Le colpe altrui/Parte II/Capitolo VI
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VI.
Giorni sereni e lieti cominciarono allora per la casa Zanche.
La domenica ultima di carnevale alcune fanciulle degli stazzi vicini stabilirono di recarsi mascherate a fare gli augurii a Vittoria ed a Mikali, le cui nozze erano state celebrate senza inviti e all’alba come sponsali di vedovi.
A misura che le allegre mascherine attraversavano i campi solcati di rigagnoli e già verdi d’erba nuova tremula al vento, il loro numero cresceva: dagli stazzi ove si ballava e si cantava allegramente, uscivano giovanotti camuffati con scialli neri, pelli e sonagli, e le seguivano urlando come fauni.
Uno della mascherata suonava la fisarmonica e un’onda di melodia nostalgica passava sulla brughiera, accompagnata dal soffio del vento. Su in alto il cielo era fitto di piccole nubi bianche e nere che correvano sullo sfondo turchino come onde agitate; e le roccie di Monte Nieddu ne trattenevano alcune di passaggio e se ne incappucciavano per mascherarsi anch’esse.
Dallo stazzo Zoncheddu uscirono le donne: Ignazia, che aveva voluto prendere servizio quella mattina stessa, scura in viso e con gli occhi pieni d’angoscia, Battista pallida di tristezza rassegnata: fischi, gridi, parole scherzose volarono allora come un getto di freccie, dallo stradone al campo; le Zoncheddu invitarono le maschere ad entrare, queste promisero di farlo al ritorno.
— Preparate i vassoi!
— Per ricevere quello che porterete!
— Anche per ciò!
— Se vi lasceranno entrare!
— Se non ci lasciano buttiamo le porte.
— Attenti a non disturbare gli sposi!
— Mikali vi spara!
— Oggi non ne ha la forza!
— Uh!... Anima mia!... Fulmine!...
Grida e suoni si confusero in lontananza, mentre Ignazia e Battista seguivano il gruppo delle maschere con occhi di invidia e di nostalgia, come l’esule segue il passaggio degli uccelli che migrano verso la patria perduta.
Le maschere si fermarono davanti allo stazzo Zanche, e sebbene il portone fosse aperto, e tutto nell’interno tacesse come nei giorni ordinari, non osarono entrare senza essere invitate; ma la fisarmonica accennò il motivo del ballo sardo e tosto si formò il circolo e cominciò la danza; e quando Mikali, vestito a festa, sbarbato, coi capelli lisci, bello come un astro appena spuntato, apparve sulla porta della cucina, un urlo di gioia lo accolse.
Il viso turbato di Vittoria, i begli occhi che ricordavano il mare lontano, brillarono un attimo e si nascosero alle spalle di lui. Altre grida di gioia salirono dal circolo colorato che saltava dietro il portone; i sonagli delle maschere accompagnavano la musica infantile, e i gioielli delle donne, il rosso e il verde dei loro broccati, i loro galloni d’oro scintillarono a un improvviso raggio di sole apparso fra le nuvole.
Mikali uscì sullo spiazzo.
— Non entrate? — disse con calma.
— Se ci dài qualche cosa, sì!
— Entrate e qualche cosa ci sarà!
Allora entrarono; dapprima le mascherine che circondarono Vittoria, l’assalirono, l’assordarono di grida; poi i mascheroni, in gruppo, spingendosi e belando come un gregge; ma zia Sirena e zia Marianna e alcuni vecchi parenti che sedevano attorno al focolare non videro di buon occhio quell’invasione rumorosa.
— Ai miei tempi — disse con sussiego il grosso zio Bakis — se andavamo così in qualche casa, prima di entrare ci toglievamo la maschera...
E Pancraziu ribattè subito, maligno:
— Se non la mettevate, la maschera, per andare appunto ad assalire la casa del vostro nemico!
— Io non sono mai stato un grassatore, hai inteso, lingua d’inferno? — gridò zio Bakis, e afferrò per la sottana una mascherina cercando di palparle le gambe.
— Sei giovane; hai le ginocchia ancora piccole e tenere — disse, suscitando le proteste della mascherina e le risate delle compagne.
