avean recaro cotanto diletto, e raccoglierli insieme in un unico volume di tre o quattro canti veramente poetici, i questi ordinare come si può, e i versi poi, che non potrebbono ad altri legarsi, porli da se a guisa di sentenze, siccome d’Afranio e di Pacuvio fecer gli antichi. A questa condizione accettarono tutti i poeti Dante per loro compagno, e gli accordarono il privilegio dell’immortalità, che loro è concessa dal fato. Io penso, Arcadi, che non sarete di parere diverso da quel d’Omero, di Virgilio, d’Orazio, d’Anacteonre, e di tutti coloro, che voi stessi tenete per maestri e per classici in poesia. State sani.