Leonardo prosatore/Medaglione leonardesco/Lo scrittore

Giuseppina Fumagalli

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Medaglione leonardesco - L'uomo Avvertenza
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LO SCRITTORE1





Siamo dinanzi al fatto più unico che raro d’una mente che ora contempla il mondo come artista, ora lo analizza come sapiente; noi dobbiamo qui cogliere i momenti in cui l’analisi del sapiente si colora e allieta d’immagini, o s’avviva d’un’improvvisa commozione eloquente.

Al principio di questa prosa di carattere [p. 30 modifica]scientifico, ma magnificamente viva e nervosa nell’ansia e nell’adorazione del sapere, ho posto — come il simulacro del dio sul limitare del tempio — il mirabile frammento in cui descrive se stesso, proteso verso l’oscurità minacciosa d’un’orrida spelonca (come il Petrarca alle sorgenti del Sorga), combattuto tra la paura istintiva e il desiderio d’entrare a carpire i maravigliosi secreti della natura: rappresentazione colta (lo dicono i minuziosi particolari), dal vero, e che ci dà un Vinci di proporzioni ben più umane e ben più drammatico e poetico del semidio impassibile dominatore delle cose, degli eventi e di se stesso che molti studiosi hanno idoleggiato.

Le idee, le grandi idee direttive di tutta la sua vita intellettuale, non restano in Lui pure fredde idee, ma diventano una fede, la sua fede, che enuncia in brevi sentenze staccate, grandiose nella loro concisione, nella loro semplicità, come incise da un veggente su solitari massi erratici, a segnare il suo passaggio attraverso regioni immense ancora sconosciute, appelli lanciati al deserto.

Per queste idee Egli combatte con foga, con sdegno, con amarezza, con ironia, contro la falsa parolaia dottrina del suo tempo, e allora la sua prosa non procede più per proposizioni staccate, ma si snoda in agili e robusti periodi, acquista carattere polemico e quindi nervosa vivezza.

Non pretendete, però, in Lui un fisso modello di prosa mai, neppur nella grave dimostrazione scientifica. Di qualunque argomento tratti, essa risulta sempre dalla fusione d’elementi apparentemente opposti e che s’incontrano infatti separati nei nostri [p. 31 modifica] scrittori. In Lui la forza del raziocinio dona spesso una potente ossatura al periodo complesso e pur congegnato con limpido ordine, ma in Lui anche spesso la fantasia scientifica o artistica sormonta e si libera d’un colpo d’ala dagl’impacci grammaticali sintattici, e vola: allora il suo periodo par sconnesso a chi è schiavo d’abitudini letterarie secolari, così com’è, torrente di parole nell’impeto della mente che affretta veloce alla conquista del vero, riflesso verace con il suo rapido scorrere, le sue mosse brusche, le sue concatenazioni inaspettate del palpito intenso che accompagna l’intenso lavoro mentale.

Ecco la rigida formula, il conciso enunciato, il nudo elenco di fenomeni osservati, elenco grezzo, fatto di brevi proposizioni, ma che continua per pagine e pagine con una semplicità un ordine un concatenamento una progressione mirabili, delineando a larghi tratti una grandiosa superba visione di cose; ed ecco l’invettiva buttata giù tutta d’un fiato, di getto, senza una cancellatura, contro gli sciagurati alchimisti, i pittori per fame di guadagno, i dispregiatori della scienza, invettiva che gonfia lunghissimi periodi potentemente, come lo sdegno il petto dello scrittore.

Non la togata concione modellata sugli esempi antichi, ma la foga e la forza dell’oratore che improvvisa, sotto la sferza della passione, la difesa dei suoi beni più cari, che lascia sgorgare dall’anima offesa amarezza e ironia, come vivo sangue da una profonda ferita: leggete, ad esempio, l’invettiva contro gli studenti che interrompono le sezioni [p. 32 modifica] cadaveriche e ditemi se non siamo dinanzi a un passo, per la spontaneità nervosa e terribile, d’eloquenza moderna. Par che lo scrittore, trascinato dall’impeto dello sdegno, devii dalla mossa iniziale, poichè da prima si volge contro gli insolenti sprezzatori di così proficuo studio (pazzi a cui la vita non pare lunga abbastanza per occuparsi del corpo umano, ma si per analizzare la mente universale di Dio come l’avessero anatomizzata, pazzi e solo degni d’esercizi brutali come la caccia); e poi, con brusco passaggio, bolla la bestialità matta degli uomini tutti che per amor del ventre diventano più feroci delle belve istesse... D’improvviso, di nuovo riprende il primo filo del discorso, fa una commossa perorazione in pro’ degli alti ingegni, già difesi energicamente in principio contro la barbarie dei grossi intelletti, e che dovrebbero esser tenuti come «Iddii terrestri» (gli «Eroi» del Carlyl!), e onorati di statue e simulacri... Par che l’oratore sosti, un attimo; sorride amaramente, e conclude, scettico: purchè poi non si faccia come i selvaggi dell’India che tagliano a pezzi i simulacri miracolosi, li raspano e li mangiano!

