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mai si rompesse l’ultimo filo che la legava al suo diletto.

Le donne Zanche partirono. Era una sera di febbraio limpida e fredda; sull’orizzonte glauco apparivano le cime del Limbara coperte di neve, mentre più in qua Monte Nieddu, scuro sotto la luna sorgente, gettava ancora la sua ombra sulla brughiera.

Le voci delle donne e più in là i latrati dei cani e il suono dei campanacci degli armenti echeggiavano argentini come ripercossi dal cristallo del cielo.

Vittoria si sentiva felice; le pareva di ricondurre allo stazzo, con la madre di Mikali, ciò che mancava alla sua vita: la pace della coscienza.

Marianna Zanche, al contrario, procedeva barcollando e ogni tanto diceva fermandosi inquieta:

— Mi pare di aver dimenticato qualche cosa.

Per distrarla, Pietrina Zara le ricordava cose della loro lontana fanciullezza.

— Rammenti, una volta siamo venute fin quassù al torrente per cogliere more. Ci attardammo; era quasi sera e un fruscio misterioso si levò dalle macchie. Tu dicesti: forse è un’anima errante. E allora noi a correre, a correre, inseguite da qualche cosa di spaventevole. D’improvviso tu cominciasti a urlare, trattenuta come da una mano con cento unghie; ma io ebbi il coraggio di voltarmi e vidi che era un rovo, e là dietro noi saltellava un capretto smarrito.

Ma i ricordi del tempo felice non potevano