— La vostra testa è dura, invece, ziu Bà! Ma non tanto che io non prenda il vostro bastone e ve la rompa!
— Bene! Questo vino? Questi biscotti?
Le mascherine esaminavano i gioielli di Vittoria; ella riconosceva gli occhi delle sue antiche amiche, e sorrideva loro con le labbra rosse dei baci di Mikali. Ma una le disse all’orecchio:
— Sei più contenta tu, di Battista Zoncheddu! — e tosto un’ombra lieve passò sul cielo ardente della sua felicità.
Si scostò, come paurosa di sentire altre parole segrete, e disse a Mikali, guardandolo con amore:
— Mikali, che fai? Fa versare, dunque!
— Niente, se non si fanno conoscere: che modo è questo? — gridò zio Bakis. — Giù la maschera...
Le donne però, piuttosto che lasciarsi riconoscere dagli uomini, preferivano non bere nè mangiare.
— Figlia mia, conducile nella tua camera, — propose zia Marianna, e così fu fatto.
Mangiato e bevuto che ebbero, ritornarono in cucina ridendo e riallacciandosi la maschera sul viso e sui folti capelli in disordine: il vino e i liquori eccitavano gli uomini, e poichè la fisarmonica accennava ancora il motivo del ballo, essi afferrarono le donne e le trascinarono fuori formando nuovamente il circolo.
Il cortile solitario fu tosto animato dalla ghirlanda luminosa; le galline svolazzarono spaventate e il falco e le cornacchie starnazzarono sopra i mucchi della legna, come partecipando alla gioia folle delle maschere.
Vittoria guardava, appoggiata al braccio del suo Mikali. Ecco che la gioia e la vita erano finalmente rientrate in casa sua; e la desolazione intorno si rallegrava come le rive inaridite di un torrente disseccato all’improvviso ritorno delle acque. E il suono della fisarmonica vibrante nell’aria del freddo tramonto le ricordava tante cose dolci lontane; se chiudeva gli occhi le pareva d’essere ancora seduta sulla porta della sua casetta paterna e di suonare accompagnando con le note del piccolo strumento tutti i suoi desiderii e i suoi sogni. Ed ecco che tutto era diventato realtà; ella sentiva la mano di Mikali stringere la sua e comunicarle l’ardore e l’angoscia della voluttà; e davanti ai suoi occhi danzavano le immagini rosse e scintillanti del piacere e della gioia. Era ricca, era amata, era circondata dalla corte dei parenti, aveva cancellato la macchia di disonore che gravava come una nuvola sopra la casa Zanche. Che le mancava? Avrebbe voluto gridare di gioia come le maschere folli che passavano davanti a lei gettandole parole di augurio e allusioni maliziose; era felice come sotto l’incanto di un sogno.
Mikali, mentre non cessava di guardare la scena con occhi lucenti di un piacere infantile, si chinò come per dirle esitando un segreto.
— Vittoria... balliamo anche noi?
— Ma ti pare, Mikali? — ella rispose con dolce rimprovero, oscurandosi in viso. — Mikali, siamo in lutto!
Mikali non insistè: lo sapeva, sì, che benchè sposi non dovevano ballare, per il lutto: e i fantasmi risorsero, nel breve spazio fra la porta e il circolo della danza.
Intanto sopraggiunsero altre due maschere; una vestita da donna, con grossi piedi e scarponi e ghette che tradivano il maschio; l’altra piccolina, infagottata da contadino zoppo e gobbo che fingeva d’essere il marito della prima.
— È Zizza che s’è sposata anche lei.
Mikali aggrottò le sopracciglia poichè lo scherzo non gli piacque; tosto però nel mascherotto che buttava in aria il gabbano e si toglieva una chitarra dalle spalle riconobbe il figlio del cantoniere gallurese, lo stesso che una sera egli aveva costretto a suonare e cantare sotto le finestre dello stazzo, e intenerito strinse la mano di Vittoria.
— Senti la chitarra! Rammenti quella sera? Mi pareva d’essere morto, morto io e morta te, e per la disperazione mordevo le pietre.
