Le Metamorfosi/Libro Decimo

Libro Decimo

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Libro Nono Libro Undecimo

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LIBRO DECIMO

D
ato c’hanno à gli sposi ogni favore

     Giunone, e Citherea con Himeneo,
     Giunon lasciò la Dea madre d’Amore,
     E de la vista sua lieto il ciel feo.
     Ma gli altri due, tirati dal candore
     Del verso felicissimo d’Orfeo,
     Lasciar di ritornare al regno santo
     Per udir la sua Lira, e ’l suo bel canto.

Orfeo d’Apollo, e di Calliope nacque,
     Del padre de’ poeti, e d’una Musa,
     E dal favor de tai parenti giacque
     Ne la bell’alma sua tal gratia infusa.
     Talmente anchor lo sparser di quell’acque,
     Ch’uscir del sangue alato di Medusa,
     Che nel cantare i gesti de gli Heroi
     Più degno huom non fu mai prima, ne poi.

Hebbe dal padre poi quel cavo legno,
     Che ’l padre dal nipote hebbe d’Atlante.
     Dal padre apprese il tuon, la chiave, e ’l segno,
     Che fa, che con prudenza il nervo cante.
     Et ei, che si felice hebbe l’ ingegno,
     Sì ben serbò le sue parole sante,
     Che mosse à udire il suon concorde à carmi
     Gli huomini, e gli animai, le piante, e marmi.

Quel legno appoggia à la mammella manca,
     Che si felice il suon figura, e rende;
     Opra la destra assicurata, e franca,
     Che l’arco unito à nervi hor poggia, hor scende.
     Le corde l’altra man premer non manca,
     Ma con la destra, e l’arco à pien s’intende.
     Et ei, secondo à lui mostrò già il Sole,
     V’accorda à tempo i versi, e le parole.

Non fa, che ’l verso serva al canto, e al suono,
     Ma ben, ch’al verso il canto, e ’l suon risponda,
     Ne vuol, che ’l gorgheggiar soave, e buono
     L’accento, e la parola al verso asconda.
     Ne men, che d’ Helicona il santo dono
     Con suon troppo possente si confonda.
     Ma mentre ferma il canto, e che rispira,
     Fa con più alto suon sentir la Lira.

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Hor mentre egli ama in Tracia una donzella
     Del più possente amor detta Euridice,
     E co’l possente suo suono, e favella
     Fà, ch’ella al caldo amor suo non disdice:
     Con Giuno, et Himeneo Venere appella,
     Che ’l novo nodo lor rendan felice.
     Nulla può di Giunon mover la mente,
     Che mal di quelle nozze augura, e sente.

Ma la madre dolcissima d’Amore
     Non seppe contradire al dolce canto.
     V’andò seco Himeneo, ma ’l suo favore
     Non fè segno di gioia, ma di pianto.
     Venere accese in lor del par l’ardore,
     Ne so, se sposi mai s’amasser tanto.
     Ma mentre, ch’ Himeneo legar gli volse,
     Con gran difficultà la lingua sciolse.

La face accesa anchor, che in man vi tenne,
     Non potè far giamai, ch’alzasse il lume,
     Stridendo al fumo fe batter le penne,
     Come l’havesse alcun sparsa co’l fiume.
     Ma peggio augurio diè quel, ch’ ivi avenne,
     Quando la sposa entrò pria ne le piume,
     Ch’ improviso soffiò nel lume un vento,
     E restò il foco suo del tutto spento.

Ne passar molti dì, che corrispose
     Al tristo augurio il doloroso effetto.
     Andando un dì costei con altre spose
     Premendo per diporto al prato il letto,
     Sopra un serpente à caso il piede pose,
     Che stava in molti giri avolto, e stretto.
     La piagò il serpe à un tratto nel tallone,
     E fè passarla al regno di Plutone.

Poi che ’l consorte suo nel mondo aperto
     Hebbe assai pianto il suo perduto bene,
     E vide non poter trarne alcun merto,
     Poi che ’l regno infernal l’asconde, e tiene:
     Pensò d’andar nel mondo atro, e coperto
     Da le spoglie oscurissime terrene.
     E se n’andò per la Tenarea porta
     À rispirar ne l’aria oscura, e morta.

Per lo popol ne và, ch’è ignudo, e scarco
     Del suo mortale incenerito pondo,
     E dopo molti passi arriva al varco,
     Dove siede Pluton nel maggior fondo.
     Quivi accordando à versi i nervi, e l’arco,
     Disse. Ó voi Dei del più fondato mondo
     Non punite per hor l’umano orgoglio,
     Ma date luogo alquanto al mio cordoglio.

Così pij trovi voi verso il mio canto,
     Come nel verso mio non è bugia;
     Non vengo io per far guerra à Radamanto,
     Ne per veder come l’ inferno stia;
     Non per rubare à la città del pianto
     Cerbero, e darlo à l’alta patria mia:
     Ma vengo per haver la mia consorte,
     Che sopra innanzi al tempo hebbe la morte.

Cercato ho superar l’aspro dolore,
     E senza lei goder l’aperta terra;
     Ma vinto ha finalmente il troppo amore,
     E m’ha fatto per lei scender sotterra.
     Ovunque alluma il Sol co’l suo splendore,
     Contra ogni core Amor vince la guerra.
     E se i libri non son bugiardi, e rei,
     Amor legò anchor voi tartarei Dei.

Vi prego per l’ imperio, che tenete
     Sopra le trapassate, e misere ombre,
     Per queste sepolture atre, e secrete,
     Da la luce del mondo ignude, e sgombre;
     Che far le voglie mie vogliate liete,
     Che di me giusta pieta il cor v’ingombre;
     Che lasci l’amor mio l’averno lago,
     E viva il tempo à lei tolto dal drago.

Tutto si debbe à voi l’humano ingegno,
     Tardi, ò per tempo ogn’un quà giù discende.
     Tutti n’acceleriam solo ad un segno,
     Quest’è l’ultimo albergo, che n’attende.
     Voi tenete il perpetuo immobil regno,
     Che tutto il germe human riceve, e prende.
     L’alto vostro poter basso, et inferno
     Terrà di tutti noi lo scettro eterno.

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E questa sposa anchor, c’hoggi vi chieggio,
     Finiti gli anni suoi giusti, e maturi,
     Verrà à render tributo al vostro seggio,
     À star ne’ vostri regni ombrosi, e scuri.
     Con quella riverenza, e honor, che deggio,
     Con tutti i preghi, e tutti gli scongiuri,
     L’uso chieggio di lei sol per qualch’anno,
     Si ch’io possa dar requie à tanto affanno.

E se ’l fato non vuol, ch’ella ritorni
     À goder meco l’aura aperta, e viva,
     Gli ascritti à lei da la natura giorni,
     Onde il serpe, e ’l velen la rendè priva:
     Non vò, che per celest’occhi il Sol più aggiorni,
     Non vò partir da la tartarea riva.
     Se ridar non la vuol la fatal sorte,
     Godete pur di due l’alma, e la morte.

Spiega con tal pietate il suo concetto,
     E ’l suon con tal dolcezza v’accompagna,
     Ch’al crudo inferno intenerisce il petto,
     E non meno di lui se’n duole, e lagna.
     Ogni alma essangue ascolta il caldo affetto,
     E di pianto infinito il volto bagna.
     Tantalo per udire alza la fronte,
     E sprezza il faggitivo arbore, e ’l fonte.

L’eterno d’ Ission giro, e flagello
     Pon fine al suo rotare, e tace, et ode.
     Per lo canto ascoltar l’avido augello
     À l’ infelice Titio il cor non rode.
     Lasciando ogni Belide il suo crivello
     Piange del mal d’Orfeo, del canto gode.
     Sisifo ascolta affaticato, e lasso,
     Assiso sopra il suo volubil sasso.

Ogni Furia infernal non men si dolse,
     Non men sparse di pioggia i serpi, e ’l manto.
     E potè tanto il suo cantar, che tolse
     À gli occhi de l’Erinni il primo pianto.
     Proserpina piangendo il grido sciolse,
     Per impetrar mercede al dolce canto
     Da Pluto, e scorge, che ’l divin poeta
     Non meno ha il pianto in lui mosso, e la pieta.

La moglie preghi porge al suo marito,
     Che voglia compiacer al dolce accento.
     Pluton, c’ha il cor commosso, e intenerito
     Dal grato suon del metrico lamento,
     Vuol, ch’un carme sì raro, e sì gradito
     De l’ infernal favor torni contento.
     Et è la virtù sua di tanta forza,
     Che lo sdegno infernal commove, e sforza.

Chiama colei Pluton, che stava anchora
     Fra l’ombre nove, e al suo sposo la rende,
     Con legge tal, che fin, che non è fuora
     Del regno, dove il dì mai non risplende,
     Gli occhi non volga indietro in ver la nuora
     D’ Apollo, se là sù goderla intende:
     Ma che ’l fato la danna al nero fiume,
     S’ei volta per l’inferno adietro il lume.

Per uno stretto calle, alpestro, et erto
     Orfeo si drizza, e lei co’l carme invita,
     Che seco à rigoder torni quel merto,
     Che suol tanto bramar chi si marita.
     Eran quasi vicini al giorno aperto,
     Quand’ei si ricordò de la ferita,
     Che tarde à lei facea mover le piante,
     Secondo ei vide andarla à Pluto avante.

E non si ricordando, che la luce
     Voltar mai non dovea per l’aere tetro,
     Senza punto obedir l’ infernal Duce,
     Volle veder s’era restata in dietro.
     Subito à Stige il fato la conduce,
     Et ei comincia il doloroso metro;
     Volle abbracciarla cupido, e l’avinse
     Più volte, e sempre l’aere avolse, e strinse.

Nulla si duol de la seconda morte
     La donna, ch’à l’inferno la richiama.
     Ne giusto è, che si doglia d’un consorte,
     Che lei sopra ogni cosa ammira, et ama.
     Hor come vuol di lei la fatal sorte,
     Se ne ritorna al mondo, che la brama.
     Disse l’estremo Vale al centro intesa
     Si lunge, che da lui fu à pena intesa.

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Non meno si stupì del doppio fato
     Orfeo, che diè la moglie al regno basso,
     Pria quando il piè dal serpe hebbe piagato,
     Poi quando ei volse à lei lo sguardo, e ’l passo,
     Di quel, che strascinar vide legato
     Cerbero per lo mondo, e venne un sasso:
     Che ’l veder fare al Can trifauce forza
     Gli fè per lo stupor cangiar la scorza.

Stupido venne Orfeo non altramente
     Di quel, ch’Oleno già venne, e Letea,
     Quando disse il marito esser nocente
     Di quel, che fatto error la moglie havea,
     Che ’l corpo immarmorar, perder la mente
     Ne l’altera montagna humida Idea.
     Sopra d’ogni alma Dea disse esser bella,
     Per dare à se, et altrui forma novella.

Com’ei ritorna in se, drizza la fronte
     Un’altra volta à la tartarea sede,
     Ma fu ripreso al fiume di Caronte,
     Ne pose mai ne l’altra ripa il piede.
     Ei canta, e suona, e fa d’ogni occhio un fonte,
     Ne quella, che vorria, può havere mercede.
     Può ben mover co’l suon l’ inferno à pieta,
     Ma non racquistar lei, che ’l fato il vieta.

Più giorni à quelle ripe egli si tenne
     Pregando ogn’hora il passator del porto;
     Ne Cerere, ò Lieo giamai sovenne
     L’afflitte fauci sue d’alcun conforto.
     Poi ch’à l’ultimo prego egli pervenne,
     Lasciò dolente l’aere oscuro, e morto.
     E detto de l’inferno il male estremo
     Al monte Rodopeo pervenne, et Hemo.

Dal Pesce nel Monton tre volte ascese
     Per dar la primavera Apollo al mondo,
     Dal dì, che lasciò il basso aereo paese,
     E ritornossi à l’aere almo, e giocondo:
     Ne mai beltà di donna intanto il prese,
     Ne volle à l’Himeneo passar secondo.
     Arse di lui più d’una, e ’l prego sciolse,
     Ma tutte ei le scacciò, ne unir si volse.

Prima, perch’egli fu molto infelice
     Ne la prima consorte à cui s’avinse:
     Dapoi, perchè promise ad Euridice,
     Quando il nodo d’amor seco lo strinse,
     Ch’altra donna non mai faria felice
     Con la beltà, ch’Apollo in lui dipinse.
     Hebbe le spose tutte à sdegno, e noia,
     E la venerea lor dolcezza, e gioia.

Molte per le bellezze uniche, e sole,
     C’hebbe da sì bel Dio, da tanta madre,
     Desiderar da lui diletto, e prole
     De l’ istesse bellezze alme, e leggiadre.
     Molte altre da le belle alte parole
     Vinte, che già placar l’ inferne squadre,
     Per haver prole, in quel fondar la speme,
     Che sì dolce tessea le note insieme.

Ma le voglie ver tutte hebbe rubelle,
     Per quella fè, ch’à la consorte diede.
     Ch’egli altramente (perche le donzelle
     Soglion del primo ben far qualche fede)
     Una amata n’havria de le più belle,
     Per alzar l’alma à la superna sede,
     Per darsi à la bellezza eterna, et alma,
     E la prima cagion goder con l’alma.

Ma pur per mezzo loro ei non intende
     D’alzarsi à le bellezze alte, e beate.
     E, perche mentre l’huom con gli anni ascende,
     Nel più bel fior de la sua verde etate,
     Quel raggio di bellezza in lui risplende,
     Che può à la prima alzare alma beltate;
     Fece de gli occhi suoi scala, et obbietto
     De l’huomo il giovinil più vago aspetto.

E così à la moglier la fè mantenne,
     Che d’altra donna mai poi non fè stima.
     E dal bel pueril quel raggio ottenne,
     Che potea alzarlo à l’alta cagion prima.
     Onde fece dapoi batter le penne
     À la sonora sua felice rima
     In lode di quel bel, che stà raccolto
     Ne l’huom mentre ha anchor molle, e dubbio il volto.

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E fu cagion, che in Tracia il germe humano
     Prese ad amar ne l’huom l’eta più acerba.
     In cima d’un bel colle era ml bel piano
     Dipinto, e tutto pien di fiori, e d’herba;
     Ma il folto ombroso bosco era lontano
     Del faggio, e de la quercia alta, e superba:
     D’ogni pianta la terra ivi era sgombra,
     E ’l poeta divin non v’havea l’ombra.

Ma come à dolci nervi il canto accorda,
     E l’arco in sù, e ’n giù fere, e camina;
     E de la grave, e de l’acuta corda
     Sentir fa l’harmonia dolce, e divina;
     D’esser la selva stabile si scorda,
     Ogni arbor per udir l’orecchie inchina.
     Si spinge à poco à poco il bosco avante,
     E verso il dolce suon move le piante.

