Lettere dieci di Virgilio agli Arcadi (1800)/Lettera IV
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LETTERA IV.
Erano gl’italiani in tumulto poi ch’ebbero udita la sentenza da noi pronunciata sopra il poema di Dante, e temerono non qualche danno all’onore della italica poesia sopravvenisse per l’autorità, che ottiene ancora nel mondo il suffragio degli antichi maestri. Videsi a molti segni esser gl’italiani poeti ed autori oltre modo gelosi per lor natura della gloria poetica, e letteraria. Quindi al primo raccogliersi, che noi femmo altra volta, eccoti d’ogni parte accorrere svolazzando anime ed ombre, che qual uno qual altro degl’italiani poeti ci presentano in varj libri, e volumi di ogni mole e figura. Noi fummo dapprima di tanto numero sbigottiti, sapendo noi, e dicendolo spesso Orazio a gran voce esser pochi
i buoni poeti privilegiati da Giove, e per viva fiamma ed ardente degni del cielo. Io non osava stender la mano ad alcuno per non offenderne mille; sinchè vedutomi appresso un Petrarca, che un piccol volume era e discreto, a quel m’appigliai. Il nome di ristoraror delle lettere, la corona poetica da lui ottenuta in campidoglio, e la fama delle sue rime n’accendevano di curiosità. Egli più volte s’era con noi trovato in persona, ma non d’altro che del suo poema dell’Africa, e d’altre opere sue latine ci aveva intertenuti, avendogli quelle più che le italiane, ei dicea, recato onore vivendo, e a noi renduta l’antica estimazione in Europa. Ma poco diletto n’avemmo alla pruova per molti vestigj di rusticità e di barbarie, che nel suo stile latino, e nel poema avevamo incontrati. Per altra parte il Fracastoro, il Sannazaro, ed altri, che con noi vivono in compagnia, le rime italiane ci lodavano sempre, ed il Petrarca esaltavan per quelle singolarmente, avvertendoci insieme esser elleno di nuova maniera poesie nè per avventura al nostro gusto adattate. Appena infatti ne cominciai la lettura, che ognuno rimase incerto e sospeso o sentendo una poesia non conosciuta, un pensar nuovo, uno scrivere inusitato. Greci e latini si guardavano in faccia, e quantunque Platone altra volta ci avesse parlato in quei modi a un di presso, e con idee somiglianti della bellezza e dell’amore, pur nondimeno eran nuove per noi certe immagini, certe grazie di stile, certi colori poetici petrarcheschi. Tibullo ed io sentivam qualche gusto più che non sentivano gli altri. Quella dolce passione che sta nell’anima, e dalla calda immaginazione è dipinta soavemente in ogni oggetto, quell’amor sovrumano, que’ voli eccelsi ed impetuosi d’un affetto sublime e lontano da ogni nebbia di senso a noi piacevano, mentre Orazio e Properzio, Pindaro e Anacreonte le trovavano insulse o fredde. A’ nostri giorni non si sapea filosofar tanto con l’idee nè con gli affetti amorosi, e dipignevamo per ordinario gli oggetti sensibili o fossimo più materiali per inclinazione, o non avessimo dalla natura sortita un’anima sì passionata, o un cuor sì gentile. Ma dopo aver fatta qualche sperienza di quello stile e di quella maniera un incredibil piacere sentirono tutti, e tanto più vivo che il più intimo senso movea dell’anima e degli affetti. Quanto più innanzi leggea, più sentivano greci e latini una certa dolcezza patetica e lusinghiera di stile, di armonia, di teneri movimenti, che ne mettea l’anima in un’estasi soavissima. I trasporti improvvisi tratto tratto rapivanci fuor di noi. Nuovi pensieri, immagini dilicate, e vivaci ne facevan talvolta sclamar per diletto e per maraviglia. Tutti d’accordo dicevano non aver mai sì vivamente sentito quell’incanto, e quel fascino di una secreta delizia, che è proprio della poesia, come in questo poeta. Molti di loro, ma principalmente Ovidio ed Orazio stavano attoniti, e quasi pareano vergognarsi d’aver mal conosciuta una passione così gentile, e d’averla dipinta con tratti sì grossolani e plebei, potendo con essa nobilitare di tanto la lor poesia con la lor fama. Io per me compiacevami tacitamente di partecipare di questa laude con esso lui per quella onesta superbia onde non seppi avvilire il mio canto con le turpitudini tanto comuni a’ miei coetanei, che cantarono le stesse passioni, e non seppero rispettare il linguaggio degli Dei. Qualunque vicenda alle lettere e ai versi possa sopravvenire, l’opere nostre saranno scuola ai posteri tutti di buon costume ad onta degl’invidiosi, che m’hanno attribuite cose indegne di me, ed hanno malignamente interpretato il Petrarca.