Vittoria sollevò verso gli occhi di lui gli occhi gravi di voluttà, e tutto intorno a loro, il ballo nel cortile, la cucina con le figure dei vecchi e delle vedove, tutto svanì; essi soli esistevano, col loro amore, cullati da grida e da suoni di festa.
Ma la maschera vestita da donna passò davanti a loro ballando e gridò quasi brutalmente:
— Vi guarderete più tardi. Da bere, adesso, oh!
— Mi sembra di riconoscere questa voce — disse Vittoria pensierosa.
Dove l’aveva sentita? In un luogo triste, forse, perchè di nuovo un’ombra oscurò la sua ebbrezza.
Anche Mikali aggrottò di nuovo le sopracciglia; entrando però nella stanza terrena per versare il vino nei boccali si rasserenò; intorno si ammucchiava il frumento mandato in dono agli sposi, e sulla tavola gli agnelli neri morti posavano la testina insanguinata sui mazzi di alloro, come dormissero ancora nella brughiera; l’odore del vino si mischiava all’aroma del miele cotto, e tutto era festa nella casa.
Egli ricordava sempre la notte di odio e di dolore quando aveva fatto cantare il ragazzo sotto le finestre di Vittoria; e adesso era lui il padrone, era dentro la casa che gli era parsa una fortezza inespugnabile; e il poter far mostra della sua fortuna ai parenti e ai vicini colmava la sua gioia.
Ecco però Vittoria avanzarsi col suo passo elastico, lieve e dolce come la felicità stessa.
— Non può stare un momento senza di me — pensa Mikali, deponendo il boccale per abbracciarla.
— Mikali! — ella dice con voce grave e triste. — Sai chi è la maschera? È il cacciatore. Che coraggio ha avuto!
— Ebbene? Tutto oramai è passato. Che vuoi fare? Uno scandalo? Spaventare la nostre madri... oggi che siamo contenti?
— Mikali...
— Zitta! — egli dice; e le chiude la bocca col sigillo ardente della sua per impedirle di pronunziare altre parole inutili. Il passato è passato; e i canti, i suoni, i gridi di gioia accompagnano il bacio dell’oblio.
*
In giugno andarono al podere di Santa Maria.
Mikali aveva preso la direzione degli affari e dava prova d’essere un buon proprietario. Molte cose erano arruffate, ed egli le districava con calma e prudenza, dicendo che il patrimonio lasciato da Bakis Zanche era come un cavallo zoppo imbizzarrito; ma lui, abituato a domare puledri, l’avrebbe rimesso a posto.
— Vedrai com’è il prediu, Vittoria mia, vedrai; una foresta. Ma non voglio parlare finchè non arriviamo.
Cavalcavano all’uso sardo, sullo stesso cavallo, attraversando la costa della montagna verso il mare, lungo il sentiero che egli aveva percorso nella notte fatale.
Le ginestre fiorite, così gialle che abbagliavano a guardarle, coprivano le chine, e là dietro, la cima di Tavolara sembrava di perla. Faceva già caldo ma il vento marino di tanto in tanto rinfrescava l’aria col suo alito profumato.
Vittoria non sapeva che era quello il sentiero ove Andrea aveva trascinato la sua angoscia mortale, e Mikali si guardava bene dal dirglielo; ed entrambi, egli, se non completamente dimentico, abituato al ricordo, ella, ignara, si sentivano felici. Felici di essere assieme, di essere soli, di sapersi uniti come un corpo solo per la vita e per la morte: erano nati per questo, pensava Vittoria, e se si erano uniti attraverso tanti ostacoli, Dio aveva voluto così. Sia lodato Dio, dunque: bastava vivere senza offenderlo oltre, lontani dal peccato mortale.
— Che fai? Preghi? — domandò Mikali. — Va, mia madre ti ha ben messo in mano il rosario! Adesso tu e lei fate il pajo.
— Pregavo anche prima, mi pare!
— Non tanto! Almeno certe sere no...
— Quali sere, di grazia?
— Quando venivo io, per esempio!
— Pregavo anche allora, che ti pare? — ella disse con civetteria. — Sono stata sempre una buona cristiana. E tu non lo sei?
— Lo sono, ma l’umido della chiesa mi fa male. Sono i malfattori che pregano come donnicciuole... E anche le donne pregano molto quando sono vecchie o quando hanno qualche malanno. Tu non ne hai, mi pare...