La Quercia spatiosa, e ’l Cerro altero,
     Co’l Rovero al bel suon drizza la fronte.
     La molle Tiglia, il Faggio, il Pruno, e ’l Pero,
     E le sorelle selve di Fetonte.
     L’arbor, che ’l fior suo virginale intero
     Salvò da lui, ch’ alluma ogni orizonte,
     Diede al bel suon l’orecchie illustri, e caste,
     Co’l frassino superbo, utile à l’haste.

Portaro anchora il Platano, e l’Abete
     Con l’Elce à quel camin l’altera fronde.
     Il Salce, che patir non può la sete,
     Ch’ama di star co’l Loto appresso à l’onde;
     L’Acero, ne le cui parti secrete
     Tanti diversi, e bei colori asconde,
     Co’l sempre verde Bosso, e co’l Mirico
     V’andaro, e dopo Mirto, il Gelso, e ’l Fico.

L’Hedera flessuosa, e ’l molle Acanto,
     La pretiosa vite, e l’Olmo, e l’Orno,
     E la Palma, il cui ramo altero, e santo
     Circonda al vincitor le tempie intorno,
     Corsero à dar l’orecchie al dolce canto
     Del gran figliuol del formator del giorno.
     Vi corse anchor co’l crin levato, et hirto
     Il Pin, che fu pur dianzi humano spirto.

Ati un fanciullo Frigio accese il petto
     À Cibele, à la madre de gli Dei.
     E poi che venne al coniugal diletto,
     Che ’l fin dolce d’amor gusto con lei:
     Gli fu da l’alma Dea più volte detto,
     Non goder mai connubij altri, che i miei,
     Se ’l mio sdegno fuggir brami, e ’l tuo danno,
     Non fare à l’amor mio furtivo inganno.

Promise il bel garzon su la sua fede
     Di non venir con altra al dolce invito:
     Ma Sangarida ninfa un giorno vede
     Un volto sì giocondo, e sì gradito;
     Dopo infinite offerte al fin gli chiede
     Quel, che bramar si suol più dal marito.
     Rompe ei la fede à la celeste madre,
     E gode le sue membra alme, e leggiadre.

Subito assal la Dea l’ ira, e lo sdegno,
     E fa, che l’implacabile Megera
     De lo Stigio furor sparge l’ ingegno
     D’Ati, e fa, che si crucia, e si dispera.
     Cerca egli furioso il Frigio regno;
     Vinto al fin da la doglia insana, e fera
     Priva co’l crudo acciar se di quel bene,
     Onde l’humana specie si mantiene.

Come s’è fatto Eunucho, il furor cresce,
     Si getta giù d’un monte, e non s’atterra,
     Che la Dea, che ’l cader vede, e gl’ incresce,
     Per sostenerlo in aere il crin gli afferra.
     In tanto di due piedi un sol tronco esce,
     Che s’allunga ogn’hor più verso la terra,
     Dove una sol radice al suol s’apprende,
     Che dritta sino à Stige si distende.

Come vede la Dea, che la radice
     Sostien ben dritto il molto alzato fusto,
     Verde, et hirsuta fà l’alta cervice,
     E lascia in terra un Pin l’amato busto,
     Il quale al canto, e al suon dolce, e felice
     Di quel, che fu ver la consorte giusto,
     Andò per ascoltar con l’altre piante,
     E vicino al bel suon fermò le piante.

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V’andò il funebre anchora alto Cipresso,
     Che in forma di obilisco ha l’alta cima,
     C’hoggi è una pianta, e fu un fanciullo anch’esso
     E cangiò il volto human non molto prima.
     Fù Ciparisso à Cea dal ciel concesso
     Si bel, quant’altri mai godè quel clima.
     E fu grato à quel Dio, che l’ombre arretra,
     Ch’opra sì bene hor l’arco, hora la cetra.

Un cervo già ne l’ isola di Cea
     D’oro il forbito alzò ramoso corno,
     Sacro à la bella Driada, à la Napea,
     À cui la detta patria era soggiorno.
     E la montana, e la silvestre Dea
     Gli havean d’un bel monile il collo adorno,
     Gli ornar l’orecchie anchor di perle, e d’oro
     Con raro, e sottilissimo lavoro.

D’un bel gemmato cor gli ornar la fronte,
     Da bei legami d’or sospeso, e stretto.
     Ne sol correa sicuro il piano, e ’l monte,
     Ma gia per la città senza sospetto.
     Solea prender da ogn’uno il cibo, e ’l fonte;
     Ogn’un potea palpargli il collo, e ’l petto.
     Al cenno di ciascun solea gir presso,
     Et ad ogni stranier creder se stesso.

Ma più di tutti gli altri era à te grato
     Leggiadro Ciparisso adorno, e bello.
     Tu ’l menavi hora al fonte, et hora al prato,
     Et hora al cibo human nel patrio ostello.
     Tu di fiori, e ghirlande il volto ornato
     Talhora al tergo suo premevi il vello:
     Tu fatto cavalier sopra il suo dorso
     Con fren di seta à lui reggevi il corso.

Nel tempo era, che ’l Sole al Cancro ardea
     Co’l più cocente ardor le curve braccia,
     E l’ombra de le cose à punto havea
     Dritto à Settentrion volta la faccia;
     E ’l cervo al fresco à l’ombra si giacea,
     E ’l bel garzon di lui seguia la traccia;
     Quando ad un alto faggio alzando il lume,
     Vi scorse un grande augel posar le piume.

L’arco allentato curva, e ’l nervo tira
     Tanto alto, che le tacche al legno afferra.
     Lo strale incocca, e poi prende la mira
     Là ’ve fra l’ali sue l’augel si serra.
     Fà poi, che ’l pugno manco al cielo aspira,
     E ’l destro tira il nervo in ver la terra.
     Vola à ferir l’ambitioso telo,
     Fugge l’augel, và il dardo irato al cielo.

Co’l moto violento la saetta
     Và tanto verso il ciel, che non si vede.
     Il moto natural poi giù l’affretta
     À quietar ne la terrena sede:
     E dove l’ombra il miser cervo alletta,
     Cade con furia à piombo, e in parte il fiede,
     Che ’l misero mortal ne geme, e langue,
     E in breve manda l’alma co’l sangue.

Tosto, che Ciparisso il dardo scorge
     Cader su’l miser cervo, aspro, e mortale,
     E de la morte subita s’accorge,
     C’ha dato al viver suo l’ iniquo strale;
     In preda al pianto misero si porge,
     Et à le strida al ciel fa batter l’ale.
     Febo il consola, e prova, ch’un vil danno
     Non merta tanto duol, ne tanto affanno.

Pur ogni suo argomento, ogni conforto,
     È scarsa medicina al duolo interno.
     Piange abbracciando spesso il corpo morto,
     Poi manda questi preghi al ciel superno.
     Poi ch’io fei co’l mio strale al cervo torto,
     Fa Re del cielo il mio lamento eterno.
     Gli cangian gli alti Dei la carnal soma,
     E fan, ch’egli alza al ciel l’horrida chioma.

Con la radice al suolo il piè s’apprende,
     E ’l busto tondo vien dritto, et acuto.
     Altissima la cima al cielo ascende,
     Co’l sempre verde crin folto, et hirsuto.
     Tosto, che ’l biondo Dio gli occhi v’intende
     Gli da piangendo l’ultimo saluto.
     Piangerai gli altri poi (dice) altrettanto,
     Essendo ogn’hor presente al duolo, e al pianto.

[p. 176v modifica]

Orfeo co’l dolce verso unico, e solo
     Fà, che ’l luogo, ove egli è, tutto s’ inselva.
     Lascia ogni arbor, che l’ode il proprio suolo,
     E fa vicino à lui crescer la selva.
     Ogni celeste augel vi ferma il volo,
     Vi corre con l’armento ogni empia belva.
     E ’l sasso, e ’l fonte, e ’l cielo, e gli elementi
     Stanno al suo dolce suon queti, et intenti.

Come in mezzo al concilio de le piante,
     De’ sassi, e de le fiere esser si mira:
     Raccordar vuol pria, che di novo cante,
     La distemprata homai querula lira.
     Stà con l’orecchia attenta, e vigilante,
     E questo nervo, e quel percuote, e tira,
     Fin che prometton far l’usata prova,
     Pur ch’egli i diti, e l’arco à tempo mova.

Con queste note poi comparte il verso,
     Che danno al luogo suo l’accento, e ’l piede.
     Rendi del tuo valor Calliope asperso
     Lo spirto, che ’l tuo chiostro almo mi diede;
     E cominciam dal Re, che l’universo
     Co’l suo favor divin tempra, e possiede.
     Ch’amò quel bel, ch’à l’huom nel volto alloggia
     Mentre à la gioventute aspira, e poggia.

Contra i giganti già l’ ira, e la guerra
     Cantai del sempiterno alto motore,
     Che ne’ campi Flegrei fur posti in terra
     Dal formidabil suo celeste ardore.
     Hor più leggier soggetto il mio cor serra,
     E con più lieve lira il vuol dar fuore.
     Vuol cantar di quel bello almo, e gioioso,
     C’ha l’huom ne’ primi dì, ch’ esser può sposo.

Bramo cantare anchor l’empie donzelle,
     C’hebber d’amore ingiusto accesa l’alma
     E de le pene varie atroci, e felle,
     Che ne sentì la lor terrena salma.
     Hor dal motor principio de le stelle
     Dò, che lasciò la patria eterna, et alma,
     Per la beltà, che in Ganimede scorse
     Mentre un giorno à la Frigia il lume porse.

La Dea, che la più bella età governa,
     Nel nappo trasparente adamantino
     Al Re, che la città regge superna,
     Solea il dolce portar celeste vino.
     Hor mentre in un convito ella è pincerna,
     E che porta il liquor santo, e divino,
     Le viene à sdrucciolare un piede, e cade,
     E quel nettar celeste empie le strade.

E, perche ella era in habito succinta,
     Ne la zona contraria in tutto al gielo,
     E di seta sottil varia, e dipinta
     S’havea coperto il bel corporeo velo;
     Da l’aura la gonnella alzata, e vinta
     Mostrò le sue vergogne à tutto il cielo.
     E de l’alme che stan nel santo regno,
     Mosse i giovani à riso, i vecchi à sdegno.

Subito l’alto Dio dispon la mente
     À far, che ’l vino à lui più non dispense,
     Ne vuol, che donna incauta, e negligente
     Mostri spettacol tale à le sue mense.
     Volge in giù gli occhi quel pensiero ardente,
     Dove fra le bellezze humane immensa
     Ne vede una atta à star fra gli alti Dei,
     E tal, che di beltà non cede à lei.

Era in Frigia un garzon bello, et adorno
     Troio si nomò il padre, ei Ganimede,
     Ch’Ida solea girar sovente intorno
     Dietro affrettando à varie belve il piede.
     Hor mentre ei dà la caccia al cervo un giorno,
     L’occhio del Re del ciel cupido il vede;
     Et havea l’eta sua vaga, et illustre
     Finito à punto il numero trilustre.

Si trovò allhor, che Giove havrebbe eletto
     D’essere in quello stante altri, che Giove,
     Per appressarsi al suo divino aspetto,
     Per rapir le bellezze uniche, e nove.
     Già trasformar fra se dispone il petto,
     Tanto la sua bellezza il pugne, e move.
     Ma spregia ogni altra forma, e sol si serra
     Nel forte augel, che i suoi folgori atterra.

[p. 177r modifica]

Subito le grand’ale in aere stese,
     E co i mentiti vanni à terra venne.
     Con gl’incurvati artigli il garzon prese,
     Poi verso il patrio ciel battè le penne,
     Come il vecchio custode, e ogn’ altro intese
     Gli occhi nel forte augel, che in aria il tenne,
     Co’l grido in vano al ciel alzò le mani,
     Et abbaiaro à l’aria indarno i cani.

Passa il rettor del ciel gli Etherei calli
     E ’l garzon Frigio entro al suo regno accoglie.
     Poi di portargli il nappo il grado dalli,
     Et à la nuora sua tal grado toglie.
     À mensa egli del vino empie i cristalli
     Non senza duol de la celeste moglie.
     Pur non biasma il marito, e per l’honore
     Non mostra il giel, che le costringe il core.

E tè figliuol leggiadro d’Amiclante
     Nel cielo havrebbe posto il padre mio,
     Se non t’havesse tolto al mondo avante
     Al tempo il tuo destin mortale, e rio.
     Ma se eterno non sei fra l’alme sante,
     Non ti ponno i mortai porre in oblio.
     Che come il pesce aquoso ha il Sol lasciato,
     Rinasci un fior purpureo, et orni il prato.

Si raro, e bel fanciullo era Hiacinto,
     Quant’altri fosse mai cantati in carmi.
     Ne più vago il pennel l’havria dipinto,
     Ne fatto lo scarpel più bello in marmi.
     Et oltre à questo havea l’animo accinto
     À gli studi pacefici, et à l’armi;
     E ne’l corpo, e ne l’alma havea ogni parte,
     Che Venere può dar, Minerva, e Marte.

Nel trarre il pal del ferro, il dardo, e ’l disco,
     Ogn’un de l’età sua seco perdea.
     Nel salto, e ne la lotta, e in ogni risco,
     Più forza, e più saper d’ogni altro havea.
     E senza dubbio alcun di dire ardisco,
     Che potea star al par (se no’l vincea)
     Di quel, che nel convito alto, e divino
     Portar suol nel diamante à Giove il vino.

Nel conversare affabile, e soave,
     Sciogliea con tal modestia la favella,
     Che cosa più gioconda, ne più grave
     Non vide mai la mia paterna stella.
     E ben segno ne fe, poi che la chiave
     Fidò de la sua luce adorna, e bella
     À l’hore, e volle, ch’elle il solar plaustro
     Fesser volar fra l’Aquilone, e l’Austro.

Sapean per lo girar perpetuo l’Hore
     D’Apollo il periglioso alto viaggio,
     E ciascuna di loro havea vigore
     Di guidar per un’hora il solar raggio.
     Il freno ad altra poi dava, e l’ardore
     Co’l nervo, onde à gli augei far suole oltraggio:
     E mentre dava l’una il censo al giorno,
     L’altre se’n gian volando al carro intorno.

Hor come il padre mio da l’alto scorge
     Un fanciullo si nobile, e si bello,
     La diurna facella à l’Hore porge,
     E scende à lui vicin per me’ vedello.
     Hiacinto de lo Dio biondo s’accorge,
     Che ’l tempo brameria passar con ello,
     E cortese ver lui si mostra, e rende,
     E fa, che ’l suo parlar giocondo intende.

Quanto più il raggio Apollo in lui tien fiso,
     Tanto gli par più bello, e più giocondo,
     Loda il divin suo spirto, ammira il viso,
     Stupisce del parlar dolce, e facondo.
     E lascia dal suo preside diviso
     Quel tempio, ch’egli ha in Delfo in mezzo al mondo.
     Tanto l’alletta il volto, e ’l bel costume
     Di quel, per cui lasciato ha ’l carro, e ’l lume.

