Lettere dieci di Virgilio agli Arcadi (1800)/Lettera II
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LETTERA SECONDA
UN’anima delle più temerarie1, che mai poeta, o verseggiatore ispirasse, scese
l’altro jeri tra noi. Superba d’avere animato un corpo napoletano, e d’aver professate ad un tempo l’arte poetica, e la militare pretendeva le prime sedie tra i capitani, e tra i poeti. La derisero, com’era giusto, e gli uni, e gli altri. Ma noi, che per indole siamo più pazienti, e per professione più mansueti, l’invitammo a sedere con noi sull’erba, e farci udire que’ sì bei versi ch’ella vantava. Ma guardandoci bieco rispose non esser noi degni di tal poesia, che tutta era dantesca, nè degni di star con Dante, il sol poeta veramente divino, anzi il Dio de’ poeti. Così dicendo volse a tutti le spalle, e andò chiamando per mezzo la selva Achille a duello, ed Alessandro.
Noi udito avevamo altre volte il nome di Dante, e parlato con lui eziandio. Ma com’egli per genio è taciturno, e di linguaggio per noi non intelligibile, mai non c’era avvenuto di ben conoscerlo. A soddisfare pertanto la nostra curiosità si cercò del suo libro, e trovossi in mano d’un accigliato, e solitario geometra, che il leggeva a vicenda con Pappo Alessandrino, e protestava di non gustare altro poeta fuori di questo, in cui trovava lo stesso diletto che negli angoli, e ne’ quadrati. Io presi il grosso volume, e in un cerchio di greci e di latini sedetti in disparte con esso alla mano. Lessivi in fronte la divina commedia di Dante, e parve a tutti titolo strano, essendo noi persuasi, ch’esser questo dovesse poema epico, qual tutta Italia predicava al par dell’iliade, e dell’eneida, nè sapevamo intendere perchè commedia s’intitolasse. E tanto più ciò ne parve quando trovammo questa divina commedia divisa in tre parti quasi un trattato scientifico, e queste parti intitolate l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Venne in mente d’ognuno, che Dante scherzar volesse, e far daddovvero una commedia; ma nomi così tremendi, e venerabili non ci sembravano a ciò troppo acconci. Ed ecco leggendo, che io mi trovo preso da Dante per suo compagno, e condottiere in tal faccenda. Per verità non fui molto contento di quest’onore, e mi venne sospetto, che potessimo entrambi fare una figura assai comica in quella commedia. L’incontrar sulle prime una lupa, e un lione alle porte d’inferno mi presagiva male, e il mettere in bocca a me stesso, che i miei parenti eran lombardi, non avendo io mai saputo qual gente si fosse questa, se non molti secoli dopo la mia morte, pareami tratto scortese, e di poca discrezione.
Mi calmò alquanto il poeta leggendo de’ suoi bei versi, e chiari abbastanza in mia lode, e vedendo in quei ricordato il mio poema siccome letto lungamente, e studiato da lui. Ma ben tosto la noja mi prese al seguir la lettura. Perchè dunque, diceva io, perchè ha fatto Dante un poema dell’Inferno, del Purgatorio, e del Paradiso, se tanto ha letta l’eneide? Io certo non gli ho insegnato a cominciar con un sogno, una lupa, e un lione, o con dividere in parti tra lor ripugnanti e lontane un poema. Il viaggio d’Enea, che pur ebbe cotanto sotto degli occhi, è ben diverso dal suo pellegrinaggio in quelle parti sì strane. Ha forse da me imparato a far venire Beatrice a cercarmi, Beatrice la qual era stata chiamata da Lucia, da Lucia, che sedea non so dove con l’antica Rachele, e tali ciance da nulla? Che potea saper io di Can della Scala, nè del Vas d’elezione, che egli t’accoppia con Enea, nè di cento siffatte cose? Quanto più si leggeva tanto meno se n’intendeva, benchè ad ogni parola fosse un richiamo, e ad ogni richiamo un comento più oscuro del testo, ma pur così lungo, che il tomo era in foglio. Oh un poema in foglio, e bisognoso ad ogni verso di traduzione, di spiegazione, d’allegoria, di calepino è un poema ben raro, diceva Orazio, se egli è vero che la poesia debba recare utilità insieme e diletto. Lucrezio stesso sbadigliava, i Greci lo nauseavano, alcun non vedea di che si parlasse, e rideva tra tutti Ovidio dicendo esser quello un caos di confusione maggiore che il descritto da lui.
Pur de’ bellissimi versi, che a quando a quando incontravansi mi facean tal piacere, che quasi gli perdonava. Ma giunto poi, saltando assai carte senza leggerle, a Francesca d’Arimino, al conte Ugolino, a qualche altro passo siffatto, oh che peccato gridai, che sì bei pezzi in mezzo a tanta oscurità e stravaganza sian condannati! Amico caro, diss’io rivolgendomi verso Omero, guai a noi se questo poema fosse più regolare e scritto tutto di questo stile. Si lesse più d’una volta Ugolino, chi piagnea, chi volea metterlo in elegia, chi tentò di tradurlo in greco, od in latino; ma indarno. Ognun confessò, che uno squarcio sì originale e sì poetico per colorito insieme e per passione non cedeva ad alcuno d’alcuna lingua, e che l’italiana mostrava in esso una tal robustezza, e gemeva in un tuono così pietoso, che potrebbe in un caso vincere ogni altra.
