Le poesie religiose (1895)/Un giudizio di G. Trezza

Gaetano Trezza

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Alta quies Le poesie religiose (1895)


[p. I modifica]

LE

POESIE RELIGIOSE

DI

MARIO RAPISARDI

(Dal Diritto del 13 giugno 1887).



Perchè l’autore del Lucifero e del Giobbe, appella Poesie Religiose le sue liriche nuove? mi domandò un amico. S’è forse convertito a Dio il poeta ribelle di Catania? e dopo ch’ei gittò via fieramente i gioghi celesti, se ne rimette forse un altro sul collo? In questi suoi Canti c’è poesia, non te lo nego, ma la religione dov’è?

Dove? gli risposi: nella poesia stessa che canta la natura colle sue leggi eterne, colle sue virtù redentrici, co’ suoi grandi ideali che sorgono dalle rovine di mille secoli, e ci esaltano nell’infinito vivente di cui siamo parte. Comprenderne le leggi, educarle in sè stesso, promuoverle negli altri, conformarvisi con rassegnazione feconda, senza ribellioni stolte perchè inutili, senza l’orgoglio che si fa centro alle cose, senza pianto romantico sopra un mondo svanito per sempre; ma guardare intrepidamente il vero qual’è, [p. II modifica]non quale sel fabbrica un sentimento cieco di fede; non è religione codesta, ben più efficace di quante tramontarono dalla storia? I devoti di quell’ideale che costituisce la più alta realtà della vita, sarebbero miscredenti perchè ricusano di riceverlo da un dogma?

Poesie religiose son queste del Rapisardi, appunto perchè rivelano l’ideale nella natura; non vi trovi i terrori falsi dell’oltretomba, ma lo spavento sacro dell’infinito; non querimonie di limosinanti vili che aspettano la redenzione da una grazia straniera all’uomo, ma tristezze magnanime di chi conosce la propria sorte ed il luogo che tiene nel mondo. I Canti del Rapisardi non appartengono a veruna scuola, e chi li giudicasse con idee preconcette, o, peggio, con odio preconcetto, non potrebbe intenderne l’unità d’ispirazione che li domina tutti dalla Renovatio all’Alta Quies. La forma a cui giunse con pertinace studio, non è nè classica nè romantica, ma riflette l’originalità matura del suo genio lirico.

Non è un freddo alessandrino che ti dà le reminiscenze d’un’arte sepolta; non un romantico vago con quella misticità molle e serafica che si distilla in sospiri e in lagrime; non ha la tenue gracilità d’imagini ondeggianti ed aeree, ma nervosità di forme che saltano spiccate e piene dal pensiero che le produce e le nutre.

Negli altri poemi il Rapisardi non era giunto a questa maturità nella forma; e specialmente nelle parti epiche del Lucifero e del Giobbe, predomina troppo quella grandiosità d’imagini e quella sonorità di ritmi in cui si pompeggia il concetto. I suoi nemici l’han giudicato un poeta rettorico, senza accorgersi che a [p. III modifica]quella stregua Virgilio sarebbe più rettorico di lui: giacchè quel tono nell’epopea classica predomina tanto, che spesso ti riesce impossibile di sorprendere il punto in cui finisce il retore e comincia il poeta. E poi convien confessare che chi ritenta l’epopea nel mondo moderno, non può sottrarsi a questo pericolo, e non se ne sarebbe sottratto nemmeno il Rapisardi, se in lui le parti liriche non avessero spirato una vita nuova alla parti epiche.

Ma qui il poeta è lui, tutto lui, colle sue idealità, col suo pessimismo, colle sue ribellioni, ed esprime in sè stesso lo stato intellettuale e morale della società nostra. Quindi il Rapisardi si trova in una specie di clima lirico, e vi trasfonde i suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi sogni, i suoi sdegni, le sue malinconie. Il riso satirico non è leggiero, saltellante, beffardo, che pullula, per così dire, a sommo dello cose, ma è riso profondo ed acre, che ti strazia le carni, perchè prima d’uscire in un ritmo, straziò l’anima del poeta.

Anche il pessimismo che, ogni tanto, illumina di lampi funerei il suo pensiero, non è superficiale e frivolo, non è nemmeno quel pessimismo scettico in cui si risolve la contemplazione della vanità del Tutto; che dichiara impotente la ragione, impotente la scienza, impotente la vita, e cristianeggia il nirvana buddico, a cui mette foce, come in alcuni romanzieri russi; ma è coscienza sana che si svezza da illusioni dannose, si rifeconda nelle grandi potenze dell’essere, le moltiplica in sè stesso, e le trasmette nell’avvenire.

L’ideale del Rapisardi non è quello del Tolstoi; è [p. IV modifica]l’inestinguibile energia delle cose che le sospinge di moto in moto, e crea nel cervello forme sempre più alte e più vere. Ei si rinnova e si redime nella scienza e per la scienza; non la strozza a piè d’una croce ascetica, ma la dislarga nell’infinito vivente. È l’ideale moderno, simbolo di energie divine che si promuovono dal pensiero stesso; è l’immer strebend di Faust che si conquista la salute, sfuggendo di mano a Mefistofele che lo inceppava nelle visioni sataniche dell’egoismo. È la Renovatio come la canta il Rapisardi, in cui le virtù del pensiero conscio di sè risorgono dal pessimismo stesso che sembra distruggerle.