Cerca co’l bel garzon d’Eurota il lito,
     Et ovunque s’invia, gli è sempre appresso,
     E danno intrambidui nel nobil sito
     Di Sparta à gli animai la caccia spesso.
     Del suo bel lume il mio padre invaghito
     Si scorda totalmente di se stesso.
     Porta le reti, e tiene i cani al varco,
     Et usa indegnamente il plettro, e l’arco.

[p. 177v modifica]

Quando il corpo del Sol vedeano giunto
     Dove il meridian fendea la sfera;
     Dico il meridian, ch’era in quel punto
     Nel qual co’l bel fanciul lo Dio biond’era,
     E che ’l medesmo spatio il giorno à punto
     Era lontan da l’alba, e da la sera;
     Ó notando se’n gian godendo l’onde,
     Ó godean l’aura à l’ombra de le fronde.

Poi ver la sera innanzi al tempo alquanto,
     Che suol co’l cibo à l’huom render conforto,
     Tal volta il piombo, e ’l disco alzavan tanto,
     Che faceano à le nubi oltraggio, e torto.
     Talhor con la racchetta, over co’l guanto
     Palle di cuoio battean per lor diporto
     Fin che l’hora venia, che con le cene
     Brama di ristorar l’avare vene.

Un gioco da racchetta havea Hiacinto
     Di ben pensata, e commoda grandezza.
     Da quattro muri in quadro egli era cinto,
     E tre quadri facean la sua lunghezza.
     Di dentro il muro à nero era dipinto,
     Dal basso fondo à la suprema altezza.
     Da due sol lati il suo tetto havea giusto,
     L’un largo, e corto, e l’altro lungo, e angusto.

Sendo lo Dio ne lo steccato un giorno,
     Per far co’l disco, e la racchetta il gioco,
     Febo girar fa la racchetta intorno,
     E giocan chi di lor sceglier dè il loco.
     Vince il mortale, et ei s’elegge il corno
     Del mandator, vantaggio à lui non poco.
     Poi manda falso à l’avertito Nume,
     E la palla, ove và, segue co’l lume.

Lo Dio la palla con giudicio attende,
     E se la può investir prima, che cada,
     Con l’accorta racchetta à lui la rende,
     Ma l’aversario à lei rompe la strada.
     Tanto, c’hor l’uno, hor l’altro il cuoio offende,
     E fa, ch’ogni hor sopra la corda vada.
     Fin ch’un fa il fallo, ò in modo il tondo scaccia
     Ch’à forza in terra fa segnar la caccia.

Con gran giudicio l’uno, e l’altro mira,
     Qual colpo il segno, il caso, e ’l loco chiede.
     E l’occhio esperto, ch’al vantaggio aspira,
     Obediente fa la mano, e ’l piede.
     Hor fà, che cresce innanzi, hor si ritira
     Con leggiadria, dove il bisogno vede.
     E l’uno, e l’altro v’è si bene instrutto,
     Che par, che non si mova, et è per tutto.

Fermato c’han due segni, cangian lato,
     E secondo che stan presso, ò lontano,
     Così batton co’l fil duro, e intrecciato
     La travagliata palla hor forte, hor piano.
     Quel, c’ha disavantaggio, è più accurato
     Nel dar la botta sua con dolce mano,
     Ma quel, c’ha ne la caccia alcun vantaggio,
     Fa con maggior superbia al disco oltraggio.

Havean giocato tanto, che vicino
     Era d’ogn’uno, ò ’l perdere, ò la palma:
     Et era il pegno tal, che l’huom divino
     Più tosto eletto havria di perder l’alma:
     Et era giunto il dì, che ’l fier destino
     Dovea disanimar la carnal salma
     Del miser figlio, il qual facea gran stima
     D’haver la spoglia in quel duello opima.

L’ultimo gioco hor và ne la partita,
     Chi ’l vincerà, n’avrà l’honore, e ’l pegno:
     E già se perde il giovane è finita,
     Un sol per lui non vantaggioso segno.
     Tanto ch’ogn’un di lor cauto s’aita,
     Adopra il piè, la man, l’occhio, e l’ingegno.
     Lo Dio se vien la palla, in furia dalle;
     L’altro pian pian, perchè lontan s’avalle.

Hor, mentre l’uno, e l’altro studia, e vede,
     Che l’aversario il voto non adempia;
     Apollo con furor la palla fiede,
     E fa sdegnarla, e gir superba, et empia.
     Mentre il garzon vi và, gli manca un piede,
     E nel cader, ferir sente la tempia
     Dal disco empio, e crudel, che correa in fretta
     À far del suo gran stratio la vendetta.

[p. 178r modifica]

Come l’acceso Dio cader lo scorge,
     Impallidito il volto almo, e giocondo;
     Vien smorto anch’egli, aiuto in van gli porge,
     Ch’ei non si può più dir di questo mondo.
     D’alzarlo ei cerca pur, ma indarno sorge,
     Che ’l collo regger più non può il suo pondo,
     Anzi mentre egli l’alza, e ’l tien sospeso,
     Inchina il volto, ove il trasporta il peso.

Come s’alcun nel passeggiar per l’horto
     Al papavero à caso il fusto offende,
     Viene in breve il suo fior pallido, e smorto,
     E ver la pianta sua s’inchina, e pende:
     Così il garzon ferito, e mezzo morto
     Al gran dolor, che ’l domina, s’arrende.
     Il qual su’l più bel fior morendo langue,
     Dipinto il suo color di morte, e sangue.

Vorria pur aiutarlo ei, che l’offese,
     E pone in opra in van lo studio, e l’herba,
     Perche la piaga immedicabil rese
     La palla, che ferì, troppo superba.
     Pur con ogni opra pia grato, e cortese
     Tutto il tempo, che puote, in vita il serba.
     E poi che l’arte sua più non vi puote,
     Sfoga l’interno duol con queste note.

Tu muori, ò mio dolcissimo Hiacinto,
     E questo doloroso pugno è stato,
     Che t’ha su’l fior de’ più begli anni estinto,
     E de l’età prescritta à l’huom fraudato.
     Io miro il volto tuo di sangue tinto,
     E piango la tua morte, e ’l mio peccato.
     Nel sangue, che ’l bel volto irriga, e verga,
     Il mio dolore, e ’l mio delitto alberga.

Convien, ch’al pugno mio crudel si scriva
     La tua infelice accelerata morte:
     La destra mia la tua bell’alma ha priva
     Del corpo, che s’havea fatto consorte.
     La colpa è mia: quel mal da me deriva,
     Ch’à dolci lumi tuoi chius’ hà le porte.
     Se colpa si può dir d’un fido core,
     Che gioca per ischerzo, e per amore.

Potessi almen cangiar la sorte teco,
     E de la vita mia render te donno.
     Ó almen potessi anch’ io per sempre cieco
     Farmi, e restar nel sempiterno sonno.
     Hor poi, che i fati l’immortal, ch’è meco,
     Con tutto il lor poter tor non mi ponno;
     Meco sempre sarai, ne la mia lingua
     Mai non verrà, che ’l tuo nome s’estingua.

Quando la lira mia sarà tentata
     Da l’impeciato crin, che sta sù l’arco,
     La tua doppia beltà sarà lodata
     Da’ versi di colui, che ti fe incarco.
     Ne mai la lingua mia ti sarà ingrata,
     Ne sarà il verso mio ristretto, e parco,
     Ma con le canne liberali, e pronte,
     Darà il miglior liquor, c’habbia il suo fonte.

E s’io co’l suon de l’arbore, e co’l canto
     Spiegherò le tue lodi, e la mia doglia;
     Tu fatto un fiore il mio seguirai pianto
     Con quel, che scritto fia ne la tua foglia.
     Quel tempo verrà anchor, che ’l carnal manto
     Perdendo prenderà la stessa spoglia
     Quel forte Aiace, e ’l fior mostrerà scritto
     Il suo nome, il tuo pianto, e ’l mio delitto.

Mentre con queste note aperte, e vere
     Apollo il suo dolor sfoga, e rimembra,
     S’allargan le pareti oscure, e nere,
     E fan, che ’l gioco un gran giardin rassembra.
     Fanno à le mura l’edere spalliere,
     Già su l’herba ha il garzon l’estinte membra.
     Le travi, e i travicelli insieme uniti
     Si forman olmi, e pergolati, e viti.

La rete, ch’à traverso era sospesa,
     Sopra la qual dovea passar la palla,
     Simile à quella vien, che ’l ragno ha tesa,
     Per prendervi la mosca, ò la farfalla.
     La terra, c’havea rossa il sangue resa,
     Che reggea sopra lei la morta spalla,
     Ingravida del sangue il proprio chiostro,
     Poi parturisce un fior di minio, e d’ostro.

[p. 178v modifica]

Il corpo, e lo splendor del suo bel viso
     Tutto entra in quel bel fior simile al giglio,
     Ma resta in questo sol da lui diviso,
     Ch’egli è candido fior, questo è vermiglio.
     Prima, che torni Apollo al paradiso,
     China verso il bel fior la mano, e ’l ciglio,
     E ne le foglie sue purpuree, e vive
     Il dolor di Hiacinto, e ’l suo discrive.

Scrisse, hia, nel fior de la novella pianta,
     Nota, ch’è lagrimevole, e funesta.
     Non se’n vergogna Sparta, anzi se’n vanta,
     Ch’ogni anno la sua solenne festa.
     La quale il nome suo con pompa canta,
     E ’l nome di Hiacinthia anchor le resta,
     Dove nel rinovar la sua memoria
     Del fanciullo, e del fior si vanta, e gloria.

De lo splendor, ch’à l’huom nel volto alberga,
     Quando à sentir comincia il primo amore,
     Che fa, che l’alma, e l’ intelletto s’erga
     À la prima cagion d’ogni splendore,
     Nacque sovente una leggiadra verga,
     Che partorì qualche mirabil fiore;
     E gloriar del bel fanciul fè il loco
     Materno, e ne fa fè Hiacinto, e Croco.

Ma quando voi chiedeste altere piante,
     Che chinate al mio dir l’avida fronda,
     Come di Cipro l’ isola si vante
     D’haver là, dove di metallo abonda,
     Produtte quelle, che spregiar le sante
     Leggi de la lor Dea bella gioconda,
     Propetide nomate da parenti,
     À voi risponderia con questi accenti.

lo non mi glorio già, qual lo Spartano
     Fa de la nova pianta unica, e bella,
     D’haver vestito del sembiante humano
     La schiera, che Propetida s’appella.
     E se amate, ch’io faccia aperto, e piano
     Con più distesa, et utile favella,
     Come di lor mi glorij, e mi compiaccia,
     Queste vere parole udir vi piaccia.

Io mi soglio lodar, non altramente
     D’haver vestito il volto humano à loro,
     Di quel, ch’io fò de la Cerasta gente,
     C’havea cornuto il capo, come il toro.
     E sì perversa, et empia hebbe la mente,
     Che nel sacrare al Re del sommo choro,
     Spargean sopra l’altar santo, e divino
     Il sangue del non cauto peregrino.

Ogn’un, c’havesse visto il sangue sparso
     Sopra l’altar dinanzi al loro hostello,
     Creduto havria, che quivi ucciso, et arso
     Havessero monton, capro, ò vitello.
     Che d’ogni peregrin quivi comparso
     Facean sopra l’altar strage, e macello.
     E fer tanto sdegnar la Cipria Dea,
     Ch’abbandonar la sua patria volea.

Ma poi mossa à pietà del suo bel nido
     Disse, che colpa n’ ha la patria terra?
     Se questo iniquo stuol cornuto, e infido
     L’alma del peregrin manda sotterra;
     Meglio è dar bando lor da questo lido,
     Ó mandar sopra lor l’ultima guerra,
     Ó dar loro altra pena, e sia di sorte,
     Che in mezzo stia del bando, e de la morte.

E qual pena esser può quella, che chiede
     Il loro error, se non quella si acerba;
     Che fà, che l’huom à peggior forma cede,
     Se ben non gli dà bando, e ’n vita il serba?
     Mentre pensa qual dar, la fronte vede
     Di due curvate corna empia, e superba;
     E dice, è ben, ch’anchor cornuta reste.
     E fà, ch’ognun d’un bue prende la veste.

Si che de le Propetide quel vanto,
     Che di costor mi diedi, io dar mi posso,
     Che ’l celeste favor disprezzar tanto,
     Che se ben vider quei con altro dosso,
     Negar quella esser Dea del regno santo,
     Che cangiò loro il pel, la carne, e l’osso.
     Ma ben l’inique, incredule, et oscene
     N’hebber da lei le meritate pene.

[p. 179r modifica]

Sdegnata l’alma Dea le fe si stolte,
     Che de la lor beltà superbe, e vane,
     Tratte le vesti intorno al corpo avolte,
     Prima ignude mostrar le membra humane:
     Poi rendè lor la mente, e in se raccolte
     Restar per lo stupor di novo insane.
     E poi che lo stupor vide si intenso,
     Le fe stupidi sassi, e fuor del senso.

Hor questo havrebbe l’ isola risposto
     À voi, cui volgo il mio fedele aviso;
     Volendo dir, che ’l bel, che stà riposto
     Nel volto di Hiacinto, e di Narciso,
     Novo fiore, et honor nel mondo ha posto;
     Ma quel bel, che le donne hanno nel viso,
     Ha seco tanto male, e tanto inganno,
     Che non apporta al mondo altro, che danno.

È forse poco mal, se l’huom dispone
     À viver l’età sua senza consorte ?
     Ne cadder molti in questa opinione,
     Vedendo una impudentia di tal sorte.
     Fra quali il primo fu Pigmalione,
     Che sofferta piuttosto havria la morte,
     Che prender moglie, quando senza veste
     Le vide andare infami, e dishoneste.

Scultor Pigmalione era eccellente,
     Se bene in Cipro havea la regia sede.
     Hor come vide quell’atto impudente,
     Non potè ne le donne haver più fede.
     E scacciato Himeneo da la sua mente,
     À la sua gran virtù si volse, e diede.
     E fe statue sì degne, e con tant’arte,
     Che fè stupire il mondo in ogni parte.

Gran gloria è di quel Re, ch’oltre al governo
     Ha di qualche virtù l’animo acceso.
     Non dico già, c’habbia il suo officio à scherno,
     E che ponga in oblio lo scettro, e ’l peso;
     Ma nel ritrarsi al suo luogo più interno,
     Data audienza, e ’l suo consiglio inteso,
     Da giusto fa, s’à l’otio non intende,
     Ma in essercitio degno il tempo spende.

Nel tempio de la moglie di Vulcano
     Posta una statua fu pochi anni avante,
     Da dotta fatta, e risoluta mano
     Di dente in un composto d’Elefante.
     Il cui raro artificio, e più c’humano
     Mostrava d’una vergine il sembiante,
     E potè tanto in lei l’humana cura,
     Che fu da l’arte vinta la natura.