E buon per noi, che lungamente si lesse e si gustò questo tratto, perchè tutto il resto ci fastidì senza misura. Il Purgatorio e il Paradiso molto peggio si stan dell’Inferno, che neppur una di tali bellezze non hanno, la qual si sostenga per qualche tempo con nobile poesia. Oh che sfinimento non fu per noi lo strascinarci per cento canti e per quattordici mille versi in tanti cerchi e bolge, tra mille abissi e precipizj con Dante, il qual tramortiva ad ogni paura, dormiva ad ogni tratto, e mal si svegliava e nojava me suo duca e condottiere delle più nuove e più strane dimande che fosser mai! Io mi trovava per lui divenuto or maestro di cattolica teologia, or dottore della religione degl’idoli, insieme le favole de’ poeti e gli articoli della fede cristiana, la filosofia di Platone e quella degli arabi mescolando, sicchè mi pareva essere troppo più dotto che non fui mai, e meno savio di molto, che non sia stato vivendo e poetando. Acheronte, Minosse, Caronte, il Can trifauce ben io conoscea nell’inferno poetico; ma in un con loro il limbo e i santi padri, e con essi in poca distanza Orazio Satiro, Ovidio, Lucano, indi a poco un castello, ove stanno Camilla e Pentesilea con Ettore e con Enea; Lucrezia, Julia, Marzia, Corniglia, e Saladino soldano di Babilonia con Bruto, infin Dioscoride con Orfeo, Tullio con Euclide, e con tal gente i due arabi Averroe ed Avicenna, tutto ciò veramente m’era novissimo, e non sapea più dove mi fossi. Cerbero il gran vermo, e una grandine che con lui tormenta i golosi non è egli un supplizio ben pensato? Plutone, che comincia Pape Satan Pape Satan Aleppe, e a cui fo io complimento dicendogli, maledetto lupo, io che l’avea posto in un trono di re; il ghiaccio e il fuoco, le valli e i monti, le grotte, e gli stagni d’inferno chi può tutto ridire? Oh che dannate e purganti e beate anime son mai quelle, e in qual inferno, in qual purgatorio, in qual paradiso collocate? Mille grottesche positure e bizzarri tormenti non fanno certo gran credito a quell’inferno, nè all’immaginazione del poeta. Tutti poi quanti sono ciarlieri e loquacissimi di mezzo ai tormenti, o alla beatitudine, e non mai stanchi in raccontare le strane loro venture, in risolvere dubbj teologici, o in domandar le novelle di mille toscani loro amici, o nemici, e che so io. Nulla dico de’ papi, e de’ cardinali posti in luogo di poco rispetto per verità, mentre Trajano imperatore, e Rifeo guerrier di Troja sono nel paradiso. Rileggete con questa riflessione quell’imbroglio non definibile, e poi mi direte che ve ne sembri.
E questo è un poema, un’esemplare, un’opera divina? poema tessuto di prediche, di dialoghi, di quistioni, poema senza azioni o con azioni soltanto di cadute, di passaggi, di salite, di andate e di ritorni, e tanto peggio quanto più avanti ne gite? Quattordici mille versi di tai sermoni chi può leggerli senza svenir d’affanno o di sonno? Quale idea debbono aver della poesia que’ giovani, che si vedono a par d’Omero, e degli altri maestri lodar Dante tanto da quelli diverso? Intendono dire da tutti, che un poema vuol essere disegnato, ed ordito con parti proporzionate tra loro e tendenti al bello generale del corpo tutto; che dev’essere l’azione una e grande, a cui tutte l’altre abbian termine, interrotta ma non spezzata, sempre crescente e più ricca di bellezza, di forza, di passione, d’impegno quanto più avanza, e cento altre cose, che trovano appunto in que’ greci e latini, che lor si danno a meditare: qual dunque travolgimento d’idee non si fa lor nel capo al leggere e studiare la divina commedia dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso? Pur nondimeno tutto perdonasi, quando trionfi la poesia dello stile. Lo stile elegante, chiaro, armonico, sostenuto, questo è ciò che ricopre ogni altra iniquità d’un poeta, poichè lo stile è quel poi finalmente che fa un poeta. Le immagini dello stile debbon pur essere ben colorite e nobili, e con grazia e venustà contorniate, i pensieri giusti verisimili nuovi profondi, le parole usate e intese, proprie, scelte, le rime facili e naturali, il suono e la melodia quasi cantante, e così dite del resto. Or nello stile di Dante quante v’ha di tai doti indispensabili e necessarie? Leggetelo, e sin da principio ponetelo a questo tormento di non prevenuto e non cieco esame. Troppo lungo sarei volendo i versi, le frasi, le parole citarne in infinito. Qualche cosa ne dirò forse in altra mia lettera. Incominciate frattanto ad essere meno superstiziosi. Io per me non so abbastanza stimare quest’uomo raro, che il primo ha osato pensare ad un poema, e dipignere arditamente tutti gli oggetti della poesia in mezzo a tanta ignoranza e barbarie onde il mondo traeva il capo. Egli è più pregevole d’Ennio eziandio, poichè ha trasportati i tesori della scienza, ch’era allora nel mondo, dentro al seno della poesia. Dante è stato grand’uomo a dispetto della rozzezza de’ suoi tempi e della sua lingua. Ma ciò non fa ch’egli sia per ogni studioso un autor classico, dopo sorti tant’altri migliori, in grazia d’alcune centinaja di bei versi, come noi fu Ennio in Roma dopo comparsa l’eneida, se ardisco pur dirlo.
Note
- ↑ Signor Pascali poeta di qualche merito, e noto in Mantova agli anni 1754. circa; era uffiziale nelle truppe austriache.