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sono anzi ben pochi e sparsi irregolarmente, nessuna andatura sostenuta del periodo, nessun tentativo di forbita eloquenza, ma spunti di dialogo naturalissimi, apostrofi vivaci, tutto il parlar succoso e rapido, a botta e risposta, ch’Egli aveva imparato nella sua giovinezza nella bottega del Verrocchio, tra i morditori a’ Marmi di S. Maria del Fiore. Ma troppo poco di questo tono ci ha lasciato per arrischiare un giudizio che vada al di là del constatare ch’Egli aveva per il racconto e il dialogo la felicissima disposizione che molti fiorentini hanno avuto e hanno.
«Solo il vero uffizio del poeta è fingere parole di gente che insieme parlino» disse Egli.
Fu detto, è vero, che la prosa di Leonardo è un continuo dialogo ch’Egli fa con se stesso o con i suoi imaginari oppositori, ma forse è un po’ troppo, per quanto io non tenga molto alla distinzione dei generi letterari, e riconosca in molta parte della prosa leonardesca una vivezza di movenze, una concitazione che la trascina verso la forma dialogica, ossia drammatica.
Bellissime, oltre che le apostrofi e le invettive a cui già accennai, sono sotto questo rispetto le poche lettere vinciane che ci rimangono.
Da quella famosa con cui offriva al duca Ludovico i suoi secreti, che incomincia con la gravità di un lungo periodo complesso — l’inchino dell’artista al signore munifico — e prosegue succinta, fieramente ardita come un’antica amazzone, per proposizioni staccate, rapide, «cose notate sub brevità» , non sfilata di vuote parole, documento unico