Le nostre fanciulle/Parte Prima/La gioia del lavoro
Questo testo è completo. |
◄ | Parte Prima - Le donne dannose e le inutili | Parte Prima - Serenità | ► |
LA GIOIA DEL LAVORO
Ieri sentii più vivamente del solito il piacere che dà una giornata di intenso lavoro, e venuta finalmente l’ora della quiete i miei muscoli si distesero in una sensazione di caldo benessere; e la mia mente, distaccatasi da ciò che l’aveva avvinta fino allora, se ne andò, senza meta, liberamente, con un gaudioso sentimento di meritato riposo.
Mi è sempre parsa una delle menzogne convenzionali il parlare del tedio, del peso di dover riprendere ogni giorno il proprio compito di operosità. Siamo sinceri, e confessiamo invece che senza di esso la vita sarebbe ben vuota e priva di piacere.
Svegliarsi e pensare: — Oggi devo fare la tal cosa: il tal lavoro mi aspetta, — è una molla che fa scattare in noi tutte le più buone energie: è un vero riattivarsi di tutti i più minuti congegni della nostra macchina. Che cosa vi è infatti di più piacevole del sentirsi strumenti non inutili del grande opificio domestico e sociale?
Il lavoro è una funzione naturale e necessaria al corpo umano, tanto è vero che chi non vi è obbligato, cerca in qualche altro modo di esercitare i propri muscoli e il proprio cervello. Guardate quelli che abitualmente oziano, come si trasformano se hanno qualche cosa da fare, sia pure un’occupazione non di utilità, ma di piacere! Essi si danno l’aria affaccendata e importante con l’ingenua serietà dei fanciulli che riescono a imitare i grandi. I grandi in questo caso sono i lavoratori veri; l’uomo perfetto è dunque quegli che più lavora.
Il piacere di questa ginnastica dello spirito e dei muscoli è uno dei più intensi; ed è infatti uno dei pochi che si rinnovano continuamente, con la stessa intensità, e che spesso aumenta con gli anni, perchè con gli anni cresce in noi la coscienza del suo beneficio.
Quanti uomini operosi abbiamo noi tutti conosciuti che, pur potendo concedersi anni di riposo, continuarono a lavorare instancabili Quanti dicono: «Se non lavorassi sarei un uomo morto»; e infatti, chi di noi non vide subitamente infiacchire, intristire e morire forti lavoratori, quando credettero di trovar nel riposo la felicità?
E ogni giorno noi abbiamo pure occasione di avvertire come questo lavoro così calunniato — chiamato sacrificio o schiavitù, anche quando non lo è, — sia un bisogno della vita e un godimento. Un giorno di riposo è per l’operaio e per lo scolaro una festa: ma al secondo già appaiono sui loro visi i primi lievi segni di una noia inconfessata: al terzo le braccia pendenti del lavoratore sembrano già stanche e vergognose dell’ozio: e sulle labbra del fanciullo viene la frase pronunciata con voce supremamente annoiata: «Oh, mamma, che cosa facciamo oggi?»
Si può dire, senza tema d’errare, che tutte le più nobili qualità vengono all’uomo dal lavoro: la dignità, la forza d’animo, il coraggio, l’onestà, la serenità.
Noi donne ora abbiamo capito come esso aiuti i nostri uomini a sopportare anche i dolori più strazianti, a consolare dei piccoli crucci giornalieri. Portati forzatamente per molte ore fuori della cerchia dolorosa, il loro spirito si riposa, e la loro fibra rinvigorisce. Perchè noi ci dovremmo invece logorare in rimpianti? accasciarci sotto il peso di ogni difficoltà, strette e chiuse in un piccolo circolo di occupazioni e di crucci tutti materiali, quando, mettendo in moto le facoltà che Dio ci ha dato, potremmo essere tanto più forti e felici, ed allevare i nostri figlioli in un ambiente più vivo e sereno? E chi può negare che non sia una forma nobile e purissima di aspirare alla felicità. questa che porta le donne moderne a un’operosità anche fuor dello spazio circoscritto dalle tradizionali occupazioni casalinghe?