Rare volte il Vinci ha abbandonato l’anima sua scrivendo come in queste pagine concitate amare sarcastiche, che non sono, fortunatamente, come troppo spesso nella prosa sua, un frammento interrotto, ripreso, tornato a interrompere, con l’incontentabilità suprema che fu uno dei caratteri non solo del pittore, ma anche dello scrittore, e forse dell’uomo, ma un organismo solo, sprizzante savor [p. 33 modifica] di forte agrume, anzi più: la feroce amarezza di chi si sente in alto, ma incompreso e solo, e sogghigna.

Vicino a passi di simile irruenza salvatica, voi troverete i tentativi di gravi paludati proemi per i numerosi trattati che ideò con grandioso disegno e non compì mai, troverete, che so? una cascata sonora di parole (intorno all’acqua per esempio), che l’artista si diverte a sprigionare, sicuro e baldo del suo materiale linguistico fresco e vigoroso, che l’uso fiorentino gli dà, e ch’Egli doma per primo a esattezza scientifica2; troverete le piane descrizioni anatomiche, colorite qua e là da qualche energica cruda pennellata: par che lo scrittore discorra semplice e quasi freddo, e, d’improvviso, da una similitudine, da un aggettivo solo, balza la cosa atroce.

Cercate la terribile descrizione delle alterazioni [p. 34 modifica] senili: «Le vene maggiori crescano in lunghezza e s’attorcigliano a guisa di biscie; il fegato privo di sangue si disecca e fassi al modo di crusca congelata, si che sfregato si disfa come segatura, le vene del fiele e dell’ombelico rimangono tutte spogliate della materia d’esso fegato, a uso della meliga o saggina quando n’è spiccati li grani». Aneurismi e fleboliti: «pietre grosse come castagne, di colore e forma di tartufi, over di loppa o marogna di ferro, e avevan sacchi appiccati alle dette vene a forma di gozzi». Procede per via di paragoni, cosa in Lui insolita, dovendo descrivere cose insolite; paragoni di potente rudezza.

Ma la prosa scientifica di Leonardo non culmina nell’enunciazione o nella dimostrazione di leggi, e neppure nella descrizione dei fenomeni osservati, ma dove il suo spirito, estatico dinanzi alla natura che gli si svela, s’abbandona a un vero rapimento lirico.

Leonardo lirico! Si, poichè ormai ognun sa che poesia e prosa non sono che distinzioni puramente formali, e che si può avere schietta poesia in prosa, e schietta prosa in versi.

Addito uno dei passi mirabili per fantasia grandiosa e per sentimento di stupore infinito, quasi religioso, passo che precorre in certo modo una delle più alte liriche italiane, l’ode «A una conchiglia fossile» dello Zanella. Dinanzi a un fossile colossale, scoperto da Lui entro le viscere d’un monte, vive nella sua commossa fantasia la visione delle età preistoriche: vede il gran mostro sconvolgere il mare e fulminare con la furia [p. 35 modifica] l’ali e della forcelluta coda schiere di delfini e di tonni. S’interrompe, e con rapida accesa movenza:

«Oh tempo! — esclama — veloce predatore delle umane cose, quanti re, quanti popoli hai tu disfatti, dopo che la maravigliosa forma di questo pesce qui morì.... E ora, paziente giaci e con le spolpate ossa hai fatto armadura e sostegnio al soprapposto monte».

A quest’ode in prosa ho fatto seguire, perchè si studino specialmente per le variazioni d’armonia imitativa tentate dall’artista (vedete se è possibile non parlare di coscienza d’arte piena e sicura trattando del Vinci scrittore!), le tre redazioni (Codice Atlantico) della visione del mostro che solca e sormonta superbo l’onde del gonfiato oceàno.