La vela ai venti, il remo al pugno, il vigile
     Sguardo alla paurosa alba del ver....
     Salve, o madre, dirò, fin che indomabile
     Eroe dell’ideal naufraghi in te.

La redenzione nel vero e la rassegnazione alle leggi della natura, è pure mirabilmente espressa nel Nomos.

.... Sta sopra a ferreo
     Trono la legge eterna
     Che terra e ciel governa.

I Canti Ai volontarii della Carità, Alla Virtù, Ex umbra in solem, Charitas, manifestano in diverso modo lo stesso concetto d’un ideale vivente e pieno, in cui e per cui si maturano le energie del pensiero e della coscienza. Se il pessimismo qualche volta lo sopraffà, piantandosi come una sfinge in mezzo alle ombre, è un getsemani breve dell’anima offesa dal dubbio; ella si rialza ben presto, e ritrova la pace nella fede profonda della vita. Nella Nox e nella Ballata, il pessimismo e l’idealità si alternano [p. V modifica]insieme, finchè l’una trionfa sull’altro. Nox è un lamento disperato di scettico:

Tacito sopra i baratri marini,
     Su’ baratri del cor tacito stendesi,
     Stendesi dell’immensa ombra l’orror;
     Danzan nell’ombra i fati adamantini,
     E perpetuamente i flutti gemono,
     Perpetuamente si querela il cor.

Ma poi, quasi pentendosi, nella Ballata, riafferra le grandi speranze:

Nulla! ma fin che a noi vincitrice Atalanta,
     L'auree sue poma la beltà ne getti;
Finchè tra belve e nembi, una tua voce, o santa
     Virtù, rinfranchi de’ cessanti i petti;
Fin che ruggendo pugni, giovin leone, il dritto,
     Oscuro al volgo e dai monarchi irriso;
E tra le fiamme e il sangue del prometèo conflitto,
     Vergine libertà, splenda un tuo riso;
Finchè tra’ naufragosi vortici del mistero
     V’è una sfinge che tacita seduce,
Fra i granitici errori una gemma del vero,
     Negli anfratti del core un fil di luce;
Finchè l’amore in petto, al ver le ciglia fisse,
     Bella è la morte e nobile il cimento,
O vita, eterna Circe, cui solo doma Ulisse,
     Al tuo magico regno, ecco, io m’avvento.

Sempre così, questo poeta fortemente acceso d’un ideale che gli sta dinanzi! Sembra dimenticarlo un istante, e in quella eclissi si dibatte ansioso e tetro; ma in poco d’ora la natura gli rifolgora sugli occhi, ed ei si riesalta nell’ebbrezza dell’infinito. E’ la santa Venere che gli distilla in petto il suo dolce, e lo imparadisa nei sogni:

Ed ei, sereno impenitente, agogna
     Le tue fulgide rive,
     Ardua beltà.

[p. VI modifica]

In quelle cinque poesie, stupende d’ispirazione lirica, Sognatore, Ebe, Nella foresta, Elena, La mia candidatura, ei si rivela qual'è, tutto co’ suoi ondeggiamenti tra il sogno ed il vero, fra la vita com’è fuori di lui, e la vita com’ei la idealizza dentro di sè. Nel Sognatore ei va da un tono all’altro per guisa, che la satira e la lirica si fondono insieme. Che nervosità di forme, che scherno acre e vibrato nelle due strofe satiriche!

Ma la brodosa pubertà che succia
     A le ciocce di Jalla
Lo stil novo, traendo dalla cuccia
     Seco la farda gialla,
Gagnola: o Arcadia, o frasche! al bel paese
     Noi scandiamo la strofe
Alcaica su ’l volubile garrese
     De le galanti scrofe.

Nella Sera d’agosto e nel Febbrajo, c’è un’articolazione così piena nel verso, un sentimento della natura così largo, un vigore di colorito così sano, che pajono frammenti antichi scoverti nel mondo contemporaneo.

Ed ora, per esser giusto, vorrei dir francamente al poeta catanese che l’originalità della sua forma lirica, nasconde un pericolo. Egli ardisce congiungimenti nuovi d’imagini, e possiede il segreto arduo della callida junctura che domandava Orazio ai poeti. Ei sa che i vocaboli non sono soltanto simboli delle cose, ma centri d’associazioni, come nota acutamente il Lewes. Egli trova relazioni inaspettate fra le parole, ed un gruppo d’armoniche latenti, consuona intorno al ritmo poetico che le suggerisce. [p. VII modifica]

Ma, qualche volta, a punto perchè le sforza troppo, certe imagini escono un po’ contorte; ei scava troppo nel proprio pensiero, e la riflessione acuta lo porta a certi accozzi che scemano la spontaneità dell’ispirazione. E per non torre che un esempio: quando nelle Stelle cadenti egli usa quest’imagine:

     . . . . . . invan di ciechi
     Adamastorri il vero arma i suoi flutti.

mi par che dall’imagine, appunto perchè troppo contorta, non esca ben netto il pensiero poetico. Potrebbe esser colpa mia se non mi riuscì chiaro, ma potrebbe anche essere colpa dell’imagine stessa desunta da relazioni false. Anche i mostri che diventano “raggianti arcangeli marini„, quel “ai dèmoni s’attesta intrepido„, sono residui di forme romantiche omai cancellate dal sentimento, che l'arte non dee rievocare.