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mitare del portone: rivide il cortile, la casa, la panchina del peccato; e il profilo della tettoia dalla quale la fucilata di suo marito era scoppiata come un fulmine di Dio, le sembrò una montagna nera sotto la luna. Tutto come in quella notte di sogno e di orrore. La cucina era la stessa, con la panca, il parapetto, le stuoie, le casseruole rosse alle pareti; il gatto saltò dal forno ai piedi di Vittoria; il cane abbaiava nel cortile; Ignazia friggeva le larghe fette di lardo che s’arricciavano entro la padella stagnata, le larghe fette di lardo che piacevano tanto a Bakis Zanche. Tutto come allora.
E guidata come una cieca dalla antica compagna di fanciullezza, ella sedette accanto al focolare guardando se dall’andito veniva suo marito, grasso, bonario, così alto che per parlare con lei piccolina doveva curvarsi in modo che una piega si formava fra la sua cintura e lo stomaco.
Ed ecco le sembra di non aver più paura: se egli le ha permesso di rientrare a casa sua e sedersi accanto al focolare, deve essere bensì placato. Ma come è vuota, la casa, nonostante la presenza di tutte quelle donne! nessuno si avanza dall’andito, nessuno giunge di fuori. Ella vorrebbe domandare notizia dei servi, tanto per dire qualche cosa, ma si vergogna; suo malgrado, sebbene la respinga con terrore, la figura dell’altro sorge dietro quella di Bakis Zanche, dietro quella di Andrea, in uno sfondo di passione e di morte.
— Allegra, zia Marianna! — disse Vittoria