Che orizzonte sconfinato di poesia schiudevano allo scienziato le sicure osservazioni sugli umili nicchi dei monti, le sottili investigazioni con cui, a una a una, pazientemente, con tutto rigore di metodo, ribatteva le spiegazioni erronee che del curioso fatto si davano, non titubando neppure nel demolire, anche con l’arma del ridicolo, credenze attinte alle sacre carte, come certune sul Diluvio Universale: dall’osservazione minuta e ponderata, dalla deduzione stringata e acutissima, il suo intelletto s’alzava all’intuizione maravigliosa di epoche ignorate, alla ricostruzione di mondi crollati per sempre. Leggete, leggete la visione grandiosa del Mediterraneo prima che le gran pianure d’Africa e d’Europa fossero emerse: è uno scienziato o un poeta che parla?

Ma non solo la geologia gli è fonte d’ispirazione lirica. [p. 36 modifica] La storia della fisica vi dirà che Leonardo ha intuito, nello studiare la fiamma, che cosa sia un «sistema stazionario», ma la critica letteraria vi dirà che è schietta poesia il frammento:

«Guarda il lume e considera la sua bellezza. Batti l’occhio e riguardalo: ciò che di lui tu vedi prima non era, e ciò che di lui era più non è. Chi è quel che lo rifà, se ’l fattore al continuo muore?»

Lo scienziato vi dirà che tra le grandi teorie della fisica Leonardo ha intuito la teoria ondulatoria, ma chi ravvisa lo scienziato in questa lirica commossa, stesa in prosa, ma una prosa pulsante ritmica, che si avvicina inconsciamente al verso:

«Il moto della terra contro alla terra, ricalcando quella, poco si move la parte percossa;

L’acqua percossa dall’acqua fa circuli dintorno al loco percosso;

Più lunga distanza la voce in fra l’aria;

Più lunga in fra ’l foco,

Più la mente in fra l’universo, ma perchè l’è finita non s’astende in fra lo ’nfinito».

S’allarga il pensiero, scalando un’immagine paurosa di vastità per salire a un’altra più vasta e paurosa, e con brevi attimi di sosta segna le sue tappe gigantesche; ma giunto al culmine, ove con un grido d’orgoglio proclama che nulla si spande lontano come la mente nell’universo, quasi colto da improvvisa vertigine, di schianto rientra (umano, drammatico trapasso), nella piena coscienza della ristrettezza, della fragilità dell’intelletto nostro di fronte all’enorme mistero della vita; sente, nell’attimo stesso in cui esaltava maggiore delle forze [p. 37 modifica] naturali la potenza dello spirito, la meschinità del grandioso umano di fronte all’Infinito.

Non questa poesia piena di tragica ombra ci ha dato, nè poteva darci il suo pennello... la poesia, da lui cercata di maltrattare nella disputa sulla preminenza della Pittura e della Poesia, prendeva la rivincita a sua insaputa.

È curioso l’atteggiamento del Vinci verso di essa; nella sua ostilità si vede chiaro il partito preso, l’eco del risentimento dello scienziato contro le fanfaluche degli Umanisti, del pittore contro il versaiolo, il retore pettoruto e tronfio che snocciolava esametri o sonetti e in compenso riceveva danari lodi e onori, e che guardava dall’alto in basso lui, l’artista, l’ingegnere, l’ordinatore di feste ducali, che osava addentrarsi nel mondo della sapienza senza la debita preparazione fanciullesca presso il pedante e il debito tirocinio giovanile nelle dotte università, ma anzi — superbo del sapere da se stesso acquistato — spregiava la loro dottrina basata sull’ossequio dell’autorità, proclamava alto il valore dell’esperienza e non si peritava d’affermare che «le buone lettere so’ nate da un bono naturale».

Altrimenti, non si saprebbe spiegare come Egli, dopo aver affermato che «la pittura è una poesia muta, e la poesia una pittura cieca», ossia avere in fondo riconosciuta loro la stessa essenza animatrice, la forza dell’evocazione fantastica, spogli poi la poesia d’ogni pregio peculiare, paragonando il poeta al merciaio ragunatore di mercanzie fatte da diversi artigiani; alla Filosofia, all’Eloquenza, ai rami più disparati dello scibile riconducendo, con [p. 38 modifica] procedimento logico, ma di nessun valore estetico, tutto quel che nell’arte della parola non è descrizione. Non è chi non veda come, a trarlo in errore, Egli avesse presenti gl’ibridi centoni umanistici.