— Che ti viene in mente? — ella disse arrossendo. — Figurati ch’io lo faccia per piacere a tua madre...
— Lascia correre! A dar retta a mia madre nessuno al mondo dovrebbe divertirsi.
D’un tratto aggrottò le sopracciglia.
— Anche Battista Zoncheddu diceva che pregava notte e giorno, per far piacere a mia madre. E adesso a forza di digiunare mi han detto che sta diventando tisica. Quest’inverno si alzava prima dell’alba per andare a messa, e prendi freddo oggi, e prendi freddo domani, ha cominciato a tossire...
— Sì, l’ho veduta; sembra un’ombra, Mikà! L’ho veduta! E come mi ha guardato! Ma io non tossirò, Mikà, anima mia; tu sei mio!
Gli strinse la vita col braccio, come per affermare il suo possesso; ed egli, che aveva capito bene le allusioni di lei, un po’ lusingato nella sua vanità d’uomo, un po’ dolente per la malattia di Battista, le diede un lieve colpo sulla mano inanellata.
— Cosa dici, Vittoria! Storie antiche... Storie da ragazzi...
Ma Vittoria era gelosa e soffriva al solo ricordo del passato.
— Va là, eri una buona spiga, tu, con le donne! E brave loro che ti correvano appresso come ammaliate. Che avevi tu, dopo tutto? Eri un ragazzo; e non sei poi così bello da incantare!
— Ah, sì! E tu, allora?
— Ma io non ti sono venuta appresso, per l’anima mia! Eri tu che venivi. Negalo, se l’osi! Ma voi tutti, uomini, genia perfida, dite che siamo noi donne a cercarvi, e mentite sempre anche sapendo di mentire. Nega anche questo, se l’osi!
Egli non osava; sorrise però, guardando lontano. Non era la prima volta che parlavano di queste cose, e Vittoria si confortava pensando che oramai Mikali era un buon marito, un buon capo di famiglia; aveva anche lui fatto la sua giovinezza com’è bene che tutti gli uomini la facciano, come il servizio militare; ma appunto come i reduci dal servizio militare egli si compiaceva a volte a raccontare le vicende di quel periodo avventuroso, esagerandole alquanto, ed ella sentiva per istinto ch’egli rimpiangeva senza volerlo, forse senza saperlo ancora, il suo passato libero e selvaggio. Sì, egli aveva domato la fortuna come un puledro, e adesso la cavalcava comodamente come cavalcava il cavallo di Bakis Zanche; ma spesso guardava davanti a sè lontano e un vago rimpianto gettava un velo fra lui e il passato, rendendo questo bello e fantastico come i vapori di quel pomeriggio di giugno rendevano belle le lontananze.
— Non lo nego; sono io che ti sono corso addietro, Vittoria! Come non farlo? Se tu avessi continuato a dire di no, non so cosa sarebbe accaduto di me. Ma se partivo, così Dio mi assista, diventavo un altro Mikali; chi sa cosa diventavo!
— Altri ne son partiti e son tornati peggio di prima.
— Ma io sono diverso da loro! Non sono un manovale nè un mandriano, io! Un uomo come me trova fortuna da per tutto: non sono stato forse fortunato anche senza partire? — concluse per adularla: e poichè lei rideva, un po’ con insolenza, un po’ con tenerezza, riprese a vantarsi.
— E cosa credi tu, Vittoria? Se io avessi studiato, sarei diventato qualche cosa. Ma chi badava a me? Mia madre mi mandava a scuola ed io ci andavo volontieri: ho fatto la quarta, e dopo mia madre diceva: lo manderò al ginnasio o in seminario, ed io lavorerò anche alla notte per mantenerlo. — Ma io ero intelligente e capivo. Vuoi che lasciassi mia madre a compiere delle pazzie? E poi le donne, là allo stazzo, ridevano di lei, ed io le sentivo a dire: Marianna vuol farlo studiare perchè Andrea studia; vuol gareggiare con Bakis Zanche, la meschina! Così non andai oltre a scuola. Del resto...