Stupir vedendo il gran Ciprio scultore
     Ciascun, ch’ ivi venia d’ogni altro regno,
     De la rara beltà, de lo splendore
     Di quel bel simulacro illustre, e degno,
     Ad un’altera impresa accinse il core,
     E di voler passar pensò quel segno.
     Per far la fama sua volar più chiara,
     Ei far pensò una vergine più rara.

E volendo avanzar quella immortale
     Opra, che tutto ’l mondo unica appella,
     Vi pose tanto studio, e la fè tale,
     Che non si vide mai cosa più bella.
     Ne solamente potea dirsi eguale
     À l’altra sì mirabile donzella;
     Ma fatto il paragon, stupir fe ogni alma,
     E da tutti la nova hebbe la palma.

Quando il contento Re lodar la scorge
     Dal giudicio d’ogni huom più saggio, e intero,
     E del grido del popolo s’accorge,
     Che non adula al Re, ma dice il vero;
     L’occhio poi fiso à contemplarla porge,
     E loda, e ammira il suo bel magistero,
     Poi la fa por nel suo proprio ricetto,
     Per farla à gli occhi suoi più spesso obbietto.

Non può gli occhi levar di quella imago,
     Che vergine si degna rappresenta,
     E de la sua beltà talmente è vago,
     Che vi tien tutto ’l dì la luce intenta.
     Loda l’aspetto suo leggiadro, e vago,
     Che par, c’habbia lo spirto, e, che senta;
     E ch’ami alzare il volto, ò ’l ciglio almeno,
     Ma ’l virginal timor la tenga in freno.

[p. 179v modifica]

Dentro vi stà talmente ascosa l’arte,
     Che l’ha per viva ogni occhio, che la mira.
     Et ei le và cercando à parte à parte,
     E men che trova l’arte, più l’ammira.
     Conosce tanto bella ogni sua parte,
     Che già n’arde d’amore, e ne sospira,
     E mentre a l’alme vive il suo cor nega,
     Morta, e finta bellezza il suo cor lega.

Mentre viva gli par, tende la mano,
     E vuol co’l dito esperienza farne,
     E come habbia à sentir, tocca pian piano,
     Ché non le vuol far livida la carne.
     E se ben non gli par poi corpo humano,
     Non però vuol certo giudicio darne.
     La bacia, le favella, e poi si duole,
     Che non può trar da lei baci, e parole.

Le fa mille carezze, e le da lode,
     Stà però sol, ne vuole esser veduto;
     E di palparla, e di adornarla gode,
     Sol v’entra, s’ei gli accenna, un fido muto.
     Un muto, che non parla, e, che non ode,
     Ma ben servente accorto, et aveduto.
     E quando il Re gli accenna, che stia cheto,
     Non palesa co’l cenno il suo secreto.

Le porta di quei don vaghi, e gentili,
     Che sogliono esser grati à le donzelle,
     Piccioli augelli, e fiori, ambre, e monili,
     E conche, e pietre pretiose, e belle.
     Di gemme i diti schietti orna, e sottili,
     E le cangia ogni dì gonne novelle.
     Di perla oriental l’orna l’orecchia,
     E poi nel volto suo s’affisa, e specchia.

Miratola poi ben fiso, et intento,
     E datole ogni lode alta, e gioiosa,
     Fere l’orecchie sue con questo accento.
     Se ben pensai di viver senza sposa,
     Quando piacesse al ciel farmi contento
     D’una donna si bella, e gratiosa,
     Qual’è l’eburnea tua bellezza, e spoglia,
     Cangierei per tuo amor pensiero, e voglia.

Che quando già fermai ne la mia mente
     Di non voler compagna entro al mio letto,
     Fu per quell’atto osceno, et impudente,
     Ch’io vidi far nel mio regal cospetto.
     Ma l’alma vista tua casta, e prudente
     Promette honor, bontà, pace, e diletto.
     Promette il volto tuo grato, e giocondo
     Quanto di gioia, e ben può dare il mondo.

Ma tu del letto mio sarai consorte,
     S’io di tanta beltà però son degno.
     Te vò compagna far de la mia sorte,
     Non sol del letto mio, ma del mio regno.
     Tosto, che splender fa l’eterna corte
     Ne l’alto cielo ogni stellato segno,
     Spoglia la sposa, e ne le ricche piume
     La pon, qual fosse viva, e spegne il lume.

Così nel letto suo locolla, e tenne
     Da questo tempo in poi passato il giorno,
     Fin che quel dì sempre honorato venne,
     Ch’unir fa il regno Ciprio d’ogn’ intorno,
     Con pompa à venerar ricca, e solenne
     Nel tempio santo alteramente adorno
     La Dea, ch’in Cipro tien la propria sede,
     In cui l’isola tutta ha maggior fede.

La scure fra le corna ornate d’oro
     Lasciato havea cader l’aspra percossa,
     E in varij luoghi ucciso il bianco toro,
     Il sangue fatto havea la terra rossa.
     E su gli altari sacri al santo choro
     Il foco alta la fiamma havea già mossa,
     Et in honor de’ sempiterni Dei
     Facea salir al ciel gli odor Sabei.

Quando Pigmalion devoto, e fido,
     Che con gran pompa era venuto al tempio,
     Ver la Dea mosse il taciturno grido;
     Habbi pietà del mio tropp’aspro scempio,
     E d’una sposa il mio letto fa nido,
     Che da l’avorio mio prenda l’essempio,
     (Non osò dir, la statua eburnea aviva)
     Si ch’io la goda poi consorte, e viva.

[p. 180r modifica]

La Dea, che lieta à le sue feste apparse,
     Spiegato ch’al suo voto egli hebbe il velo,
     Fè, che tre volte in aere una fiamma arse,
     Et inalzar l’acuta punta al cielo,
     Per dare augurio à lui, che non fien scarse
     Le man veneree al suo pietoso zelo.
     Torna ei del buono augurio à casa lieto
     Per goder l’amor suo chiuso, e secreto.

Se bene è anchor di giorno, entra nel letto,
     E spera, et ha l’amato avorio à canto.
     Bacia l’amata bocca, e tocca il petto,
     E gliela par sentir tepida alquanto.
     Prova di novo, e con maggior diletto
     Men duro, e più carnal le sente il manto:
     E mentre bene anchor creder no’l puote,
     Sente, che ’l petto il polso alza, e percuote.

Come se preme alcun la cera dura,
     L’ammolla con le dita, e la riscalda,
     E per poter donarle ogni figura,
     Viene ogn’hor più trattabile, e men salda:
     Cosi premendola ei, cangia natura
     La statua, e vien più morbida, e più calda.
     Ei sta pur stupefatto, e tenta, e prova,
     Tanto, che viva al fin la scorge, e trova.

Move allhor lieto il Re l’alte parole,
     Ringratia la sua Dea con santa mente:
     E mentre viva anchor baciar la vuole,
     La vergine vien rossa, e no’l consente.
     Alza ella il lume al lume, e scorge il Sole,
     E la stanza apparata, e risplendente.
     E co’l dì, che mai più non vide avante,
     Vede nel letto star l’acceso amante.

Il Re la sposa, e poi seco soggiorna,
     E v’è con Himeneo la Cipria Dea.
     Nove volte rifè Delia le corna,
     Dal dì solenne, e pio di Citherea,
     Quand’ella mandò fuor bella, et adorna
     La prole, che nel sen matura havea.
     Pafo il figliuol nomar, ch’al giorno venne,
     Da cui tal nome poi l’isola ottenne.

Di Pafo nacque Cinira; e beato
     Potuto si saria nomare al mondo,
     Se fosse senza prole in terra stato,
     Fin’ al passar del suo viver secondo.
     Ó desir empio, ò fato scelerato,
     Ó mal del regno uscito atro, e profondo.
     Da me padri, e fanciulli, ite lontano,
     E fuggite il mio canto empio, e profano.

E se le vostre orecchie attente alletta
     Quel canto, ch’hor quest’aere sveglia, e fiede,
     Gustate l’harmonia, che vi diletta,
     Ma non prestate à lei punto di fede.
     Se pur credete il mal, l’aspra vendetta
     Crediate anchor del radicato piede.
     Benche duro mi par, che ’l Tracio clima
     Creda quel, c’hor per dire è la mia rima.

Ó quanto il nostro regno io lodo, e beo,
     E m’allegro con lui, poi ch’è discosto
     Da quel, che generò spirto si reo,
     E da quel, dove fu in un tronco posto.
     Il regno felicissimo Sabeo
     Sia pur ricco d’amomo, incenso, e costo.
     Ho poca invidia al suo stato felice,
     Poi che pianta si ria fa radice.

Di Cinira già Mirra nacque, e crebbe;
     E de le donne amabili, e leggiadre
     Di quell’età la palma à lei si debbe;
     Ma il dirò pur, l’amor l’arse del padre.
     E bramò haver di lui la prole, e l’hebbe,
     E fu del suo figliuol sorella, e madre.
     Ó scelerata putta, e qual facella
     Accese entro al tuo cor fiamma si fella?

Scusa il figliuol di Venere i suoi strali
     Da si nefando, e furioso affetto;
     E nega, che fra gli huomini mortali
     Facesse il fuoco suo mai tale effetto.
     Dunque lasciar le parti atre infernali
     Tesifone, Megera, overo Aletto;
     E con la face iniqua de l’inferno
     T’accese di tal foco il core interno.

[p. 180v modifica]

Quel, che porta odio al padre, un grand’errore
     Commette, e appresso ognun di biasmo è degno:
     Ma s’una n’arde di lascivo amore,
     Infame merta ogni castigo, e sdegno.
     Di tanti Re propinqui hai preso il core,
     Che t’aman sposa haver nel lor bel regno;
     Non vò levar de gli huomini nessuno,
     Eleggi quel, che vuoi, sol ne lascia uno.

Se ben l’accesa figlia aperto approva,
     Ch’è troppo osceno, e rio l’ardor, che sente;
     Non però può, se ben si sforza, e prova,
     De l’ingiusto desio sgravar la mente.
     Lassa (dicea) che fiamma iniqua, e nova
     M’accende de l’amor del mio parente?
     Perche l’amor non lascio infame, e fello,
     E non amo un più giovane, e più bello?

Ma qual sarà più bel, se ’l padre mio
     Mi par sopra ogn’altr’huom più bello, e adorno?
     Deh sommi Dei, si indegno affetto, e rio
     Da me scacciate, e tanta infamia, e scorno.
     Deh paterna pietà, spegni il desio,
     Ch’enorme, e non fedel fa in me soggiorno.
     S’enorme è quel desio, che ’l padre brama
     Veder maggior d’ogni huom, perchè più l’ama.

E se ben bramo haverne quel contento,
     Che si suol trar da l’amoroso invito;
     Che vi sia dentro error già non consento
     Dapoi, che ’l natural seguo appetito.
     E bene è natural, se ne l’armento
     La figlia al padre suo si fa marito.
     Si gode il genitor la sua vitella,
     Come la vede andar matura, e bella.

La figlia del montone, e del cavallo
     Si sente havere il sen grave del seme,
     Del quale ella già nacque: e ’l veltro, e ’l gallo
     À le proprie figliuole il dosso preme.
     Se ne gli altri animai non s’hà per fallo,
     Se ’l naturale amor gli lega insieme;
     Ond’è, ch’è error ne l’huom, che meglio intende,
     S’al natural desio cede, e s’arrende ?

Felice ogni animal, cui vien permesso
     D’sar la natural lor propria legge,
     Poi che ’l nemico popol di se stesso
     Con maligni decreti no’l corregge.
     Quel, che da la natura vien concesso
     À gli augelli, à gli armenti, et à le gregge,
     Di torsi à modo lor marito, e moglie,
     Da l’odiose leggi à l’huom si toglie.

Si legge pur, che son nel mondo genti,
     Le quai del matrimonio non han cura.
     Si congiungon le figlie co’ parenti ,
     E non fan torto al don de la natura.
     Quanto son più di noi saggi, e prudenti
     À non si por da lor legge si dura,
     Che fa il connubio lor, ch’à noi si vieta,
     Per raddoppiato amor crescer la pieta.

Misera mè, perchè non venni al mondo
     In quella parte, ove non è contesa
     La copula à la vergine, secondo
     Le persuade à far la voglia accesa.
     Hor s’io non vengo al fin dolce, e giocondo,
     Dal loco, e da la sorte io sono offesa.
     Ó folle, quale è il fin, che speri, e brami,
     Scaccia pur via da te le voglie infami.

D’essere amato è veramente degno,
     Ma come padre, e d’amor santo, e pio.
     E s’ei non fosse al mio mortal sostegno
     Padre, potrei dar luogo al mio desio.
     Hor poi, ch’egli il mortal diemmi, e l’ingegno,
     Per esser mio, far più no’l posso mio.
     Di lui (s’ei d’altrui fosse) havrei ben copia,
     Ma l’abondanza in me genera inopia.

Meglio è lontano andar da questo lido,
     Per fuggir tanto obbrobrioso errore;
     Ma l’ illecito dardo di Cupido
     Arresta in questa patria il dubbio core.
     Che se tutte le gratie in lui fan nido,
     Vuol, ch’ogni dì contempli il suo splendore,
     Ch’io parli, tocchi, e baci il caro amante,
     Poi che non mi stà ben sperar più avante.

[p. 181r modifica]

Come sperar più avante, empia donzella?
     Che desiderio è il tuo? non pensi, come
     S’adempi la tua mente ingiusta, e fella ?
     Confonderai co’l parentato il nome?
     Vuoi tu de la tua figlia esser sorella?
     Vuoi, che germana il tuo figliuol ti nome?
     Pellice ti vuoi far de la tua madre?
     E innamorata adultera del padre?

Non vuoi temer le Dee crinite, e truci
     De’ serpi, che lasciato han già l’inferno.
     E con le faci, e con le crude luci
     Veggon l’indegno tuo furore interno.
     Gli essempi santi altrui prendi per duci,
     Mentre anchor senza errore è il corpo esterno.
     E non volere il natural desio
     Macchiar con un contento ingiusto, e rio.

Horsu poniam, che tu vogli macchiarlo,
     E far l’error; la cosa in se te’l vieta.
     Ch’egli, che sà il dover, vorrà servarlo,
     Rispetto havendo à la paterna pieta.
     Ó s’io potessi à miei voti placarlo,
     Qual sarebbe di me donna più lieta?
     Non havrei da portare invidia altrui,
     Se ’l medesmo furor prendesse lui.

Cinira intanto ricco di partiti
     Chiama la figlia, e mostrale una lista,
     Là dove scritti havea molti mariti,
     C’havean la sua beltà lodata, e vista.
     Le dice, che si giunga, e si mariti,
     E che contenti l’animo, e la vista.
     Tace ella, et alza gli occhi al padre intanto,
     Indi ardendo gl’inchina, e piove il pianto.

