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naturali la potenza dello spirito, la meschinità del grandioso umano di fronte all’Infinito.
Non questa poesia piena di tragica ombra ci ha dato, nè poteva darci il suo pennello... la poesia, da lui cercata di maltrattare nella disputa sulla preminenza della Pittura e della Poesia, prendeva la rivincita a sua insaputa.
È curioso l’atteggiamento del Vinci verso di essa; nella sua ostilità si vede chiaro il partito preso, l’eco del risentimento dello scienziato contro le fanfaluche degli Umanisti, del pittore contro il versaiolo, il retore pettoruto e tronfio che snocciolava esametri o sonetti e in compenso riceveva danari lodi e onori, e che guardava dall’alto in basso lui, l’artista, l’ingegnere, l’ordinatore di feste ducali, che osava addentrarsi nel mondo della sapienza senza la debita preparazione fanciullesca presso il pedante e il debito tirocinio giovanile nelle dotte università, ma anzi — superbo del sapere da se stesso acquistato — spregiava la loro dottrina basata sull’ossequio dell’autorità, proclamava alto il valore dell’esperienza e non si peritava d’affermare che «le buone lettere so’ nate da un bono naturale».
Altrimenti, non si saprebbe spiegare come Egli, dopo aver affermato che «la pittura è una poesia muta, e la poesia una pittura cieca», ossia avere in fondo riconosciuta loro la stessa essenza animatrice, la forza dell’evocazione fantastica, spogli poi la poesia d’ogni pregio peculiare, paragonando il poeta al merciaio ragunatore di mercanzie fatte da diversi artigiani; alla Filosofia, all’Eloquenza, ai rami più disparati dello scibile riconducendo, con procedi-