Quanto benefico esso sia, lo prova appunto la maggior forza d’animo, dirci anche la prolungata giovinezza di spirito di queste donne, in confronto di quelle che, con nessun altro pensiero che la propria casa, hanno però in realtà tante ore oziose. Se son donne leggere trovano troppo facilmente il tempo per la vanità, i pettegolezzi e la galanteria; se sono buone e amorose finiscono a esagerare il loro compito, e lasciarsi opprimere dal peso di infinite faccende in cui non sanno mettere nessuna idealità.
Non ricordo in quale libro americano, lessi che molte donne credono che la Provvidenza abbia messo il tappetino davanti al nostro uscio per segnare il confine dei loro doveri.
Se noi fossimo tutte ben persuase, non dico del dovere, ma almeno del piacere di una più larga operosità, che dia profitto a noi e agli altri; del godimento che si prova nel far fruttare le proprie facoltà di pensiero e d’azione, chi vorrebbe rinunciarvi?
Ma rallegriamoci, che per le Alpi traforate ridiscesero abitudini di attività e di coltura femminile ch’erano emigrate, poichè l’Italia del cinquecento ne aveva dato a tutto il mondo esempi luminosi. Dall’Alta Italia, va propagandosi ora nelle altre città una buon’aria ossigenata che guarirà certo molte anemie morali e intellettuali delle donne italiane.* * *
Io credo fermamente che la gioia sia in fondo ad ogni sforzo umano, e che solo cause estranee la nascondano, l’appannino, la deturpino. La fatica eccessiva, non proporzionata al compenso o alla salute dell’individuo, la tirannia di chi comanda, l’impossibilità del risparmio, il non poter vedere alla fine di una dura vita che l’ospedale per sè e la fame per i propri cari, devono rendere il lavoro un vero, ingiusto castigo, e si capisce come possano ribellarsi ad esso uomini che sentono di non essere men degni di tanti che non faticano e se la godono. Ma, ripeto, non è il lavoro stesso una pena.
Molti uomini ricchi che dedicano la loro intelligenza all’arte o alla beneficenza, vi mettono un’instancabilità che ci dice come abbiano finalmente trovato, lavorando, una felicità cercata invano oziando e godendo. Operosissime dame, messesi alla testa di laboratori artistici e industriali, vi apportano ora un ardore, una costanza di lavoro, una così palese gaiezza che una vera rivelazione, non solamente per loro stesse, ma anche per gli operai e le operaie che le vedono al lavoro.
Si dirà che vi sono lavori così ingrati e umilianti i quali saranno sempre un’ingiusta pena, e lo diventeranno maggiormente quando l’istruzione sarà più diffusa. Ma tutto sta, mi pare, nel vantaggio che l’uomo vi può trovare. Noi vediamo che per sport si affrontano fatiche e pericoli inauditi; su per cime ritenute inaccessibili, attraverso paesi e fra popoli selvaggi, nell’Oceano, fra le tenebre e i ghiacci del Polo, fra i venti e le nubi.
Perchè pensare dunque che il penetrare e lavorare nelle viscere della terra, o sotto le acque, o fra macchine rombanti e pericolose, non abbia un fascino per uomini sani e coraggiosi, soprattutto quando li animasse il pensiero che con questo lavoro procurano il benessere alla loro famiglia?
Ecco che un grave problema, lentamente, fatalmente, si è avanzato. Noi lo vedemmo venire sul gran mare della vita, come una nave tutta bianca e lieta, con le vele gonfie e crepitanti, che sognammo piena soltanto di doni preziosi. Ma via via che si avvicina noi scorgiamo i suoi fianchi che portano segni di lotte con terribili elementi, noi vediamo il ponte insudiciato, le punte degli alberi fulminate e le vele rappezzate.
La letizia non è più che nella bandiera sventolante in alto, e sui visi dei passeggieri e degli uomini di comando che di sul ponte guardano la terra che s’avvicina, il porto sicuro che li aspetta. Ma sotto, sotto, quante creature umane faticano senza sapere come e dove vanno; sballottate in uno stretto spazio senza luce e senz’aria, essi che alimentano il gran motore che porta la nave attraverso l’Oceano della vita!...