Che l’habbia, il padre suo fido si crede,
     Il timor virginale il pianto sciolto.
     L’asciuga il viso, e con paterna fede
     D’un dolce bacio le contenta il volto.
     Poi di quel, ch’ameria, marito chiede.
     Dice ella, un n’amerei, che in se raccolto
     Havesse in tutti i merti, e pregi suoi
     L’alto regio splendor, c’havete voi.

Cinira allhor de la risposta accorta
     Loda la figlia, e nel suo cor ne gode.
     Con queste note pie dapoi l’essorta.
     Se brami haver nel mondo eterna lode,
     Tal riverentia sempre al padre porta,
     E lascia, ch’à lo sposo egli t’annode;
     C’havendo l’occhio à tua santa honestade
     Sposo non ti darà, che non t’aggrade.

Quando sente parlar l’empia donzella
     Della santa honestate, abbassa gli occhi,
     Sapendo la sua mente infame, e fella,
     E gli empi ardori suoi nefandi, e sciocchi.
     Il padre, ch’abbassar la luce bella
     Vede, tien, che vergogna il cor le tocchi:
     Et infinita gioia entro al cor piglia,
     D’haver si santa, e si lodata figlia.

Le stelle prima apparse in oriente
     Eran di già salite à mezzo il cielo,
     E ’l sonno possedea l’humana mente
     Havendo à tutti gli occhi opposto il velo.
     Vegghiava sol la vergine imprudente
     Desta dal duol del furioso zelo;
     Che brama, e teme, e di tentare agogna,
     Ne sa trovar, che far per la vergogna.

Qual se la quercia annosa altera, e grossa
     Ferita il piè da gl’inimici ferri,
     Prima, che senta l’ultima percossa,
     Stà in dubbio da qual parte i rami atterri;
     Temon la grave sua ruina, e possa
     Quei, c’ha d’intorno à lei propinqui cerri;
     Al fin da quella parte, ond’ha piu pondo,
     Lascia cader l’altera cima al fondo:

Tale il ferito cor de la fanciulla
     Hor spiega ver la tema, hor ver la speme,
     Et hora il rio pensiero, hor l’altro annulla,
     E questo, e quel la sua ruina teme.
     Conchiude al fin, che ogni altra strada è nulla
     Per salvar se da le sue pene estreme,
     Se non la morte, e su l’ultima clade
     Al fine il dubbio cor ruina, e cade.

[p. 181v modifica]

Disposta di morir prende la cinta,
     Indi il misero collo intorno allaccia,
     E sopra un seggio da la furia spinta
     Monta, e verso d’un legno alza le braccia.
     Hor mentre render vuol la trave avinta,
     La propinqua nutrice il sonno scaccia,
     Ch’ode Cinira, Vale, ahi cruda sorte
     Intendi hor la cagion de la mia morte.

Dorme vicino à lei la balia accorta,
     Tal, ch’udendo il romor dal letto sorge:
     Ma poi che l’infelice apre la porta,
     E quel, che brama far la figlia, scorge;
     Vien la guancia senil più trista, e smorta;
     Pur saggia à tempo à lei soccorso porge.
     Manda la fascia in mille pezzi, e poi
     Si batte, e graffia, e chier, che mal l’annoi.

Come ha la mesta figlia al laccio tolta,
     Si straccia, e fere, e duol; ma grida piano,
     E cerca qual dolor la fè sì stolta,
     Che dovesse tor l’alma al corpo humano.
     Si stà muta la vergine, et ascolta,
     E guarda in terra, e duolsi de la mano,
     Che tolse il laccio al circondato collo,
     E non le lasciò dar l’ultimo crollo.

Stà la vecchia ostinata, e la fanciulla:
     L’una non vuol parlar, l’altra la prega
     Per i primi alimenti, e per la culla,
     Che palesi il suo duol; ma non la piega.
     Le dice; Figlia, ogni sospetto annulla,
     Et à chi ti diè il latte, il fatto spiega.
     Volge ella il lume altrove, e non la guarda,
     E la risposta à lei nega, e ritarda.

Soggiunge la nutrice, il duol confida,
     Che ti fa in sì vil pregio haver la vita,
     Che non sol ti sarà secreta, e fida,
     Ma ti darò consiglio, e certa aita.
     Ne puoi trovar la più sicura guida
     Di quella madre pia, che t’ha nutrita;
     Non sento l’età mia però sì lenta,
     Che non ti possa anchor render contenta.

Se furioso ardor l’alma ti piaga,
     Si curerà con l’herba, e con l’incanto.
     S’alcun t’affligge il cor con arte maga,
     Io ti torrò con l’arte istessa il pianto.
     Se del ciel l’ira è di vendetta vaga,
     Placherò il ciel co’l sacrificio santo;
     Sia qual si voglia il morbo, io non rifiuto
     Di darti fido aviso, e certo aiuto.

Salvo il regno veggiam, salvo l’honore
     Da la malvagia sorte, e da nemici;
     Tua madre ha sano il corpo, e lieto il core,
     Tuo padre por si può fra i più felici.
     Come il nome di padre ella dà fuore,
     Rimembra à Mirra i suoi pianti infelici;
     E come piace al troppo ardente affetto,
     Manda un sospir dal più profondo petto.

Sospition la vecchia anchor non prende
     Del grande error, che in lei cagiona il male;
     Ma ben dal caldo suo sospiro intende,
     Ch’offeso ha il cor da l’amoroso strale.
     E da prudente l’animo l’accende
     À confessare il colpo aspro, e mortale:
     E poi che il volto suo nel sen raccoglie,
     Secca il pianto co’l vel, ma non gliel toglie.

Da poi le torna à dir; Figlia io conosco,
     Che t’ha piagato il cor l’aurato dardo,
     E che l’ardor de l’amoroso tosco
     Volle per sempre il Sol torre al tuo sguardo,
     Quand’ io tolsi la cinta al collo, e al bosco:
     Hor poi che ’l braccio mio non giunse tardo,
     Se l’ardor mi palesi, il qual ti preme,
     Farò, ch’anchor godrai l’amata speme.

Io porrò l’amor tuo ne le tue braccia,
     Se mi dirai, qual fiamma il cor t’accenda:
     Però nomarmi il giovane ti piaccia,
     E lascia dopo, ch’ io cura ne prenda.
     Ch’à tuo piacer farò, che teco giaccia,
     Senza, che ’l padre tuo nulla n’intenda.
     Viene al nome del padre ella vermiglia,
     E dal grembo senil la fuga piglia.

[p. 182r modifica]

Si fugge (à fin, che ’l suo rossor s’asconda)
     Dal lungo prego, e dal senil cospetto
     Verso le piume; e ’l pianto, che l’abonda,
     Co’l viso volto in giù versa su’l letto.
     La vecchia la molesta, che risponda,
     Et ella dice; Ó torna al tuo ricetto,
     Ó non cercar, perch’io la morte brame,
     Perchè quel, che tu cerchi è vitio infame.

Trema al capo senil la chioma bianca
     Tosto, che sente infami esser gli affanni,
     E l’una, e l’altra man debile, e stanca
     Tende, che per l’horror trema, e per gli anni;
     Chiede aiuto à le stelle, e poi non manca
     Di ripregar, che spiani i propri danni,
     E che non tenga più la cosa oscura,
     Ma d’ogni cosa à lei lasci la cura.

Hor la prega, hor minaccia, accio che vinta
     Da l’un de due palesi il dubbio core.
     E dice, che dira di quella cinta,
     Con cui si volea tor l’aspro dolore;
     Com’ella gliela vide al collo avinta,
     E che ciò fu per dishonesto ardore:
     Ma che si sforzerà (se ’l ver le dice)
     Di farla à suo poter lieta, e felice.

Leva ella il capo, e mentre à dir si sforza,
     Di pianto bagna à la nutrice il seno.
     Tre volte per parlare usa ogni forza,
     E le vien il parlar tre volte meno.
     Ma poi, che un poco il gran timore ammorza,
     S’asconde gli occhi, e rompe al dire il freno.
     Ben ha la madre mia felice sorte,
     Che gode si pregiato, e bel consorte,

Come à fatica à questo punto venne,
     Con un sospiro ardente accrebbe il pianto:
     Poi nel volto à la balia il volto tenne,
     E del suo lagrimar le sparse il manto.
     Senza ch’ à la nutrice altro s’ accenne,
     Da le parole sue conosce, quanto
     Profanamente il suo desio post’ have,
     E trema, e ’l bianco pel s’ arriccia, e pave.

E per torle dal cor l’ infame affetto,
     Le fè veder l’ error del suo pensiero.
     Pur tor no’l posso (disse ella) dal petto,
     Se bene il tuo parlar conosco vero.
     Ó ch’ io seco godrò felice il letto,
     Ó darò l’ alma al regno afflitto, e nero.
     Quando la vide disperata in tutto,
     Così tor le cercò la vecchia il lutto.

Non vò, che la beltà si tosto muoia,
     Ch’ io scorgo ne le tue membra leggiadre;
     Vivi pur, tu godrai, (non ti dar noia)
     L’ amor del tuo (ma non osò dir padre)
     E seco gusterai la stessa gioia,
     Che nel generar te gustò tua madre.
     Et acquistò, per sostenerla in piede,
     La vecchia à se co’l giuramento fede.

Era venuto il venerato giorno,
     Nel qual solean le madri unirsi insieme
     Nel santo de la Dea fertil soggiorno,
     Ch’ al mondo apporta il più pregiato seme.
     Dove à l’ altar più de l’ usato adorno
     Per ben fondar la necessaria speme,
     Dovean liete portar candide panno
     Le spighe, ch’ allegrar fer prima l’ anno.

Dovea l’ illustre Dio, ch’ al lume è scorta,
     Mostrarsi nove volte in oriente,
     E dovea lasciar l’ aria oscura, e morta
     Notti altrettante ascoso in occidente
     Pria che la pompa, che le spighe porta,
     Finisse de la Dea santa, e clemente.
     E in tanto il letto, e l’ amoroso invito
     Fuggir dovean del cupido marito.

Fra l’ altre madri, che l’ officio santo
     Seguian de l’ alma Dea devota, e fida,
     Gia la moglie del Re co’l più bel manto,
     Come di tutte lor regina, e guida.
     E ’l genitor de la fanciulla intanto
     Dentro à le piume vedovo s’annida,
     E porge occasione à la nutrice
     Di render del suo amor Mirra felice.

[p. 182v modifica]

Dice una sera al Re caldo dal vino,
     Per quel, ch’ella conobbe à la favella;
     Che la felicità del suo domino
     Vuol porgli in braccio una gentil donzella:
     E certo sia, ch’ in tutto il suo domino
     Non fu veduta mai cosa più bella;
     E che brama goder seco le piume,
     Ma non si vuol lasciar vedere al lume.

Che ’l nobil sangue, e ’l timor de parenti,
     E la vergogna virginal la tiene.
     Ma che non guardi à questo, e la contenti,
     Ne privi il letto suo di tanto bene;
     Che vedrà anchora i bei lumi lucenti,
     Come sicura sia de la sua spene;
     C’habbia in principio il fin d’amore in prezzo,
     E serbi à contentar gli occhi da sezzo.

Poi per meglio disporlo, afferma, come
     Ella è de le più nobili del regno.
     Loda i begli occhi, il volto, e l’auree chiome,
     I costumi, l’andar, l’arte, e l’ingegno.
     Dice di tutto il ver, sol mente il nome.
     Cerca saper il Re fin’ à qual segno
     L’età giunge, e l’altezza; ella l’assembra
     Del tutto à Mirra à gli anni, et à le membra.

In mente al Re l’età tenera torna,
     Quando nel suo fiorir n’arse più d’una,
     E gode haver la vista anchor sì adorna,
     Che sopra ogni altra sia grata à qualch’una.
     Hor poi, che la consorte non soggiorna
     Seco, vuole abbracciar questa fortuna,
     E dice à lei, che la fanciulla guidi
     Tosto, che ’l sonno ogn’un nel letto annidi.

Parla la cauta vecchia al Re, che dica,
     Ch’à tutte l’hore à lei s’apran le porte;
     Che vuol poter condur la nova amica
     Quando le torna ben fuor de la corte.
     Pensò con gran ragion la donna antica,
     Che se vederla il Re volea per sorte,
     Non era se non ben poter fuggire
     Fuor del letto real da le prim’ ire.

La vecchia in uno error crudele, e pia
     Trova con lieto cor la mesta figlia,
     E dice; Havrà il tuo cor quel, che desia,
     Se questa notte al mio parer s’appiglia.
     La fraude scopre à lei pietosa, e ria,
     E rallegrare il cor falle, e le ciglia;
     Ma non però del tutto ha lieto il petto,
     Dal grave error turbato, e dal sospetto.

Del cerchio il quarto havea fatto Boote
     Da l’hora, che fè scuro l’orizonte;
     E de la notte le stellate ruote
     Già possedean la sommità del monte;
     Lo Dio, che da travagli ne riscuote,
     À gli animai fea riposar la fronte,
     E stando l’alme lor mute et oppresse,
     Le stelle risplendean solo à se stesse:

Quando l’ infame vergine si spinse
     Verso la sceleraggine proposta.
     Fuggì la Luna splendida, et estinse
     La luce con la mano al volto opposta.
     Tanto nefando, e novo error costrinse
     À fuggirsi ogni stella, e star nascosta.
     Pose ogni segno al suo splendore il velo,
     E fè del foco suo mancare il cielo.

Ma prima tu copristi Icaro il viso
     Con Erigone tua, che in ciel riluce,
     Per la pietà, ch’ella hebbe al padre ucciso,
     Ne ardiste à tanto error volger la luce.
     Tre volte inciampò il piede, e dielle aviso
     Di non seguir l’ardor, che la conduce;
     E tre diè il gufo augurio con lo strido,
     Che dovesse tornarsi al proprio nido.

Ma faccian pur gli augurij quel, che sanno,
     Non lascia di seguir l’infame scorta;
     Che la notte, e le tenebre la fanno
     Men vergognosa andar verso la porta,
     Tien la sinistra la nutrice, e vanno
     Tentando il lor camin per l’aria morta.
     À l’uscio son di già, ch’entro l’accoglie
     Per far del padre suo la figlia moglie.

[p. 183r modifica]

Tosto, ch’appresso al letto esser si sente,
     Trova, che ne l’andar le trema il piede;
     Fugge il colore acceso, e ’l sangue ardente
     S’incentra dove il cor dubbioso siede.
     E tanto più del mal si duole, e pente,
     Quanto à l’error più presso esser si vede;
     Già brama differirlo à un’altra volta,
     E dar non conosciuta à dietro volta.

Hor mentre (augurio al suo stato infelice)
     La timida donzella il piè ritarda,
     La tira per lo braccio la nutrice
     À far l’error più strenua, e più gagliarda.
     La porge al letto scelerato, e dice
     Senz’esser ne l’amor punto bugiarda;
     Ecco colei, che brama il tuo diletto,
     Co’l maggior, che si può, carnale affetto.