Voleva ricordare che anche il povero Andrea non aveva concluso nulla; ma come al solito quando cominciavano a parlare del morto, un senso di gelo li colse e impedì loro di proseguire il discorso. Meglio parlare del prediu di Santa Maria.
— Vedrai com’è ridotto! Del resto, il vecchio poteva fare a meno di andare a smuovere le pietre laggiù! Ne aveva del terreno da coltivare, se voleva, attorno allo stazzo!
— Sì, però aveva bisogno di sfogo, — disse Vittoria pensierosa: — ha dissodato e fatto il predio in faccia al mare l’anno stesso che ha cacciato tua madre fuori di casa. Forse la rabbia lo spingeva a cercare aria come uno che soffoca. Il vecchio fattore racconta che zio Bakis andava là e si sdraiava e cantava da solo. Poi voleva condurre là una donna... ma non lo fece mai.
Alla forca il vecchio fattore! Lo caccerò via...
— Mikà! Egli racconta che zio Bakis gli diceva: tu mi hai aiutato a piantare il predio; tu morrai qui...
Arrivati al podere, Mikali le fece osservare la muriccia rovinata che permetteva l’adito a tutti, cristiani e bestie, che passassero di là; gli alberi non potati che inselvatichivano, le macchie e i rovi lasciati crescere liberamente nel frutteto: e invero pareva che la brughiera selvaggia assediasse e invadesse di nuovo la terra che le era stata tolta dagli uomini, e i cespugli e i pruni, come mani maligne, cercassero di soffocare, stringendoli ai tronchi, gli alberi giganteschi.
Il fattore non c’era. Nella solitudine del luogo Vittoria aveva l’impressione di attraversare un podere da lunghi anni abbandonato dal padrone; al passare del cavallo le susine mature cadevano come grosse perle gialle disfacendosi per terra; i grappoli delle mele di San Giovanni, coperti di lanugine, s’inaridivano tra il fogliame fitto, e sulle piante alte molti rami secchi arrugginiti rosseggiavano al tramonto.
Mikali sorrideva beffardo; passando però nella vigna che la peronospora copriva di lebbra, fece le fiche e s’agitò con tale violenza che Vittoria dovette dargli ragione per calmarlo.
Dopo che smontarono davanti alla casetta, mentre Mikali conduceva più in là il cavallo al pascolo, ed ella, seduta sulla muriccia del portico, vide ai suoi piedi tutto il podere, verde fra il giallo della brughiera fiorita di ginestre e il mare laggiù sotto il cielo colore di rosa, il mare dorato e falcato come la luna nuova, e la chiesetta di Santa Maria, rossa al tramonto e come sorgente dalle onde, la pace, la luce e il silenzio del luogo la immersero in una specie di incantesimo; le parve a un tratto come se il corpo le si disfacesse e lo spirito fosse nel mondo di là, dove vanno i giusti.
Il mare! Lo aveva tante volte sognato; lo aveva anche veduto, di lontano, ma non così come adesso, fermo e infinito. E non sapeva perchè pensava a Dio. Come poteva prendere parte all’ira di Mikali contro il vecchio fattore? Ella sapeva bene, in fondo alla sua coscienza, che nè il predio nè la casa nè le tancas e i seminati di Bakis Zanche appartenevano a lei od a Mikali. Erano roba d’altri e ad altri dovevano tornare. Perchè preoccuparsene dunque?
Ma fu un momento di allucinazione; Mikali tornò e con lui il senso della realtà.
— Sarà caduto morto in qualche burrone e le volpi gli rosicchieranno i polpacci. Magari non tornasse più: magari avesse preso la via del fumo! Dove hai messo la bisaccia, Vittoria?
— Eccola, Mikali. Ma non arrabbiarti così; lascia andare!
Egli in fondo era contento per l’assenza del fattore: ecco un’altra scusa per mandarlo via.
Rifecero il giro del frutteto; il sole tramontava rosso sopra la vigna e fra gli alberi si vedeva ancora la linea del mare. Mikali scosse il susino e Vittoria raccolse nel grembiale i frutti dorati, mordendone qualcuno, porgendone qualche altro a lui; e nel fitto dei grandi alberi sembrava Eva nell’atto di tentare Adamo.