Quanto alla descrizione poetica (e, curiosissima cosa, Egli descrive con evidente compiacenza nel momento stesso in cui condanna, oltre che molt’altre volte e volentieri e a servigio... dei pittori!), le nega la perfetta simultanea minutissima figurazione delle cose che sola può ottenere la pittura, ed a ragione... se la descrizione poetica avesse, com’Egli qui par credere, l’unico scopo di presentarci quanto più nitido in tutti i suoi minimi particolari di forma e di colore l’oggetto descritto.

E questo errore gli viene, credo, sopratutto dall’osservazione di se stesso. Prima pittore che scrittore, dotato di una maravigliosa potenza visiva (si che, appena può, scioglie inni all’occhio, come al massimo strumento dell’intelletto), nel descrivere, sia che tolga dal vero, sia che da elementi lontani discordi nella realtà componga creazioni fantastiche, Egli vede con nitidezza grande, e come vede esprime.

Fiorentino e studioso di nuove larghe vedute intorno alla lingua, la parola gli è pronta come il colore sulla tavolozza,3 e spesso — anzi — tira giù alla brava (forse con l’intenzione di finire più [p. 39 modifica] tardi), come appunto faceva con la penna e la matita, empiendo di schizzi quasi ogni pagina.

Cercate le descrizioni degli effetti di nebbia, del fumo, del vento, del sole al tramonto, delle nuvole sotto la luna, del cominciar della pioggia, dell’ombre e lumi in una foresta, della donna biancovestita in mezzo all’aperta campagna, tutte pagine fresche d’acuta lucidissima visione; cercate gli appunti per il Cenacolo, primo abbozzo della grandiosa composizione, il ritratto dell’irato, del disperato, dell’oratore e de’ suoi ascoltatori, degli atteggiamenti proprî dei vecchi, dei giovani, delle donne e dei putti, e troverete sempre lo stesso pregio di rappresentazione rapida chiara vivace, ma priva si può dire totalmente d’effetto sentimentale. Egli ha visto con occhio dominatore, ma senza commozione sentimentale; come ha visto ritrae, e se non fosse quel suo occhio d’aquila che ha colto particolari tutti suoi anche in rappresentazioni convenzionali ormai nell’arte pittorica, forse noi troveremmo la sua descrizione ben poco personale, e perciò ben poco poetica.

Manca quasi affatto la linea larga, indeterminata, così suggestiva per la fantasia, come del resto anche al massimo poeta del tempo, l’Ariosto: fin nelle descrizioni di foga un po’ torbida, in cui l’imagine incalza l’imagine come l’onda incalza l’onda in un mare agitato, e le proposizioni si susseguono tumultuando, accalcandosi a volte l’una sull’altra (esempi, e felicissimi, quelle famose del Diluvio e della Battaglia). Leonardo concepisce il grandioso non a tratti sommari, a grandi contrasti di ombre e luci, ma — [p. 40 modifica] frutto dell’ambiente pittorico in cui era cresciuto, e natural portato d’un ingegno tendente prima all’analisi che alla sintesi — come la risultante d’un’infinità di particolari tutti precisi e tutti vivi.

Arte che ha la rapidità e mobilità quasi tormentosa d’imagini che è propria dell’arte cinematografica... arte modernissima, insomma.

Non descrive mai indirettamente, ossia per mezzo dell’impressione, della commozione suscitata, lasciando che l’effetto ci faccia supporre più gigantesca e terribile la causa (ricordate l’asta di lunga ombra d’Omero?), ma la cosa gli sta davanti con una lucidità quasi allucinatoria, finchè Egli non l’abbia colta come si coglie un frutto che, spremuto, si getta via per spiccarne un altro e un altro e un altro. Avidità maravigliosa!

Nelle descrizioni e negli schizzi Egli ottiene lo stesso effetto d’arte: procede con rapidità e accuratezza insieme, con un disegno sicuro e nitidissimo, fidando nell’infallibile suo occhio, nella sua straordinaria potenza rappresentativa per sorprendere cose e uomini nell’atto che svela il secreto della loro vita.

Più vario e potente — diciamolo senza timore d’ingiustizia e d’irriverenza — con la matita che con la parola, Egli crea non per la nostra gioia, ma per il suo istintivo piacere, tutto un mondo di bellezza, che gli uomini avari a se stessi custodiscono ben chiuso in molti musei e biblioteche sparsi per il mondo. La maggior parte dei fogli preziosi è là, nella grigia Inghilterra, e attende d’essere rivelata al gran pubblico, poi che la scienza ci [p. 41 modifica] permette il lusso dei fac-simili... ma Leonardo non è mai stato troppo benvoluto dalla fortuna!