Oh, diamo il giusto compenso a chi deve faticare, perchè il lavoro non sia per esso una condanna; mostriamo la nostra stima e la nostra simpatia a chi s’affatica per quanto umile uomo esso sia; mettiamo in luce il piacere ch’è in ogni lavoro compiuto con buon volere, e daremo coraggio e serenità a tante creature scoraggiate e malcontente!* * *
Un grande mistico, vivente in un ingrato paese ove terra e cielo, miseria e governo alimentavano ribellioni e pessimismi feroci, Leone Tolstoi, — lo sprezzatore, non so se più accanito del danaro o dell’amore — vide la beatitudine e la giustizia umana in un lontano futuro, nel quale tutti vivranno del loro lavoro in un’ascetica austerità. Egli proclamò il dovere del lavoro.
Un grande materialista, vissuto in mezzo al popolo più vivo e più gaio, — conoscitore profondo di tutte le forme di lavoro e di dolore — lo Zola, vide invece la perfezione umana nell’uso fecondo di tutte le più sane energie, nella larga e lieta benevolenza di una società ove siano sconosciuti l’egoismo, la prepotenza e la superbia. Egli cantò la gioia del lavoro.
Non è strano? l’uno, il cristiano purissimo distrugge con le gioie della vita la vita stessa. L’altro, il materialista, l’ateo, vuol che crescano e moltiplichino le ragioni di benedizione di questa vita, sembrandogli che solo nel benessere e nel lavoro fecondo, possa l’uomo esplicare le sue virtù.
Come ha ragione il Brémond, l’autore di profondi libri religiosi, di dire che in ogni materialista, la cui vita sia informata a un’alta moralità, vi è inconsciamente e immutabilmente un profondo sentimento religioso!
Infatti, chi di noi non sente quanto più sacro rispetto dell’umanità, quanta vera e alta ammirazione della creazione vi sia nell’inno di Zola al lavoro e alla fecondità, più che non ve ne sia nel pessimismo e nell’antiumana austerità del Tolstoi, che pur credette mostrarci, lavorando egli stesso manualmente, il suo rispetto al lavoro?
Nessuno può pensare in buona fede che la ricchezza possa in un giorno lontano essere e durare divisa equamente nel mondo; ma il lavoro compensato con giustizia e ugualmente stimato non vorrà già dire forse la fine di molti rancori e di molte miserie?
Le città, le nazioni che più hanno progredito sono quelle che più lavorano e maggiormente tengono in pregio i lavoratori. Pensiamo ai fiorenti comuni italiani e alla dignità di ogni uomo che lavorasse. Chi voleva prender parte parte al Governo del Comune, fosse nobile o ricco, doveva essere ascritto a un’arte. Tutti i mestieri si chiamavano allora arti, e nelle feste del maggio i ricchi gonfaloni degli artigiani sventolavano avanti a quelli del Comune.
A Venezia, quel poeta del lavoro che fu il Ruskin con grande meraviglia e gioia scoperse nelle sculture dell’archivolto centrale di San Marco, un bassorilievo ove sono scolpite, non già le corporazioni religiose e i capi del Comune in corteo di cerimonia, ma i semplici artieri: i mestieri e negozi che richiedono l’opera manuale, a cominciare dal costruttore di navi, giù giù fino al vinaio e al fornaio, per terminare col legnaiolo, col fabbro, col pescatore.
Gli artisti si aggrappavano infatti allora fraternamente coi più modesti tagliapietra e coi decoratori della medesima società o scuola (allora che si era più grandi e più umili così si chiamavano) poichè tutti animava lo stesso desiderio della prosperità della patria, lo stesso culto del bello.
Ma non tutto ciò ch’era buono è scomparso. Tradizioni di lavoro e di fratellanza non si spensero mai in certe famiglie patrizie. In Toscana, ove i nobili facevano una volta mettere in vendita il vino delle loro terre nelle cànove al pianterreno dei loro palazzi, ancora i più fieri e antichi nomi e gli stemmi gloriosi sono oggi su frontoni di fabbriche, su avvisi affissi nelle strade e nelle locande. Così nel Piemonte; e la biscia viscontea in Lombardia è diventata insegna di tessiture e di filature che danno lavoro a migliaia d’operai.
I nuovi arricchiti invece raramente capiscono queste nobili ambizioni: essi cercano di dimenticare e far dimenticare in qual modo fecero la loro fortuna, anche quando essa fu fatta onestamente. Ben diversi in questo dal miliardario americano il quale ci tiene a far sapere che ha conosciuto la miseria, che ha fatto il barcaiolo, il facchino, magari il lustrascarpe, e che a furia d’attività, di sacrifici e soprattutto di risparmio e di sobrietà ha potuto formarsi un coltura e salire alla fortuna.