1Ma non so come a poco a poco cominciammo a sentire non so qual piccola sazietà, che sempre andò raffreddando gli animi degli uditori, e creando lor finalmente fastidio. Tutto era parlare e pensare, e cantare di quella Madonna Laura e le rose e le perle e i crin d’oro, e un pensier che dicea, e un pensiero che rispondea, e de’ pensieri, che ragionavano insieme, una visione, un sogno, un deliquio d’amore, e le frasi e le immagini d'un colore medesimo anch'esse, e sonetti senza fine e canzoni senza modo ci venivano sempre davanti. Qualche sollievo aspettavasi dall'amabile varietà, quel condimento sì necessario agli stessi piaceri, de’ quadri di storia e di favola, o di battaglie, o di tempeste di mare, o di spettacoli sontuosi, del chiaroscuro in somma e del contrasto. Ma indarno. Tutta la galleria non offriva se non se quadretti e miniature di chiare fresche e dolci acque, di rapidi fiumi d’alpestre vena discesi, di verdi panni sanguigni oscuri e persi, di rose fresche e colte in paradiso, di colli, di poggi, di rive, erbe, ombre, antri, aure, e che so io, tutto a finissime tinte, tutto lucente e grazioso, ma tutto rassomigliante. Ci parve alla fine un corso di metafisica amorosa scritto in bellissimi versi, ed avvivato di belle immagini. Talor ci vennero sotto all’occhio sestine e ballate, che ci nojarono mortalmente, oscure aspre insipide; qualche canzone misteriosa tutta allegorica, tutta divina pei comentatori, ma niente per noi poetica. I sonetti medesimi cominciavano per lo più con un quadernetto, che ci levava in alto con l’anima, ed abbassavaci poi sinchè nel fine ci stramazzava per terra. Alcune poche canzoni trovammo invero, che d’amor non parlavano, ma che meglio avrian fatto di pur anch’esse parlarne, tanto parvero insulse, o fredde o intralciate. Sopravvennero appresso, poichè mi posi a lasciar molte pagine addietro per non isvenire, alcuni capitoli in terza rima, e Dante in essi parea proprio risuscitato; e se non era quel veramente divino, che incomincia. — La notte che seguì l’orribil caso — noi fuggivamo sicuramente per orror di trovarci un’altra volta impegnati nell’Inferno, o nel Purgatorio e nel Paradiso. Perdoniam pur al Petrarca d’aver impiegate migliaia di versi, e più di trent’anni, e un cuor sensibile e delicato, e un’anima generosa e inventrice in lodare e compiangere una donna; ma noi che non la conosciamo, nè per lei sentiamo altro affetto, che l’inspiratoci da’ suoi versi, noi proviamo gran pena a seguirlo senza per tanto tempo. Nulla è più dolce, ma nulla è più pronto a stancar dell’affetto. Or qual poesia sarà quella, che canta sul tuono medesimo e sulla stesa corda sempre trascorre, come Orazio diceva, con una filosofia, ed anzi teologia d’amor sottilissimo innanzi ad un uditore indifferente, e ad un lettore freddo, e sdegnoso?
Ed è possibile, sciamò Tibullo con dolore, che un sì gentile, ed affettuoso poeta voglia ancor esso recar più tedio che non diletto, e voglia non esser inteso dalle tre parti della sua stessa nazione, e quindi cader nelle mani degl’implacabili comentatori? Un poeta di lingua vivente, che canta d’amore, e d'una semplice donna, come pur trova il modo di farsi oscuro, enimmatico, ed insoffribile per la rima, e per la durezza nelle due parti dell’opera sua? Qual gusto è mai codesto degl’italiani di far poesie sublimi insieme, ed incolte, e di ricorrere per gustarle ad un pedante, che lor rompe ogni vezzo con una penna di ferro? Se un distico, se un epigramma, od un’elegia non riusciva a noi felicemente, noi la davamo al fuoco, essendo certi che n’avrebbe più che onore, o tanto le tornavam sopra, che venisse perfetta, e sino al fine leggiadra. Come dunque il Petrarca, e chi lo legge ponno soffrire un principio bellissimo, e un finimento schifoso in tanti componimenti?
Del mar Tirreno alla sinistra sponda
Dove rotte dal vento piangon l’onde etc.
Chi crederebbe che, dopo ciò cada il Poeta in un rivo spingendolo Amore, e vi si bagni i panni, e quindi finisca:
Piacemi almen d’aver cangiato stile
Dagli occhi a’ piè, se del lor esser molli Gli altri asciugasse un più cortese Aprile?
Qual più nobile esordio di quello?
Qual mio destin, qual forza o qual inganno
Mi riconduce disarmato al campo Là ve’ sempre son vinto etc.
E qual chiusa più ridicola e fredda di questa?
Amor con tal dolcezza m’unge, e punge,,
Ch’ i’ nol so ripensar non che ridire,, Che nè ingegno nè lingua al vero aggiunge.
Noi fummo incantati poc’anzi da quell’altro sonetto sì delicato e sì vago
Onde tolse amor l’oro, e di qual vena
Per far due trecce bionde, e in quali spine Colse le rose, e in qual piaggia le brine Tenere e fresche e diè lor polso e lena?
Onde le perle etc.
Ma tutto il diletto ci avvelenarono l’ultime parole, sì facili ad emendarsi per altro,
E que’ begli occhi ond’io ho guerra e pace Che mi cuocono il cor in ghiaccio e fuoco.
In vero, o Tibullo, sento anch’io molta noja di ciò, ripres’io, ma non era il secolo del Petrarca un secolo d’oro, come il nostro per le buone lettere. A lui rimanea molta incertezza di buon gusto pur anco, e le tenebre non erano dissipate. Ma, in qualità di poeta egli è nondimeno il più elegante, il più armonico, il più sublime, che vedesse l’Italia dopo noi. Egli ha ridotta in puro argento quella lingua, che in man di Dante avea tanta scoria, e la stridente tromba di quello ha cambiata in un flauto di soavissima melodia. Che se volgiamo noi l’occhio al midollo della sua poesia, cioè all’affetto che l’anima, qual poeta ha mai favellato in tal linguaggio, ha passionato il cuore cotanto, ha fatta sentire quella divinità, che ispira i poeti, così vivamente? Or dunque non altro rimane fuorche prenderne l’ottimo, e quel godere tra noi, riponendolo con quanto abbiano di piu eccellente la Grecia, il Lazio e l’Italia prodotto giammai. State sani.
- ↑ Le critiche troppo severe sono a prò de’ giovani, che non discernono.