Quella réverie soave che manca alla sua prosa e non mancava alla sua anima oceanica, è non solo nel riso misterioso della Gioconda o del San Giovanni, ma in quegli schizzi di visi di fanciulle smarriti in una penombra di sogno, d’una dolcezza malinconica ineffabile, in quegli schizzi di Vergini chinantisi con infinita adorazione, e di teste di donne velate, assorte in un lor grave pensiero. I quadretti graziosi che invano si cercano allo scrittore, sono lì, in quei profili di bimbi grassocci, in quei monellucci nudi che scherzano col micio, in quei gatti che dormono in mille pose voluttuose.

Lo schematismo di certe descrizioni, che gli venne rimproverato come patente contraddizione al suo stesso precetto: «studia sempre la natura», schematismo specialmente notato nella descrizione degli atteggiamenti convenienti alle varie età dell’uomo (secondo me erano consigli, dirò pratici, ch’Egli dava agli artisti ignoranti che, abituati a inveterate consuetudini artistiche, ripetevano movenze sgraziate o contro ogni naturalezza, e a cui occorreva una guida per scoprire la verità4), spariva negli [p. 42 modifica] schizzi dei vecchi così varî nella loro vecchiezza comune. Dal profilo del vecchio interamente calvo, la cui volontà dura è espressa dalla forza del cranio, delle mandibole serrate, del naso rapace, degli occhi piccoli ma acutissimi sotto la gronda della fronte nuda di sopracciglia, al profilo del vecchio dal collo ancora taurino, dalla chioma ferina al vento, tipo d’orgoglio iroso indomabile, ai vecchi inebetiti dall’età, con lo sguardo morto, la pelle grinzosa che lascia trasparire lo scheletro.

La caricatura che, portata fino allo studio delle degenerazioni bestiali dell’uomo, ha tanta parte negli schizzi, non ha alcun riflesso negli scritti di Leonardo.

Appena qualche accenno al grottesco mostruoso è nella descrizione del Gigante fantastico; l’ottava: «Era più nero che un calabrone» è una variante di un’ottava del Pulci; un abbozzo di ritratto-caricatura è, solo, nel Codice Atlantico, ma non finito e poco intellegibile. L’autore stesso confessa di non esservi riuscito, e l’abbandona, come tentativo non degno d’altre cure.

L’ironia negli scritti veste molto spesso la forma dell’allegoria, nelle favole e nelle profezie, e perciò appunto perde il carattere di violenza che ha altre volte nell'immediatezza dell’espressione, per restare amara, si, ma pacata.

Delle favole fu invano cercata la fonte; ma [p. 43 modifica] sebbene alcune appaiano dettate da un particolare sentimento suo (come quelle sul noce e il fico che mostrando agli uomini la ricchezza dei lor frutti furono saccheggiati), o da considerazioni sue su avvenimenti particolari (come quella dei tordi e della civetta, che par riferibile alla cacciata di Lodovico il Moro), è probabile ch’Egli traesse molti argomenti da originali a noi ignoti o andati perduti, o dalla tradizione orale.

Ve ne sono di brevissime, quasi appunti presi per un ulteriore svolgimento, e ve ne sono di svolte un po’ più, che portano segni evidenti di un’elaborazione artistica accurata. Allora lo scrittore, pure entrando in medias res, diffonde il racconto, e vi inframmette — a colorire i sentimenti delle piante e degli animali — dialoghi e soliloqui quasi sempre di pacata e ben tornita eloquenza. Non dico che siano al tutto privi d’ogni movenza spontanea o disinvolta, ma certo risentono troppo spesso quel non so che di freddo e compassato ch’è in troppe favole, e che viene dal fatto, credo, che il favolista non ha nella sua fantasia vivi caratteri umani, ma cerca animare bestie e piante artificiosamente con sentimenti generici, allo scopo di trarre un generico ammaestramento morale.

Molti sono i favolisti, pochissimi i poeti della favola, perchè a essa non chiediamo d’essere l’allegoria garbata d’una verità morale ben comune, ma d'essere l'allegoria geniale d’una verità (fortuna che questa parola è molto elastica!) morale scoperta da un acuto spirito che osserva ironico la vita, e che, troppo di buon gusto e troppo scettico per [p. 44 modifica] salire il pulpito la cattedra, smorza il tono nell’amabilità del racconto fantastico e pur veridico.

