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— II — |
non quale sel fabbrica un sentimento cieco di fede; non è religione codesta, ben più efficace di quante tramontarono dalla storia? I devoti di quell’ideale che costituisce la più alta realtà della vita, sarebbero miscredenti perchè ricusano di riceverlo da un dogma?
Poesie religiose son queste del Rapisardi, appunto perchè rivelano l’ideale nella natura; non vi trovi i terrori falsi dell’oltretomba, ma lo spavento sacro dell’infinito; non querimonie di limosinanti vili che aspettano la redenzione da una grazia straniera all’uomo, ma tristezze magnanime di chi conosce la propria sorte ed il luogo che tiene nel mondo. I Canti del Rapisardi non appartengono a veruna scuola, e chi li giudicasse con idee preconcette, o, peggio, con odio preconcetto, non potrebbe intenderne l’unità d’ispirazione che li domina tutti dalla Renovatio all’Alta Quies. La forma a cui giunse con pertinace studio, non è nè classica nè romantica, ma riflette l’originalità matura del suo genio lirico.
Non è un freddo alessandrino che ti dà le reminiscenze d’un’arte sepolta; non un romantico vago con quella misticità molle e serafica che si distilla in sospiri e in lagrime; non ha la tenue gracilità d’imagini ondeggianti ed aeree, ma nervosità di forme che saltano spiccate e piene dal pensiero che le produce e le nutre.
Negli altri poemi il Rapisardi non era giunto a questa maturità nella forma; e specialmente nelle parti epiche del Lucifero e del Giobbe, predomina troppo quella grandiosità d’imagini e quella sonorità di ritmi in cui si pompeggia il concetto. I suoi nemici l’han giudicato un poeta rettorico, senza accorgersi che a