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dell’anima di Leonardo, all’altra interessantissima diretta ai Fabbriceri del duomo di Piacenza, vivace, d’andatura pianamente discorsiva, suadente da prima, e poi corruscante di sdegno, a quella indirizzata al Magnifico Giuliano de’ Medici per informarlo della pessima condotta di Giovanni degli Specchi, stesa in parecchie redazioni che mostrano il Vinci preoccupato finanche della forma d’una lettera che, dopo breve preambolo, procede spedita, quasi brusca, spoglia d’ornamenti, accennando rapidamente ma a una a una le gesta del mariuolo, alla lettera «ai signori diputati» ricca di periodi dalle lunghe protasi spese in orore dell’osservanza della ragione storica nella continuazione di un edifìcio, e che poi finisce (lo scrittore era stanco? o altro pensiero l’attirava?) con due periodetti buttati giù di furia a mo’ d’appunti presi per ricordo, ai biglietti concitati ai fratelli o a quelli scherzosi a Francesco Melzi, tutte le poche lettere rimaste di Leonardo ci rivelano il suo temperamento di scrittore nato, spontaneo, vivo, che accetta ogni forma sintattica, dalla più letteraria alla più popolare, dalla più semplice alla più complessa, e guidato dal suo sicuro istinto, se ne serve man mano che corrispondono agli atteggiamenti quanto mai vari del suo pensiero.

Poichè non si può parlare d’artifizio classicheggiante quando, da una mente superiore per forza d’analisi e di sintesi come quella del Vinci, sgorgano periodi complessi di larghissimo respiro, ricchi di proposizioni incidenti e subordinate, in cui l’inversione è la chiave di volta che sostiene il ben congegnato edifizio; e non si può parlare d’artifizio