Leonardo in molte favole, come anche nelle allegorie (dal Fiore di Virtù trascritte quasi a parola, e pur con forma di quanto più spigliata e viva!), come in molte sentenze copiate da Seneca o da altri, è troppo più letterato-moralista che poeta, come, invece, abbiam visto era e grande nell’anima, da alcuni abbozzi scritti veramente sotto la viva commozione.

Si veda, a esempio, il discorso della neve che, simbolo dell’umiltà, rotola in basso ed è premiata con l’essere sciolta per ultima dal sole: «Or non son io da essere giudicata altera e superba, avere me, picciola dramma di neve, posto in sì alto loco e sopportare che tante quantità di neve quanto di qui per me essere veduta po’ stia più bassa di me?».

Non è chi non senta la preoccupazione letteraria della neve... cioè di Leonardo, di fare un ornato discorsetto.

Anche nuoce alle favole più elaborate l’anteposizione frequentissima dell’aggettivo al sostantivo, che si trova pure in molti altri passi leonardeschi descrittivi, ma che forse non mai spesseggia così noiosamente.

Poichè là, oltre a un pregio maggiore di freschezza, l’aggettivazione quasi sempre ha il merito d’essere inegualmente distribuita, mentre in queste favole diventa monotona per la sua troppa continuità e regolarità: ogni sostantivo ha il suo bravo aggettivo, ovvero due, e procede impettito come un [p. 45 modifica] signore preceduto e annunziato da uno o due valletti.

Do un esempio fra i tanti: «il rovestrice, sendo stimolato nelli sua sottili rami, ripieni di novelli frutti, dai pungenti artigli e becco delle importune merle ecc.».

A ogni modo, quando si faccia il confronto coi precedenti raccontatori moralisti, quanta sicura padronanza di lingua e sveltezza di movenze sintattiche, specialmente nelle favolette più brevi e nelle allegorie! Si confronti «L’ostrica e il granchio» con la redazione che della stessa storiella (derivata dal Tesoro di Brunetto Latini), dà Cecco d’Ascoli in quell’Acerba i cui versi fanno veramente allegare i denti.

De cancro et de ostricis

L’ostreca quando è la luna piena
aprese tuta; qual vegendo ’l granco
imagina d’averla a pranzo o cena.
Metteli dentro pietra over fistuca
per qual il suo coprir le vene manco,
così el granchio l’ostrega manduca.
Così è l'uomo ch’apre sua bocca
e con l’om farso mostra so secreto,
onde vien piaga che lo cor li tocca.

Ostriga

Questa, quando la luna è piena, s’apre tutta, e quando il granchio la vede, dentro le getta qualche sasso o festuca; e questa non si può risserrare, ond’ è cibo d’esso granchio.

Così fa chi apre la bocca a dire il suo segreto, che si fa preda dello indiscreto auditore.

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Una raccoltina quattrocentesca di cento apologhi è quella di Leon Battista Alberti, preceduta da una lettera dell’autore a Esopo e della risposta di Esopo, apologhi che tradotti (credo) da Cosimo Bartoli vennero stampati, uniti a cento altri composti da Bernardino Baldi, nel 1582. Tanto quelli dell’Alberti quanto quelli del Baldi sono più varî, per intendimenti morali, delle favolette del Vinci, e sono scritti con molta semplicità. È quasi inutile dire che nessuno di essi ha soggetto comune con i leonardeschi, perchè malamente si può parlare persin di somiglianza tra l’apologo albertiano «Il Giglio e le Onde» (già additato dal Solmi) e «Il Giglio» vinciano.

Nel brevissimo appunto di Leonardo è ben maggiore mondo fantastico che nella piccola prosa dell’Alberti che dà particolari e mira a un ammaestramento morale chiaro e lampante! Pare che in quella breve riga il Vinci abbia intuito che anche nell’arte della parola ha più valore, a volte, quel che si suggerisce di quel che veramente si presenta, come bene aveva compreso essere nella Pittura.

