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fico, ma magnificamente viva e nervosa nell’ansia e nell’adorazione del sapere, ho posto — come il simulacro del dio sul limitare del tempio — il mirabile frammento in cui descrive se stesso, proteso verso l’oscurità minacciosa d’un’orrida spelonca (come il Petrarca alle sorgenti del Sorga), combattuto tra la paura istintiva e il desiderio d’entrare a carpire i maravigliosi secreti della natura: rappresentazione colta (lo dicono i minuziosi particolari), dal vero, e che ci dà un Vinci di proporzioni ben più umane e ben più drammatico e poetico del semidio impassibile dominatore delle cose, degli eventi e di se stesso che molti studiosi hanno idoleggiato.

Le idee, le grandi idee direttive di tutta la sua vita intellettuale, non restano in Lui pure fredde idee, ma diventano una fede, la sua fede, che enuncia in brevi sentenze staccate, grandiose nella loro concisione, nella loro semplicità, come incise da un veggente su solitari massi erratici, a segnare il suo passaggio attraverso regioni immense ancora sconosciute, appelli lanciati al deserto.

Per queste idee Egli combatte con foga, con sdegno, con amarezza, con ironia, contro la falsa parolaia dottrina del suo tempo, e allora la sua prosa non procede più per proposizioni staccate, ma si snoda in agili e robusti periodi, acquista carattere polemico e quindi nervosa vivezza.

Non pretendete, però, in Lui un fisso modello di prosa mai, neppur nella grave dimostrazione scientifica. Di qualunque argomento tratti, essa risulta sempre dalla fusione d’elementi apparentemente opposti e che s’incontrano infatti separati nei nostri