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Una raccoltina quattrocentesca di cento apologhi è quella di Leon Battista Alberti, preceduta da una lettera dell’autore a Esopo e della risposta di Esopo, apologhi che tradotti (credo) da Cosimo Bartoli vennero stampati, uniti a cento altri composti da Bernardino Baldi, nel 1582. Tanto quelli dell’Alberti quanto quelli del Baldi sono più varî, per intendimenti morali, delle favolette del Vinci, e sono scritti con molta semplicità. È quasi inutile dire che nessuno di essi ha soggetto comune con i leonardeschi, perchè malamente si può parlare persin di somiglianza tra l’apologo albertiano «Il Giglio e le Onde» (già additato dal Solmi) e «Il Giglio» vinciano.

Nel brevissimo appunto di Leonardo è ben maggiore mondo fantastico che nella piccola prosa dell’Alberti che dà particolari e mira a un ammaestramento morale chiaro e lampante! Pare che in quella breve riga il Vinci abbia intuito che anche nell’arte della parola ha più valore, a volte, quel che si suggerisce di quel che veramente si presenta, come bene aveva compreso essere nella Pittura.

L’Alberti:

«Il fiore del Giglio, sbigottito e pallido nello avvicinarseli il fiume, aveva posto ogni sua cura e pensiero di mantenere la sua antica e solita gravità di salutare, quando elle arrivavano, tutte le maggiori e più gonfiate Onde: finalmente cadde, mediante lo arrivo di quelle; e si sarebbe veramente salvato, se egli non avesse voluto stare in su il grande».