L’Alberti:

«Il fiore del Giglio, sbigottito e pallido nello avvicinarseli il fiume, aveva posto ogni sua cura e pensiero di mantenere la sua antica e solita gravità di salutare, quando elle arrivavano, tutte le maggiori e più gonfiate Onde: finalmente cadde, mediante lo arrivo di quelle; e si sarebbe veramente salvato, se egli non avesse voluto stare in su il grande». [p. 47 modifica]

Il Vinci:

«Il giglio si pose sopra la ripa di Tesino, e la corrente tirò la ripa insieme col giglio». La furia della vita travolge il delicato fiore: vittima della sua imprudenza, della superbia, della curiosità, dell’amore, di quale, insomma tra le mille passioni?

Forse nessuna delle favole vinciane è poetica come questa, che ci piace pensare, per l’accenno ch’Egli stesso ci dà, imaginata lungo le belle rive boscose del Ticino, presso Pavia, in una delle sue meditabonde passeggiate solitarie. Forse, studiando i movimenti dell’onda scrosciante torbida per le piogge recenti, interruppe l’osservazione scientifica per seguire, con un sospiro di melanconia? con un ironico sorriso? il fiore travolto nei gorghi veloci.

Quelle che il Solmi intitolò Facezie (novelluzze di motti spiritosi sul fare di certune del Sacchetti), sono certo una raccoltina di cose udite, alcune delle quali molto comuni, altre abbastanza grossolane.5

Dove il racconto si distende un po’ più, come in quella del frate e del mercantuolo, o del pittore e del prete, abbiamo modo di cogliere la prosa del Vinci in un atteggiamento affatto familiare, semplice, dimesso, diverso molto dagli altri fin qui osservati. Nessuna cura artificiosa degli aggettivi che [p. 48 modifica] sono anzi ben pochi e sparsi irregolarmente, nessuna andatura sostenuta del periodo, nessun tentativo di forbita eloquenza, ma spunti di dialogo naturalissimi, apostrofi vivaci, tutto il parlar succoso e rapido, a botta e risposta, ch’Egli aveva imparato nella sua giovinezza nella bottega del Verrocchio, tra i morditori a’ Marmi di S. Maria del Fiore. Ma troppo poco di questo tono ci ha lasciato per arrischiare un giudizio che vada al di là del constatare ch’Egli aveva per il racconto e il dialogo la felicissima disposizione che molti fiorentini hanno avuto e hanno.

«Solo il vero uffizio del poeta è fingere parole di gente che insieme parlino» disse Egli.

Fu detto, è vero, che la prosa di Leonardo è un continuo dialogo ch’Egli fa con se stesso o con i suoi imaginari oppositori, ma forse è un po’ troppo, per quanto io non tenga molto alla distinzione dei generi letterari, e riconosca in molta parte della prosa leonardesca una vivezza di movenze, una concitazione che la trascina verso la forma dialogica, ossia drammatica.

Bellissime, oltre che le apostrofi e le invettive a cui già accennai, sono sotto questo rispetto le poche lettere vinciane che ci rimangono.

Da quella famosa con cui offriva al duca Ludovico i suoi secreti, che incomincia con la gravità di un lungo periodo complesso — l’inchino dell’artista al signore munifico — e prosegue succinta, fieramente ardita come un’antica amazzone, per proposizioni staccate, rapide, «cose notate sub brevità» , non sfilata di vuote parole, documento unico [p. 49 modifica] dell’anima di Leonardo, all’altra interessantissima diretta ai Fabbriceri del duomo di Piacenza, vivace, d’andatura pianamente discorsiva, suadente da prima, e poi corruscante di sdegno, a quella indirizzata al Magnifico Giuliano de’ Medici per informarlo della pessima condotta di Giovanni degli Specchi, stesa in parecchie redazioni che mostrano il Vinci preoccupato finanche della forma d’una lettera che, dopo breve preambolo, procede spedita, quasi brusca, spoglia d’ornamenti, accennando rapidamente ma a una a una le gesta del mariuolo, alla lettera «ai signori diputati» ricca di periodi dalle lunghe protasi spese in orore dell’osservanza della ragione storica nella continuazione di un edificio, e che poi finisce (lo scrittore era stanco? o altro pensiero l’attirava?) con due periodetti buttati giù di furia a mo’ d’appunti presi per ricordo, ai biglietti concitati ai fratelli o a quelli scherzosi a Francesco Melzi, tutte le poche lettere rimaste di Leonardo ci rivelano il suo temperamento di scrittore nato, spontaneo, vivo, che accetta ogni forma sintattica, dalla più letteraria alla più popolare, dalla più semplice alla più complessa, e guidato dal suo sicuro istinto, se ne serve man mano che corrispondono agli atteggiamenti quanto mai vari del suo pensiero.