Lieto nel letto osceno il padre prende
     La figlia propria sua per piacer trarne,
     E ’l timor, e ’l tremor, che ’l cor l’offende,
     Le placa, e già l’amor vuol, che s’ incarne.
     E gode, mentre al suo diletto intende,
     La carne sua con la sua propria carne;
     E del seme medesmo, onde già nacque,
     Haver l’ingordo sen grave à lei piacque.

E, perche in tali abbracciamenti aviene,
     Che con sommo piacer l’un l’altro nome
     Diletta anima mia, dolce mio bene,
     Havendo ei grigie, e bionde ella le chiome:
     Perche quel dolce, e scelerato bene
     Si nominasse co’l suo proprio nome,
     Mentre ei godè le sue membra leggiadre
     Forse ei chiamò lei figlia, ella lui padre.

Gravida al fin l’ incestuosa figlia
     Si parte, e l’error suo porta nel seno.
     Come il sonno à mortai chiude le ciglia,
     E pon ne l’altra notte à sensi il freno,
     Per raddoppiar l’eccesso il camin piglia,
     E di novo oscurar fa il ciel sereno.
     Vien poi co’l padre à l’amoroso Marte,
     E co’l secondo error da lui si parte.

Non le basta il secondo, e vi và tante
     Volte, ch’al Re di Cipro in pensier cade,
     Di voler posseder la dolce amante
     Con gli occhi per goder la sua beltade.
     Tosto, ch’à lui rivien la figlia errante,
     E c’ha goduto la sua verde etade,
     Si leva, et apre un studio, ove sospesa
     Lunga una corda havea lasciata accesa.

La figlia, che levare il padre sente,
     E per aprir un’uscio oprar la chiave,
     Si getta intorno il panno immantinente,
     Che di quel, che seguì, sospetta, e pave.
     Và pian pian ver lo studio, e vi pon mente,
     E vede, che la corda in man pres’ave,
     E che per far risplender l’aria nera
     Cerca, che faccia il solfo arder la cera.

Tosto prende il camin verso la porta,
     E ’l ferro sprigionar vuol per aprire,
     Ma intanto il lume acceso il padre porta.
     Et ella à tempo non si può coprire.
     Tosto fa rimaner la fiamma morta
     Co’l vento Mirra, e poi dassi à fuggire.
     Ma non restò l’ardor morto dal fiato,
     Ch’ei vide la sua figlia, e ’l suo peccato.

Poi ch’à la lingua il duol di parlar vieta,
     S’accinge il padre irato à la vendetta.
     Discaccia in tutto la paterna pieta,
     E ver la spada ardente il piede affretta.
     Intanto per la notte atra, e secreta
     Fugge l’afflitta figlia, e non l’aspetta.
     Và con la balia à l’uscio de la corte,
     E fa co’l contrasegno aprir le porte.

Sfodra Cinira il ferro, ma non vede
     Per l’aere brun come ferir la figlia.
     Fa ver l’accesa corda andare il piede
     E la cera di novo, e ’l solfo piglia.
     Co’l lume acceso un’altra volta riede
     Dove lasciolla, e nel girar le ciglia
     La porta de la stanza aperta scorge,
     E de la ratta sua fuga s’accorge.

[p. 183v modifica]

Si gitta in furia sopra il dosso un manto,
     E corre per la corte irato, e fello,
     Che ritrovar la crede in qualche canto,
     Pria che la porta s’apra del castello.
     Ma con la balia à travestirsi intanto
     S’era fuggita in un secreto hostello.
     Quindi poi giro al porto, e sopra un legno
     Montar, ch’allhor ne gia nel Tirio regno.

Con un Favonio in poppa il buon naviglio
     Solca l’ondoso mar verso levante,
     Portando seco al volontario essiglio
     La dolorosa, e scelerata amante.
     Com’è smontata su l’arena, il ciglio
     Ver l’Arabico sen volge, e le piante;
     Ne passar molti dì, che la nutrice
     Al regno trapassò scuro, e infelice.

Per la felice Arabia il camin prese
     Mirra per l’aspra sua fuggir fortuna;
     Ma la felicità di quel paese
     Non potè rallegrarla in parte alcuna.
     E già dal dì, che ’l padre in braccio prese,
     Cominciava à veder la nona Luna;
     E ne l’andar sentia venirsi meno,
     Per lo peso, c’havea l’infame seno.

Le fè veder la nona Luna il corno
     Ne la terra odorifera Sabea,
     Et essendo sparito in tutto il giorno,
     L’opre diurne ogn’un lasciate havea;
     Quand’ella al regno pio di stelle adorno
     Alzò la luce addolorata, e rea;
     E di lagrime sparse ambe le gote,
     Si fece udir dal ciel con queste note.

Lumi del ciel, se s’ha qualche pietate
     À chi l’error confessa, e se ne pente,
     Vi prego per la vostra alma bontate,
     Che vi fa star nel regno alto, e lucente;
     Poi ch’io l’error non nego, e voi mirate,
     Quanto seco se’n duol l’amara mente;
     Perch’io non noccia altrui, fate, che scorta
     Fra genti io mai non sia viva, ne morta.

Non ricuso il supplicio, ma sia tale,
     Ch’à me vergogna, e altrui non porti danno.
     Può far, s’io vivo, ogni alma intesa al male
     Lo stesso co’l mio essempio al padre inganno.
     Vergogna havrò nel regno atro, e mortale
     De l’altre ombre men rie, che quivi stanno.
     Deh nascondete il mio nefando torto,
     Per sempre al mondo vivo, e al mondo morto.

Mutatemi il supplicio, ch’io ne merto,
     Toglietemi à la vita, et à la morte.
     Perch’io non porga essempio al mondo aperto
     Altrui di fare error di si ria sorte.
     E, perchè dentro à l’ infernal deserto
     Non m’habbia à vergognar de l’ombre morte,
     Private l’alme del mio infame aspetto
     Vive, ò morte, che sian, c’han l’ intelletto.

À chi l’error confessa, e se ne duole,
     E chiede gratia al sempiterno regno,
     Esser benigno il Re superno suole,
     E di quel, che desta, suol farlo degno.
     À pena ha dette l’ultime parole,
     Che si sente le piante haver di legno.
     Ogni fessa unghia obliqua al suol s’afferra,
     E in forma di radice entra sotterra.

Si forman le due gambe un tronco duro,
     Da l’ osso la durezza il legno toglie.
     Son le medolle anchor quel, che già furo,
     E quelle entro al suo centro il tronco accoglie.
     Si fa succo odorato il sangue oscuro,
     Che nutre il legno, e le spinose spoglie.
     Le braccia il fusto in gran rami trasforma,
     E di piccioli arbusti i diti informa.

S’indura fuor la delicata pelle,
     Perche ogni parte à l’arbore risponda.
     Il grave seno, e l’altre membra belle
     Una scorza odorifera circonda.
     Già chiuse havea le gravide mammelle,
     Et aspirava à l’aurea chioma bionda,
     Ma pronta al suo desire ella rispose,
     E tirando giù il capo ivi s’ascose.

[p. 184r modifica]

Se bene il volto human da lei disparse,
     Lagrima anchora, e versa in gocce il pianto.
     L’odor, che quella età grato in lei sparse,
     Nel succo trapassò del novo manto.
     Vi passò anchor la ria lussuria, ond’arse,
     E ne’ venerei assalti oprar può tanto,
     Che s’ogni poco alcun ne tempra, e prende,
     Ad ogni infame amor parato il rende.

L’arbore, e ’l pianto anchor riserba il nome,
     Che prima havea la scelerata amante.
     Mentre, ch’ella cangiò l’humane chiome
     Dormian d’ intorno à lei tutte le piante;
     E si maravigliar ne l’alba, come
     Si vider nato il novo arbore avante;
     E render gratie à sempiterni Dei,
     Ch’arricchì di tal don gli odor Sabei.

Il mal concetto infante intanto havea
     Molto ingrossato al novo arbore il seno,
     E già maturo in ogni membro ardea
     D’uscir dal cieco chiostro al ciel sereno.
     Ne però ritrovar la via sapea,
     Che la scorza il tenea per tutto in freno.
     Ogni arbore stupia, che v’era inteso,
     Ch’un tronco tanto havesse il ventre teso.

Mancavan le parole al duolo estremo,
     E ’l parto uscir volea troppo importuno,
     Ne potea mandar preghi al ciel supremo,
     Ne chiamare in favor Lucina, e Giuno.
     Il sen far non dimen bramava scemo,
     E tor l’ infante al chiostro ascoso, e bruno.
     E ben gemer s’udia con spessi crolli,
     Di pianto havendo i rami afflitti, e molli.

Da se la pia Lucina al tronco venne,
     Ch’al gran sen de la pianta intese il lume,
     E disse ogni parola, che convenne,
     Per far, ch’uscisse il novo figlio al lume.
     L’arbor la gratia desiata ottenne,
     Poi che ’l favor de l’opportuno Nume
     Fece tanto à la scorza aprire il velo,
     Che vivo fè veder l’ infante al cielo.

Ben maggior lo stupore ogni arbore have,
     Vedendo un tronco partorire un figlio,
     Che si credean, che ’l sen tirato, e grave
     Dovesse mandar fuor più d’un vinciglio.
     Come spuntar de la materna trave
     Si vede, e quasi fuor d’ogni periglio,
     Mentre la Dea l’accoglie, e stringe al petto,
     D’herbe, e di fior le fan le Ninfe un letto.

Con le materne gocce il figlio s’unse,
     Poi diero il latte à suo primo vagito.
     Di giorno in giorno in lui beltà s’aggiunse,
     Ogni anno più crescea bello, et ardito.
     Ma quando à quella età leggiadra giunse,
     Ch’invoglia quasi altrui d’esser marito;
     Havea tanto splendor nel volto impresso,
     Che ’l giudicava ogn’un Cupido istesso.

Togli à Cupido la faretra, e l’ale;
     Ó l’ale, e l’arco anchor dona à costui:
     E posti al paragon, dimanda, quale
     Sia quel, ch’arder d’amor suol fare altrui.
     Vedendo ogn’un la lor bellezza eguale
     Dirà; Gli Dei d’Amore hoggi son dui.
     Si vaga in somma hebbe la vista, e lieta,
     Che star l’Invidia fè stupita, e cheta,

Ne la bellezza poi se stesso vinse,
     Che crescer si scorgea di punto in punto.
     Hor mentre al quarto lustro egli si spinse,
     E fu fra ’l terzo, e ’l quarto al mezzo giunto:
     Di tal vaghezza il bel viso dipinse,
     Ch’ogni occhio, che’l mirò, d’amor fu punto.
     D’ogni donzella il cor fè desioso
     D’haverlo per amante, ò per isposo.

La Ninfa, che nutrillo, il rendè accorto,
     Com’ei dal Re di Cipro era disceso:
     Ma de la madre ria tacendo il torto,
     Disse, ch’ella nel sen portò il suo peso.
     Poi confortollo à gire al Ciprio porto,
     Pria che l’amor Sabeo l’havesse acceso.
     Adon (cosi il nomar) lodò il disegno,
     Et andò per passare al Ciprio regno.

[p. 184v modifica]

Pur dianzi il Re di Cipro era passato
     Da questa vita al suo viver secondo,
     Dico quel Re, che de la figlia dato
     Havea si pretioso parto al mondo:
     E stava in gran romor tutto il Senato
     Nel trovar degno alcun del regal pondo.
     Ne stupor fia, s’era in discordia ogn’uno,
     Che del sangue real non v’era alcuno.

Hor come Adone al Senato s’offerse,
     Come figliuol di Cinira al governo,
     Ogn’un nel volto suo chiaro scoperse
     Il sangue regio, e ’l bello aer paterno.
     Ragioni opposte à lui furon diverse,
     E molti il nominar di sangue esterno.
     Quei, ch’esser volean Re, gridar, ma in vano,
     Ch’ in pochi dì lo scettro egli hebbe in mano.

La discordia de gli altri, e ’l veder certo
     L’illustre sangue regio nel suo volto;
     Lo scorgerlo si bello, e di tal merto,
     Onde s’oprar per lui le donne molto;
     Fer (se bene egli era figliuolo incerto
     Del Re pur dianzi à lor dal fato tolto)
     Che salutato Re fu dal consiglio,
     Et accettato come regio figlio.

Si sapea ben per Cipro il folle incesto,
     Che già commesso Mirra havea co’l padre.
     Che in quel furor il Re fè manifesto
     Lo inganno, ch’ella usò per farsi madre.
     Tal che s’appone il regno al ver, ch’à questo
     Re dato novo à le Ciprigne squadre,
     Secondo approva la sua vista bella,
     Sia padre l’avo, e madre la sorella.

È ver, ch’ogn’un di creder si fingea,
     Che del sangue regal ei fosse uscito,
     D’alcuna Ninfa nobile Sabea,
     E non d’amore infame, e prohibito.
     Tutte le donne in Cipro prese havea;
     Altra il bramava amante, altra marito:
     Al fin accese anchor la Dea del loco,
     E vendicò de la sua madre il foco.

Havendo un giorno sopra un picciol colle
     La Dea Ciprigna in braccio il suo Cupido,
     Mentre che scherza, e ’l bacia, e in alto il tolle,
     Un de gli aurati strali esce del nido,
     E ’l bel sen fere delicato, e molle,
     Ond’egli hebbe già il latte amato, e fido.
     Hor mentre, ch’ad amar la Dea s’accende,
     Nel Re, che quindi passa, i lumi intende.

Era venuto in quelle parti à caccia
     Quel Re, ch’à Marte poi si fè rivale:
     E coraggioso allhor seguia la traccia
     D’un alto, crudo, e intrepido Cinghiale.
     À punto ella in quel tempo il vide in faccia,
     Che ’l petto le ferì l’aurato strale.
     Fere il Cinghiale intanto Adon co’l dardo,
     Poi la Dea vede, e lei fere co’l guardo.

Come conosce à lo splendor del viso
     Adon, ch’ella è la Dea de la lor terra;
     Lascia, che sia da gli altri il verre ucciso,
     Et à piè de la Dea fido s’atterra.
     Tosto, ch’ella da gli altri esser diviso
     Lo scorge, seco in una nube il serra.
     Poi levar fallo, e scopre il cor secreto,
     E fallo co’l dir suo stupito, e lieto.

Dovrei saper quel ben, ch’al mondo apporta
     L’Amor, ch’unisce altrui, s’io son sua madre.
     Sì che s’al generare ei solo è scorta,
     D’ogni cosa creata Amore è padre.
     Hor se mentre ad amare Amore essorta,
     Fà nascer tante cose alme, e leggiadre:
     Ogn’un, ch’al voto suo non è secondo,
     In quel, che à lui s’avien, distrugge il mondo.

