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lire il pulpito la cattedra, smorza il tono nell’amabilità del racconto fantastico e pur veridico.

Leonardo in molte favole, come anche nelle allegorie (dal Fiore di Virtù trascritte quasi a parola, e pur con forma di quanto più spigliata e viva!), come in molte sentenze copiate da Seneca o da altri, è troppo più letterato-moralista che poeta, come, invece, abbiam visto era e grande nell’anima, da alcuni abbozzi scritti veramente sotto la viva commozione.

Si veda, a esempio, il discorso della neve che, simbolo dell’umiltà, rotola in basso ed è premiata con l’essere sciolta per ultima dal sole: «Or non son io da essere giudicata altera e superba, avere me, picciola dramma di neve, posto in sì alto loco e sopportare che tante quantità di neve quanto di qui per me essere veduta po’ stia più bassa di me?».

Non è chi non senta la preoccupazione letteraria della neve... cioè di Leonardo, di fare un ornato discorsetto.

Anche nuoce alle favole più elaborate l’anteposizione frequentissima dell’aggettivo al sostantivo, che si trova pure in molti altri passi leonardeschi descrittivi, ma che forse non mai spesseggia così noiosamente.

Poichè là, oltre a un pregio maggiore di freschezza, l’aggettivazione quasi sempre ha il merito d’essere inegualmente distribuita, mentre in queste favole diventa monotona per la sua troppa continuità e regolarità: ogni sostantivo ha il suo bravo aggettivo, ovvero due, e procede impettito come un