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l’ali e della forcelluta coda schiere di delfini e di tonni. S’interrompe, e con rapida accesa movenza:

«Oh tempo! — esclama — veloce predatore delle umane cose, quanti re, quanti popoli hai tu disfatti, dopo che la maravigliosa forma di questo pesce qui morì.... E ora, paziente giaci e con le spolpate ossa hai fatto armadura e sostegnio al soprapposto monte».

A quest’ode in prosa ho fatto seguire, perchè si studino specialmente per le variazioni d’armonia imitativa tentate dall’artista (vedete se è possibile non parlare di coscienza d’arte piena e sicura trattando del Vinci scrittore!), le tre redazioni (Codice Atlantico) della visione del mostro che solca e sormonta superbo l’onde del gonfiato oceàno.

Che orizzonte sconfinato di poesia schiudevano allo scienziato le sicure osservazioni sugli umili nicchi dei monti, le sottili investigazioni con cui, a una a una, pazientemente, con tutto rigore di metodo, ribatteva le spiegazioni erronee che del curioso fatto si davano, non titubando neppure nel demolire, anche con l’arma del ridicolo, credenze attinte alle sacre carte, come certune sul Diluvio Universale: dall’osservazione minuta e ponderata, dalla deduzione stringata e acutissima, il suo intelletto s’alzava all’intuizione maravigliosa di epoche ignorate, alla ricostruzione di mondi crollati per sempre. Leggete, leggete la visione grandiosa del Mediterraneo prima che le gran pianure d’Africa e d’Europa fossero emerse: è uno scienziato o un poeta che parla?

Ma non solo la geologia gli è fonte d’ispirazione lirica.