Amore altro non è, ch’un bel desio
     D’effigie, che l’amante approva bella,
     Che vede lei de lo splendor di Dio
     Un raggio haver ne l’una, e l’altra stella:
     E per goder quel ben, pon se in oblio,
     E fa di tal beltà l’anima ancella.
     E se risponde à lui l’obbietto amato,
     L’un gode, e l’altro un ben santo, e beato.

[p. 185r modifica]

Ne sol godon due spiriti quel bene,
     Che da l’Amor reciproco deriva;
     Ma il mondo gode il frutto, che ne viene,
     Ch’altra simil beltà forma, et aviva.
     Dunque ami ogn’un lo Dio, che le mantiene,
     Che serba ogni beltà perpetuo viva.
     Poi che mentre in due cor regna una cura,
     Giovan con lor diletto à la natura.

Ma il ben, nel quale il mondo non ha parte,
     E che no’l può goder più d’una coppia,
     È ch’ogni core il suo valor comparte,
     Et ogn’un de’ lor due l’anima ha doppia.
     Che mentre l’alma mia da me si parte,
     L’anima tua dentro al tuo core addoppia,
     E ne moro io, ma tu ch’amarmi intendi,
     Dandomi l’alma tua, la mia mi rendi.

Che dapoi, che ’l mio cor l’alma ti diede,
     E c’hor ne l’alma tua del tutto è impressa,
     Se brami del mio Amore haver mercede,
     E vuoi dare al mio cor l’alma tua stessa:
     Dapoi che lo cor tuo due ne possiede,
     Mi rendi l’alma mia già unita in essa.
     Ne però resti tu de l’alma privo,
     Ch’ io con la mia la tua rendo, e t’avivo.

Ó veramente aventurata morte,
     Onde l’amante ottien doppia la vita.
     L’una quando l’amata apre le porte
     À l’alma, ch’à l’amante have rapita;
     Che vive fuor di se, con miglior sorte,
     Dapoi ch’ à l’alma desiata è unita:
     Poi da l’amata un’altra vita prende,
     Quando per l’alma sua due glie ne rende.

Ó gran lode d’Amor, poi che si giova,
     Ch’altrui raddoppia la virtù de l’alma:
     La qual mentre in due cor se stessa trova,
     Viene à regger di due la carnal salma.
     Quindi d’unire i corpi Amore approva,
     E dansi à l’altra gioia unica, et alma,
     E mentre ogn’un si gode il suo thesoro,
     Ornan con lor dolcezza il mondo, e loro.

Si che dolce Amor mio, poi che quel raggio,
     Che del superno lume in te riluce,
     L’alma ha tirata à se dal mio coraggio,
     Et in me morta, in te cerca la luce:
     Per gire al tuo cor pio fa, che ’l passaggio
     Non sia negato à lei da la tua luce,
     Che se sarà dal cor dolce raccolta,
     Io risusciterò la prima volta.

E non ti paia in questo acquistar poco,
     Se tu raddoppi à l’anima la forza.
     Poi per mostrarti grato à quel gran foco
     Di vero Amor, ch’ ad amar te mi sforza;
     Fa, che l’anima tua cangi il suo loco,
     E venga à regger la carnal mia scorza.
     Ch’ io con tranquillo stato almo, e giocondo,
     Il viver mio da te trarrò secondo.

Cosi vivremo un’anima in due petti,
     E premerà due cori una sol cura.
     Varrà ciascun di noi per due subbietti,
     E sarà doppio in semplice figura.
     Quindi verremo à gli ultimi diletti,
     Che fan ricco il thesor de la natura.
     E l’amoroso corporal duello
     Farà con piacer nostro il mondo bello.

E ben dei dare il cambio à l’amor mio,
     Se nel tuo core il mio spirto s’annida.
     Che se no’l fai, ti mostri innanzi à Dio
     Sacrileco, ladrone, et homicida.
     Che ben fa sacrilegio infame, e rio
     Chi l’alma offende sacra, eterna, e fida.
     Ben vero ladro, e micidial diviene,
     Chi toglie l’alma al corpo, à l’alma il bene.

Chi nega al prego altrui di farsi amante,
     Il mondo in quanto à se distrugge, e sface.
     Ma già non mostra il tuo gentil sembiante,
     D’esser ribello à l’amorosa pace:
     Ch’al lampeggiar de le tue luci sante
     M’accorgo, che la mia beltà ti piace.
     E preso sei da l’amoroso ardore
     De la Dea de le gratie, e de l’Amore.

[p. 185v modifica]

Conosco, al lume pio, ch’ incontri meco,
     Ch’un’anima mi dai, l’altra mi rendi;
     Tal, ch’io dentro al tuo cor mi trovo teco,
     E tu dentro al mio sen vivi, et intendi.
     Deh poi, ch’ogn’un di noi due spirti ha seco,
     Poi che l’anima tua non mi contendi,
     Uniam quel corpo, ch’è diviso in dui,
     E con nostro piacer gioviamo altrui.

Nel fin di questo dir l’abbraccia, e stringe,
     E ’l nettar sugge à le vermiglie rose.
     Poi su’l vario color, che ’l suol dipinge,
     Gli dice, e mostra, che s’assida, e pose.
     Ei di doppio rossor la guancia tinge,
     E con timide note, e vergognose
     Mostrando riverentia, e vero affetto
     Scoprì dolce, et humil l’acceso petto.

Ben conosco io, che l’amoroso fine
     Con somma gioia il mondo informa, e veste:
     Ma noi dobbiam con le ginocchie chine
     Venerare una Dea santa, e celeste.
     Ne degno è d’abbracciar l’alme divine
     Un, che possiede la terrena veste.
     Pur se ben d’obedirvi ardo, e pavento,
     Vò compiacendo à voi far me contento.

Vorrei potervi offrir l’havere, e ’l regno;
     Ma come il posso far, se ’l regno è vostro?
     Io ministro di voi ne sono indegno,
     E sol d’honorar voi gl’ insegno, e mostro.
     Voi del mio fido cor scegliete il pegno,
     Prendete il lume interno, e ’l carnal chiostro.
     À me di me nulla riserbo, à voi
     Dono quest’alma, e tutti i pregi suoi.

Su l’herba egli, e la Dea s’asside, e stende,
     Per darsi ad ogni ben, che più amor prezza:
     E quel diletto l’un de l’altro prende,
     Che vuol la loro età, la lor bellezza.
     Di grado in grado il lor piacere ascende,
     Fin che possiedon l’ultima dolcezza.
     Tornan più volte à l’amoroso Marte,
     E l’un da l’altro al fin lieto si parte.

L’innamorata madre di Cupido,
     Abbraccia l’amor suo la notte, e ’l giorno.
     Come può haverlo in solitario nido,
     L’invita à l’amoroso almo soggiorno.
     Abbandona Citera, e Pafo, e Gnido,
     Per darsi in braccio al Re bello, et adorno.
     Per la beltà d’un bel corporeo velo,
     Pone in oblio le patrie, e i tempij, e ’l cielo.

À tutti gli altri cacciator s’asconde,
     Si mostra solo à lui lasciva, e bella.
     Al vago manto, et à le chiome bionde
     Cerca dare ogni dì foggia novella.
     Dapoi và seco à l’ombra de le fronde,
     Mentre è più calda la diurna stella:
     E ’l bacia mille volte, e ’l mira, e l’ode,
     E con piacer di lui se’l sugge, e gode.

Poi di seguirlo in caccia si compiace,
     Ne l’habito succinto di Diana,
     Cacciando l’animal molle, e fugace,
     Ma non la belva spaventosa, e strana.
     L’orso, e ’l leone, et ogni fiera audace
     Fa co’l poter divin star ne la tana:
     Gli fa slongar da luoghi, ov’essi vanno,
     Perch’al suo bello Adon non faccian danno.

Si dovea far nel regno eterno, e pio
     In honor di quel Dio, che tutto move,
     Un superbo trionfo; et ogni Dio
     Trovar doveasi adorno innanzi à Giove:
     Se bene il ciel la Dea post’ ha in oblio,
     Forz’è, ch’à questa festa si ritrove.
     Hor pria che torni al regno alto, e felice,
     Co’l l’ultimo dì gli parla, e dice.

Poi che d’andare al regno de le stelle
     La trionfal del ciel pompa mi sforza,
     Per salvar le tue membra amate, e belle
     Da la ferina, e ria superbia, e forza,
     Di non cacciar le fere horrende, e felle,
     Che nocer ponno à la corporea scorza,
     Ti prego, t’ammonisco, e ti consiglio,
     Ne vogli esser altier con tuo periglio.

[p. 186r modifica]

Persegui i caprij, e le fugaci dame,
     Mostrati ne le lepri ardito, e forte:
     Ma fuggi i denti, e la rabbiosa fame
     Del lupo, e l’unghie orsine acute, e torte.
     Deh dolce anima mia serva lo stame
     De la tua vita à più matura morte.
     L’ardir contra l’ardir non è sicuro,
     Ma spesso priva altrui del ben futuro.

La verde età, l’aspetto almo, e giocondo,
     Che suol mover per se l’humana gente,
     Non move il ferin lume, et iracondo,
     Ne la malvagia lor natura, e mente.
     Sprezza il leone ogni animal del mondo,
     Il folgore il cinghial porta nel dente.
     Contra alcuno animal desir non t’arme,
     Che de l’unghia, e del dente oprar può l’arme.

Ma più d’ogni animal da me si fugge,
     E tu, se saggio sei, fuggirlo dei,
     Quel, che più crudo altrui fa danno, e rugge,
     Che già sprezzò la madre de gli Dei.
     Non sol, perche gli armenti empio distrugge,
     Ma per i vitij suoi nefandi, e rei.
     E prima, che d’ambrosia il ciel mi pasca,
     Ti vò contar quest’odio donde nasca.

Sediamo à l’ombra qui di guesto faggio,
     Ch’ond’è, ch’odio il Leon, ti vò scoprire.
     S’asside Adon, che ’l non inteso oltraggio,
     Ch’à Cibele si fè, brama d’udire.
     Pongli ella il capo in seno, et alza il raggio
     Al suo bel volto, e poi comincia à dire.
     E d’ interposti baci, mentre dice,
     L’avida bocca sua rende felice.

Sentito hai forse dir d’una Atalanta,
     C’hebbe nel corso si veloce il piede,
     Che d’huom non ritrovò si presta pianta,
     Che non perdesse il corso, e la mercede.
     À quel dotto huom, che questa istoria canta,
     Si dè prestare, Adon, sicura fede.
     Ch’ io v’era, e dubbia son nel mio discorso,
     Se più ne la beltà valse, ò nel corso.

Costei volle saper da Temi un giorno,
     Se bene era per lei prender marito.
     Guarda (disse la Dea) che n’havrai scorno;
     Fuggi pur sempre il coniugale invito.
     Ne’l fuggirai, ch’un d’ogni gratia adorno
     Te n’ han gli eterni fati stabilito.
     Ma per far seco un torto ad una Diva,
     Mancherai di te stessa essendo viva.

Caccia ella sbigottita da la sorte,
     Hor la fugace, hor la feroce belva.
     E per vivere ogn’hor senza consorte
     La città lascia, et habita la selva.
     Ma de la sua bellezza ogni huom di sorte
     Arde, che per mirar segue, e s’ inselva.
     E questi, e quei da l’amorose voglie
     Spronati ogni opra fan per farla moglie.

Per torsi da le spalle un tanto peso
     Al fin con guesti accenti aprì le labbia.
     Sposo non prenderò, che pria conteso
     Nel corso meco, e vintomi non habbia.
     Ma s’alcun perderà, vò, che sia preso,
     E renda l’alma à la tartarea rabbia.
     Sua sposa mi farà, s’havrà la palma,
     Ma se perderà me, perd’ anche l’alma.

Se ben mostrò d’ogni pietà rubella
     La superba Atalanta haver la mente,
     Potè la forma oltre ogni creder bella
     Più de la legge sua poco clemente.
     E se ben superò leggiadra, e snella
     Più d’un disposto giovane, e possente,
     E fegli dare à l’ultimo riposo,
     À correr sempre havea con novo sposo.

Chi primo comparia, prima era scritto,
     E venia prima à la dannosa prova.
     Tal, ch’ ogni giorno al regno atro, et afflitto
     Sforzata era à mandar qualche alma nova.
     Hor mentre havere anchora il piede invitto
     Non senza sua superbia si ritrova;
     Hippomene compar leggiadro, e bello
     Per veder lei co’l piè veloce, e snello.

[p. 186v modifica]

Può star (dicea) che ’l suo splendor sia tanto,
     Ch’abbagli tanto altrui l’human consiglio,
     Che per haver più lei, ch’un’altra à canto,
     L’huom voglia esporsi à l’ultimo periglio ?
     Siede ei con gli altri per vedere intanto
     Quel, che sentito ha dir, co’l proprio ciglio.
     Vien la fanciulla, e ’l corpo ha mezzo ignudo
     E mostra iI petto bello, e ’l pensier crudo.

Com’egli vede il suo divin sembiante,
     E ’l fianco, e ’l sen, riman di stupor morto;
     Ne men de gli altri ne diviene amante,
     E con parlar si scusa alto, et accorto.
     Son le sue gratie veramente tante,
     Ch’ io veggio ben, ch’ io vi ripresi à torto:
     Perdon con humil core à tutti chieggio,
     Che ’l premio non havea visto, c’hor veggio.

Loda il volto divin, loda il bel petto,
     Che sembra quasi d’huom, sì pian si stende;
     Loda l’almo splendor purgato, e netto,
     Che quasi un Sol ne l’occhio suo risplende.
     Intanto sente in lui crescer l’affetto,
     E quanto più la loda, più s’accende;
     Già brama, che di lei corra ogn’un meno,
     E d’amore, e d’invidia ha colmo il seno.

Deh (disse poi) perche anchor io non tento
     Ó d’acquistarla, ò di lasciar la vita ?
     Qual’ huom nel mondo mai fu sì contento,
     S’acquisto una beltà tanto gradita ?
     Più bene è in lei, che l’ultimo tormento
     Non ha di mal. Gli audaci il cielo aita.
     Intanto ecco un, che vien più, che può forte,
     Per guadagnar la vergine, ò la morte.

La vergine Atalanta anch’ella affretta
     Con tal velocità l’invitto piede,
     Ch’à par d’ogni prestissima saetta
     Con gran fatica il bel corpo si vede.
     Se bene il corso al giovane diletta,
     Più lo splendor può in lui, ch’ella possiede;
     E tanto più che ’l corso, che la spinge,
     Di più beltà la sua beltà dipinge.

Quella dolce aura, che dal corso nasce,
     Gratia infinita in ogni parte dalle.
     L’ale, ch’ha ne’ conturni, alza, e le fasce,
     C’ha di sotto al ginocchio, e volar falle.
     Il biondo, e sottil crin forz’ è, che lasce
     Veder mentre alza il vol l’eburnee spalle.
     Il candor de le carni alquanto acceso
     Un purpureo color più bello ha preso.

