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66 | La gioia del lavoro |
parte al Governo del Comune, fosse nobile o ricco, doveva essere ascritto a un’arte. Tutti i mestieri si chiamavano allora arti, e nelle feste del maggio i ricchi gonfaloni degli artigiani sventolavano avanti a quelli del Comune.
A Venezia, quel poeta del lavoro che fu il Ruskin con grande meraviglia e gioia scoperse nelle sculture dell’archivolto centrale di San Marco, un bassorilievo ove sono scolpite, non già le corporazioni religiose e i capi del Comune in corteo di cerimonia, ma i semplici artieri: i mestieri e negozi che richiedono l’opera manuale, a cominciare dal costruttore di navi, giù giù fino al vinaio e al fornaio, per terminare col legnaiolo, col fabbro, col pescatore.
Gli artisti si aggrappavano infatti allora fraternamente coi più modesti tagliapietra e coi decoratori della medesima società o scuola (allora che si era più grandi e più umili così si chiamavano) poichè tutti animava lo stesso desiderio della prosperità della patria, lo stesso culto del bello.
Ma non tutto ciò ch’era buono è scomparso. Tradizioni di lavoro e di fratellanza non si spensero mai in certe famiglie patrizie. In To-
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