Poichè non si può parlare d’artifizio classicheggiante quando, da una mente superiore per forza d’analisi e di sintesi come quella del Vinci, sgorgano periodi complessi di larghissimo respiro, ricchi di proposizioni incidenti e subordinate, in cui l’inversione è la chiave di volta che sostiene il ben congegnato edifizio; e non si può parlare d’artifizio [p. 50 modifica] popolare quando nel semplice racconto o nella rapida descrizione, in cui l’imagine rincorre l’imagine, o nell’elenco riassuntivo di fenomeni osservati, si serve di proposizioni staccate, coordinate, perchè il costrutto risponde al naturale processo mentale; o quando nella concitazione della fantasia o del sentimento sottintende verbi, nomi o altro, e costringe il periodo a brusche movenze, rompendo fede alla sintassi tradizionale letteraria, ma serbando tutto il bel calore dell’improvvisa creazione scientifica o artistica che lo avvince e entusiasma.

Assistiamo così, con profonda riverente commozione, al dramma intimo di Leonardo, un dramma tutto di natura intellettuale, ma che nessun scrittore ci ha presentato come Lui.

Se la prosa di Leonardo non avesse altro merito, avrebbe pur sempre quest’uno: grandissimo.


Note

  1. Addito qualche studio sulle prose del Vinci: G. Séailles, Leonardo de Vinci, l’artiste et le savant; Paris, Perrin, 1892, Cap. L’art dans la science; E. Müntz, Léonard, Paris, Hachette, 1899, Cap. sul trattato della pittura; R. Pantini, La poesia nella filosofia di Leonardo da Vinci, in Marzocco, 1899, n. 4; G. Mazzoni, Leonardo da Vinci scrittore, in Nuova Antologia, 1 genn. 1900; E. Solmi, Prefazione ai Frammenti letterari e filosofici di Leonardo, Firenze, Barbera (ultima ristampa, 1913), p. XXX sgg.; I. Del Lungo, Leonardo scrittore, in: Conferenze fiorentine su Leonardo, Milano, Treves, 1910.
  2. V’è una piccola letteratura intorno a Leonardo grammatico e vocabolarista del volgare. Contro il Solmi, il Morandi sostenne che Leonardo compilava il vocabolario latino-italiano in opposizione alla corrente umanistica che non voleva traduzioni dal latino in italiano. La grammatica italiana iniziata sul Codice Atlantico è secondo l’uso vivo, e nelle liste vinciane di vocaboli ve ne sono molti non registrati dopo secoli e secoli dalla Crusca. Vedi: L. Morandi, Lorenzo il Magnifico, Leonardo da Vinci e la prima grammatica italiana. — Leonardo e i primi vocabolari. Città di Castello, Lapi, 1908; E. Solmi, Le fonti dei mss. di Leonardo, in «Giorn. Stor. della Lett. It.», Suppl. 10-11: L. Morandi, Per Leonardo da Vinci e per la grammatica di Lorenzo il Magnifico in «Nuova Antologia», 1 ottobre 1909; E. Solmi, Nuovi contributi alle fonti dei mss. di Leonardo in «Giorn. Stor. della Lett. It.», vol. 58, p. 297 sgg.
  3. Pochissime sono le voci tolte dal Vinci a dialetti d’altre regioni, anche dopo molti anni di dimora. Il Beltrami nella «Raccolta vinciana», Vol. I. (1905) tra le Varietà, a p. 67-70, compilò una lista di Voci e termini del dialetto milanese nel Codice Atlantico.
  4. Per esempio, Leonardo annota: «Come le donne si deono figurare con atti vergogniosi, gambe insieme strette». Chi non ricorda come la pittura e anche la scultura del Quattrocento, seguendo un’antica tradizione, spesso ponga le donne a sedere con le ginocchia molto discoste? Il rimprovero, prima che dal Croce, era stato mosso a Leonardo dal Séailles che, riconosciuta la debolezza teorica del Trattato della Pittura, gli diede più ch’altro il valore d’una confidenza, di una testimonianza autobiografica di Leonardo pittore. — Op. cit., pag. 422.
  5. Una di queste, intitolata dal Solmi (Frammenti, p. 394), Facezia di un prete, trovo precisa nelle Facezie, motti e burle di diverse persone di L. Domenichi, Venezia, Giorgio de’ Cavalli, 1565, pag. 24. Il racconto vinciano, però, ha ben maggiore finezza artistica.