Poi risalirono ed ella riprese posto sulla muriccia, davanti al mare che adesso si confondeva col cielo in una nebbia colore di rosa. Si sentiva contenta; guardava le sue dita brune coperte di grossi anelli con ametiste e gemme contro il malocchio, e avrebbe voluto suonare la sua fisarmonica mentre Mikali accendeva il fuoco e arrostiva allo spiedo un agnello che avevano portato con loro. Cotto a perfezione l’agnello, anche lui sedette sulla muriccia e mangiarono, un po’ scherzando, un po’ litigando, avvolti dal velo d’oro del crepuscolo e della luce del fuoco; ed egli beveva dalla sua zucca incisa e diventava allegro; dopo tutto non aveva alcuna ragione per non esserlo.
— Va, mi sembra d’essere alla festa: solo che c’è poca gente! A che pensi, Vittoria? Sta allegra. Come chiameremo il nostro primo figlio?
— Mikà, — ella disse con voce vaga, senza rispondere alla domanda, — guarda laggiù nel mare; pare ci sia della cenere da cui spunta un fuoco rosso.
— È la luna, non vedi?
— Io qui davvero avrei paura a star sola. Non passa anima viva. E quella cosa nera che si muove laggiù, che è?
— È il cavallo, donnina! Adesso vado a rimettergli le pastoje.
— Tu non ti muoverai di qui! — ella gridò stringendogli la mano. — Ti pare? Io sola non rimango...
E lo teneva così stretto che le pietre dei suoi anelli gli pungevano la mano: egli ricominciò a ridere.
— E lui voleva portarsi qui una donna: quella, sì, ci stava volentieri, così Dio mi assista!
— Che idea! — ammise anche Vittoria. Allora, come suggestionati dal luogo e dall’ora, cominciarono a parlare di lui, e Mikali ripetè le storie sentite raccontare dal fattore.
— Dopo tutto mio padre era un uomo che si prendeva tutti i gusti. Eh, lo poteva; era forte, non aveva pregiudizi; e la vita se l’è goduta, lui, mentre ha fatto ben soffrire gli altri...
— Lasciamo in pace i morti, Mikà.
— Del resto, in coscienza mia, a divertirsi ha fatto bene! Oh per questo io l’approvo: tu ti sei messa in mente che io non gli volessi bene; ma t’inganni. Ricordo, una volta, io stavo nascosto dietro un muro (non disse che con lui era Andrea) quando egli passò, a cavallo, così alto e così bello che ancora mi pare di vederlo: sembrava un gigante, ed io gli volevo bene per questo...
— Era buono, quanto bello, — disse Vittoria sottovoce, guardando i suoi anelli.
— Bene, allora nostro figlio lo chiameremo Bakis...
Ella non rispose di sì, ma neppure osò esprimere il suo desiderio di chiamare Andrea il loro primo figliuolo.
Mikali bevette ancora e nel silenzio s’udì il gorgoglio del vino che calava dalla zucca come da una sorgente. Vittoria guardava lontano; si vedeva la luna rosea descrivere già sul mare una strada fantastica che pareva unisse la terra al cielo, dalla costa all’orizzonte; e le sembrava che tutta la brughiera odorasse come un solo fiore. E non sapeva perchè aveva voglia di piangere.
— Restiamo qui fino al giorno della festa, Vittoria! — disse Mikali, accostandosi e cingendole la vita. — Come il mondo è lontano!
— No, Mikà: se vuoi, passeremo domani, nell’andarcene, nella chiesetta di Santa Maria, eccola lì, bella alla luna come una tortora, ma alla festa ci andremo all’anno venturo, passato il lutto... Bene, smetti di bere, adesso: bevi troppo.
— Lascia fare, bella! Sono così contento, stasera: chi lo sa perchè! Mi sembra come la prima volta che sono venuto da te... Sì, è un luogo che rende allegri, questo. Egli, veniva, si metteva qui in faccia al mare e cantava... Ah, e voleva portarci una donna... Vittoria, senti, bella...
Con le labbra ancora umide di vino cercò le labbra di lei, ed ella tremò lievemente, come tremavano le foglie alle carezze dell’aria e il mare al raggio della luna.