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— III —

quella stregua Virgilio sarebbe più rettorico di lui: giacchè quel tono nell’epopea classica predomina tanto, che spesso ti riesce impossibile di sorprendere il punto in cui finisce il retore e comincia il poeta. E poi convien confessare che chi ritenta l’epopea nel mondo moderno, non può sottrarsi a questo pericolo, e non se ne sarebbe sottratto nemmeno il Rapisardi, se in lui le parti liriche non avessero spirato una vita nuova alla parti epiche.

Ma qui il poeta è lui, tutto lui, colle sue idealità, col suo pessimismo, colle sue ribellioni, ed esprime in sè stesso lo stato intellettuale e morale della società nostra. Quindi il Rapisardi si trova in una specie di clima lirico, e vi trasfonde i suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi sogni, i suoi sdegni, le sue malinconie. Il riso satirico non è leggiero, saltellante, beffardo, che pullula, per così dire, a sommo dello cose, ma è riso profondo ed acre, che ti strazia le carni, perchè prima d’uscire in un ritmo, straziò l’anima del poeta.

Anche il pessimismo che, ogni tanto, illumina di lampi funerei il suo pensiero, non è superficiale e frivolo, non è nemmeno quel pessimismo scettico in cui si risolve la contemplazione della vanità del Tutto; che dichiara impotente la ragione, impotente la scienza, impotente la vita, e cristianeggia il nirvana buddico, a cui mette foce, come in alcuni romanzieri russi; ma è coscienza sana che si svezza da illusioni dannose, si rifeconda nelle grandi potenze dell’essere, le moltiplica in sè stesso, e le trasmette nell’avvenire.

L’ideale del Rapisardi non è quello del Tolstoi; è