Dal piccolo libretto di Beniamino Franklin, come dal grosso volume di Carnegie noi vediamo trapelare la gioia del ricordare tutte le lotte e la gloriosa riuscita; un generoso, prepotente bisogno di propagare il loro esempio, per attirare a godere la vita come essi hanno fatto, lottando e lavorando, il maggior numero di giovani possibile.
Il Mosso, in un suo libro sommamente interessante e che dovrebbe essere letto da tutti gli insegnanti e gli educatori, dice che «il fine che si propongono gli americani nell’educazione è affatto diverso dal nostro. I popoli latini fanno convergere le occupazioni della giovinezza verso il riposo e il vivere quieto di un impiego, senza rischi ed emozioni e senza grandi fatiche... gli americani invece desiderano e ammirano il lavoro duro.
«Anche i più ricchi sono educati in modo da sapere e poter lottare se una catastrofe arriva; pronti sempre a una professione o a un’arte da cui trarre un guadagno per vivere».
«In America, la gloria — ripeto le parole del Mosso — «è nella lotta e nel lavoro per conquistare la fortuna; non nel premio che può dare l’operosità, o nella ricchezza che si guadagna senza merito anche dagli audaci inetti».
Gli italiani che dimorano negli Stati Uniti, tornando dopo molti anni in Europa si stupiscono di vedere nelle città francesi e italiane passeggiare uomini e donne in giorni non festivi, invece di camminare lesti a una meta. Laggiù non si conosce quasi il flaneur che va su e giù per un boulevard o per un corso o se ne sta delle ore a oziare sui marciapiedi o alle porte di caffè, come in molte città d’Italia. L’ozio, questa ruggine del corpo, — come fu chiamato — essi non lo comprendono neppure nel divertirsi, che è per essi soltanto un mutamento d’occupazione, il darsi a un energico lavoro dei muscoli o dell’intelligenza.
Ma, come è vero che per goder bene bisogna essere educati, l’uomo rozzo non sa che farne delle sue ore di riposo, e spreca in bagordi salute e danari, credendo sia questo il modo di godere il proprio guadagno e di svagarsi dopo la fatica. Nei grandi centri, ove l’istruzione è più diffusa fra i lavoratori, noi vediamo invece i teatri pieni la sera di operai o commessi di negozio, a godersi la bella musica, le belle commedie, le buone conferenze.
Se ogni uomo che lavora ha in America uguali diritti, è perchè ha educazione uguale; non per nulla gli operai delle grandi città depongono nelle officine i loro abiti da lavoro ed escono puliti in abiti da persone ammodo. Mi diceva un signore che dall’officina in cui egli era impiegato tutti uscivano in tuba, tranne lui. Ma gli operai nelle grandi città americane voi li potete veder arrestarsi ai banchi di libri e tornarsene a casa con grossi volumi sotto il braccio, perchè il loro salario permette di avere una stanzina messa a salotto, ove i libri rilegati in rosso e oro fanno così bella figura sul tavolino, e dove è così piacevole passare le domeniche piovose. Ben retribuito e bene istruito quell’operaio apprezza veramente tutto ciò che il progresso gli procura.
La società nord Americana non ha avuto dietro di sè secoli di civiltà in cui abbiano messe radici abitudini che bisogni mutare; intiere classi di gente secolarmente oziosa, o secolarmente oppressa. Sorta dal lavoro, guidata nel suo cammino della praticità, essa non ha davanti a sè che esempi di gente che col lavoro arrivò alla potenza, che col lavoro si procura i suoi godimenti.
Noi stiamo invece coltivando un’antica terra che già diede frutti meravigliosi, ed era diventata arida appunto perché aveva molto prodotto. L’opera è più dura e più difficile che non sia dar fuoco a una foresta vergine e dissodare un terreno nuovo; tutto è da rimuovere dal fondo; ma come vengono alla luce antichi tesori d’arte ogni volta che ci mettiamo a scavare nelle nostre città, e terra nera e feconda nelle nostre campagne, inaridite alla superficie, così tradizioni d’ingegno e di virtù grandi risuscitano in noi, e daranno certo, come nell’antichità, frutti più succosi e più belli che altrove.