Come s’al muro candido di latte
     Un teso vel purpureo asconde il cielo,
     L’aer, che sopra lui fere, e combatte,
     Pinge nel bianco il bel color del velo:
     Tal co’l candore in lei l’ardor combatte,
     E l’ostro adombra il bel color del gielo.
     Vince intanto la vergine, e di palma
     S’orna, e corona, e toglie al vinto l’alma.

Se ben fa dar la vergine la morte
     Al vinto, come à molti anchor fè prima,
     Pur vuol tentare Hippomene la sorte,
     Che già più lei, che la sua vita stima.
     E in questa opinion costante, e forte
     Attende, che la donna ogni altro opprima:
     Che mandi à regni lagrimosi, e bui
     Quei, che fur posti in lista innanzi à lui.

Ne viene intanto Hippomene al mio tempio,
     E dice. Ó santa Dea, madre d’Amore,
     Poi ch’è piaciuto al tuo figliuol l’essempio
     Di questa donna imprimermi nel core;
     Non voler, che ’l coltello ingiusto, et empio
     Accorti à la mia vita i giorni, e l’hore.
     Ma fa la gamba mia tanto spedita,
     Ch’à gli altri scritti poi salvi la vita.

Da me, che tutto Amore ho il volto, e ’l seno,
     Gratia à devoti miei mai non si niega,
     Anzi con volto lieto, almo, e sereno
     Così contento Hippomene, che priega.
     Nel mio campo Ciprigno Damaseno
     D’un puro, e forbit’ or la chioma spiega
     Un’ arbor, che ’l suo lume à molti asconde,
     E d’oro i frutti, i rami have, e le fronde.

[p. 187r modifica]

De frutti d’or, che quell’arbor produce,
     Mi ritrovai tre pomi havere in mano,
     E dissi à lui. Quest’or, che qui riluce,
     Può far goderti il bel sembiante humano.
     À quel, che debbe far, gli apro la luce,
     E fò, che vegga manifesto, e piano,
     Che s’un ne rota in terra, e fa l’ incanto,
     In ogni giro vien grosso altrettanto.

Poi fo d’ogn’un di lor sì picciol pomo,
     Che tutti in una man gli asconde, e serra.
     Trov’ egli la donzella, c’havea domo
     Ogni scritt’huom ne la cursoria guerra:
     Le dice. Ó bella vergine, ch’ogni huomo,
     Ch’osa correr con te mandi sotterra;
     Qui vengo anch’ io per farmi ò sposo teco,
     Ó per andar con gli altri al regno cieco.

T’approvo ben, che grand’honor t’apporta
     Contra di tanti illustri haver la palma:
     Ma se la volontà, che ti trasporta
     À fare essangue altrui la carnal salma,
     Farà la carne mia rimaner morta,
     Per haver men robusto il piede, e l’alma,
     D’haver vinto me sol più gloria havrai,
     Che di tutti i trofei, ch’acquistati hai.

E se vorrà la mia felice sorte,
     Ch’al tuo veloce piede io passi avante,
     Per haver l’alma, e ’l piè di te più forte;
     Sposa pur di buon cor si fido amante,
     Che ’l vincitor, che ti farà consorte,
     Discende da famiglie illustri, e sante.
     Mio padre è Megareo, d’Onchesto ei nacque,
     Che fu fatto figliuol dal Re de l’acque.

Si che la stella mia lieta, e benigna
     M’ha fatto pronepote di Nettuno.
     Ne da la sua la mia virtù traligna,
     D’ogni atto dishonesto io son digiuno.
     Ó che la sorte mia cruda, e maligna
     Voglia con gli altri farmi il giorno bruno;
     Ó che mi voglia il ciel far lieto il core,
     Meco acquistar non puoi se non honore.

Mentre, che ’l bel figliuol con questi accenti
     L’interna voluntà fa manifesta;
     Ella nel volto suo tien gli occhi intenti,
     E ne la mente già dubbiosa resta,
     S’ella ami havere i piè di lui più lenti,
     Ó per haver vittoria andar più presta.
     Si stà sopra di se pensosa alquanto,
     Poi scopre il dubbio cor con questo pianto.

Qual Dio, nemico à la beltà, consiglia
     Si leggiadro fanciullo à correr meco ?
     Accio che ne le sue lucenti ciglia
     Debbia il lume del dì rimaner cieco?
     Hor qual sarà quella spietata figlia,
     Che voglia tal beltà far perir seco ?
     Tanto valor però meco io non porto,
     Che debbia salvar me co’l costui torto.

Sia maledetto il mio destin, che vole
     Ch’io debbia haver dal matrimonio danno;
     Perchè potria si generosa prole
     Farmi beato il giorno, il mese, e l’anno.
     Hor se le sue bellezze uniche, e sole
     Al mio ferino cor pietà non fanno;
     La sua tenera età, felice, e lieta
     Ad ogni duro cor dovria far pieta.

E più, che vien dal gran Signor de l’onde,
     Di questo in quello insino al terzo seme;
     E più, ch’al sangue il suo valor risponde,
     Poi che la morte sua punto non teme;
     E più, che le sue luci alme, e gioconde
     Fondano in me la più beata speme;
     E potrò à lui veder troncar lo stame,
     S’è ver, che tanto vaglia, e tanto m’ame ?

Deh gentil cavalier mentre le tempie
     Non m’orna il perder tuo d’altra corona,
     Fuggi da le mie nozze ingiuste, et empie,
     Et à più grato amor te stesso dona.
     Che ’l ciel di tanti pregi, e gratie t’empie,
     Che fia dolce al tuo prego ogni persona.
     Donna non puoi trovar, siasi pur bella,
     Che neghi farsi al tuo splendore ancella.

[p. 187v modifica]

Ma, perchè tanta homai mi prendo cura
     Di lui, se ’l mio consiglio ei non intende?
     Poi ch’al suo cor quel piè non fa paura,
     Che morti innanzi à lui tanti ne rende.
     Cerchi pur con la morte altra ventura,
     Se ’l tedio de la vita il cor gli offende.
     Dunque havrà quei per me l’età fornita,
     Che sol per viver meco ama la vita?

Dunque ei per premio havrà di tanto amore
     Da me spietata, e dolorosa morte ?
     Per volermi illustrar co’l suo splendore,
     Io chiuder debbo al suo splendor le porte ?
     S’io vinco, e scocco in lui l’ultimo horrore,
     Non fia chi porti invidia à la mia sorte.
     Ma l’haver morto un volto sì giocondo
     L’odio m’acquisterà di tutto il mondo.

Ma qual colpa è la mia? s’ io l’ammonisco,
     Ne vuol lasciar la perigliosa impresa ?
     Piacesse pur à lui fuggir tal risco,
     Che da me tal beltà non fora offesa.
     Hor, poi che preso à l’amoroso visco
     La mente ha troppo stolta, e troppo accesa,
     Piacesse à la divina alta mercede,
     C’havesse più di me veloce il piede.

Egli ha pure il soave aere nel viso,
     Ó quanto è dolce, e grata la sua vista;
     Piacesse pure à l’alto paradiso,
     Che non m’havesse mai per suo ben vista.
     Di vita è degno, e non d’essere ucciso,
     E se la sorte mia malvagia, e trista
     Non mi vietasse il matrimonio santo,
     Qual coppia fu già mai felice tanto?

Rozza nel primo amor la bella figlia
     Ama, ne sà d’amar; pensa, e s’aggira:
     Ne’ dolci lumi suoi ferma le ciglia,
     E dubbia del suo stato arde, e sospira.
     Di novo, che non corra, ella il consiglia:
     Ma come affaticarsi indarno mira,
     Ambi à la corda ad agguagliarsi vanno,
     Là, dove per lanciarsi attenti stanno.

Come dà il segno la sonora tromba,
     La vergine, e ’l garzon s’aventa al corso.
     Il grido de la turba alto rimbomba
     Porgendo ogn’uno à l’huom core, e soccorso.
     Per guadagnar la moglie, e non la tomba
     Hippomene le piante opra, e ’l discorso;
     E sì leggiero ogn’un si spinge avante,
     Ch’asciutte condurrian su’l mar le piante.

Con tanta leggiadria premean la strada,
     Che l’orme in luogo alcun non eran viste,
     E corso havrian su la spigata biada,
     Senza far punto risentir l’ariste.
     Ogn’un fa core al giovane, che vada,
     Perche la moglie, e non la morte acquiste,
     Hora Hippomene è tempo, hora t’aita,
     C’havrai la sposa, e salverai la vita.

È dubbio chi di lor più s’allegrasse,
     Ó la vergine, ò l’huom de le parole:
     Che voglion, ch’à la donna avanti passe
     Del nobil Re del mar la terza prole.
     Ó quante volte haver le piante lasse
     Mostrò per non gli tor si tosto il Sole;
     Al fin non senza suo tormento, e doglia
     À dietro se’l lasciò contra sua voglia.

Già il rispirare era affannato, e stanco
     D’Hippomene, e la meta era anchor lunge,
     Gittando un pomo d’or dal lato manco
     L’ incanto fa, che ’l peso à l’oro aggiunge.
     La donna, che lo spirito ha più franco,
     Si piega à l’ ingrossato pomo, e ’l giunge,
     E quanto sente in man più grave il peso,
     Tanto più si rallegra haverlo preso.

Mentre ella andò da l’avaritia vinta
     À tor fuor del camin quel bel thesoro,
     La prole di Nettuno innanzi spinta
     À dietro si lasciò la donna, e l’oro.
     Ma l’altra, che volea la fronte cinta,
     Come solea, del trionfale alloro,
     Ver dove corre il giovane rivolta,
     S’affretta per passarlo un’altra volta.

[p. 188r modifica]

Gli spettatori fan plauso, e coraggio
     Al giovane, e in favore ha tutto il mondo.
     Ma racquista la vergine il vantaggio,
     E ’l fa di novo rimaner secondo.
     Tosto ei le fa rotare innanzi al raggio
     L’altro or, ch’accresce rotolando il pondo.
     Come l’avara femina il riguarda,
     Si piega à torlo, e ’l suo camin ritarda.

Mentre il bello or la vergine à se tira
     Con la sua bella, e pretiosa vista,
     Il bel garzon, ch’à la vittoria aspira,
     La lascia à dietro, e gran vantaggio acquista.
     Ella di novo il passa: ei fa, che mira
     L’altro oro, onde la mano era provista,
     Dubbiosa al terzo don gli occhi ella volse,
     Ma tal gli diei splendor, che fei, che ’l tolse.

Com’ha la palla in man fo, che s’aggiunga
     Gravezza à l’or, perchè sia più impedita.
     Hor per non esser’ io più pigra, e lunga
     De la lor corsa subita, e spedita,
     Fo, ch’ei pria de la donna al segno giunga,
     E salvo à lui la compromessa vita.
     Gli ornan di verde alloro il crin le foglie,
     E in premio ottien la desiata moglie.

Io fui, che con l’aiuto, e co’l consiglio
     Il temerario giovane salvai
     Dal manifesto suo mortal periglio,
     E con colei, ch’amò, l’accompagnai.
     E ben dovea, chino il ginocchio e ’l ciglio,
     Non obliar tal beneficio mai,
     Ma render gratie al mio poter immenso
     Co’l far su l’altar mio fumar l’incenso.

Le ginocchia non mai chinò, ne ’l lume,
     Di me scordossi, e fu del tutto ingrato.
     Mancò de le parole, e di quel lume,
     Che fa fumar l’odor soave, e grato.
     Perche non sprezzi dopo altri il mio Nume,
     Come mi mostrò il cor d’ira infiammato,
     Gli accendo d’uno ardor nefando, et empio,
     E dò con danno loro à gli altri essempio.

Andando per i boschi ombrosi un giorno
     De la possente madre de gli Dei,
     Passar dinanzi al tempio alto, et adorno,
     Che per voto Echion fondò per lei.
     S’era novanta gradi, andando intorno,
     Scostato il Sol da regni Nabatei,
     Tanto che l’hora calda, e ’l lor piè lasso
     Fer, che posar lì dentro alquanto il passo.

Come nel tempio egli ha fermato il piede,
     E ne la donna sua tien fiso il guardo,
     Fo, che Cupido in quel momento il fiede
     Co’l piu ferin libidinoso dardo:
     Tal che in disparte la consorte chiede,
     Dove il lume del giorno è men gagliardo,
     E fra divini altari, e simulacri
     Fa torto co’l suo obbrobrio à marmi sacri.

Quivi ogni Idolo pio gli occhi rivolse,
     Per non mirar quell’atto oscuro, e bieco.
     La madre Berecinthia in dubbio tolse,
     Se dovea dargli al regno infame, e cieco.
     Pur dar si poca pena lor non volse,
     Ma che sotto altro vel vivesser seco.
     Il collo delicato, e senza pelo
     Di lungo crin coperse il carnal velo.

Horrido, spaventoso, e altier fa il volto
     La donna, e l’huom nel rinovato aspetto.
     Ma il pel de l’huom si fa più lungo, e folto
     Per tutta la cervice insino al petto.
     Come un rampino il dito in giro volto
     S’arma d’una unghia d’un crudele effetto.
     Ne l’agitar la polverosa coda
     Mostra quant’ ira, e sdegno il cor gli roda.

In vece de la solita favella
     Si senton dar l’horrendo empio ruggito,
     Più di pietà la donna ha il cor rubella,
     Più forza, e più coraggio have il marito.
     In vece de la corte adorna, e bella,
     Van frequentando il boscareccio sito.
     Lor posto il fren la Dea, di cui ti narro,
     Fe, che tirar leoni il suo bel carro.

[p. 188v modifica]

Si che non gir, dove tal belva rugge,
     Poi che le forze, e l’ ire ha troppo pronte.
     Fuggi pure ogni fera, che non fugge,
     Ma per voler pugnar volta la fronte.
     Non far, che l’animal, che ’l sangue sugge,
     Spenga le tue bellezze illustri, e conte;
     Ne per voler mostrar le pruove tue,
     Che ’l tuo soverchio ardir dia danno à due.

Con questo affetuoso avertimento
     Ti lascio, e per un tempo al ciel m’ invio,
     Fin che faccian gli Dei restar contento
     Del debito trionfo il maggior Dio.
     Spiegan con questo dir le penne al vento
     I Cigni, e vanno al regno eterno, e pio,
     E fanno allegro il Ciel de lo splendore
     De la benigna Dea madre d’Amore.

Al Re, partita lei, venne in pensiero
     Di riveder la patria, ove già nacque:
     Che dove fu privato cavaliero,
     Di farsi riveder gran Re gli piacque.
     Con real compagnia fa, che ’l nocchiero
     Passa ver la Fenicia le salse acque,
     Per terra poi ver l’Austro il camin prende
     Ver dove tanto odor la terra rende.

Fu nel passar del gran monte Libano
     Mostrato al bello Adone il core aperto;
     Che ’l Re del loco, affabile, et humano
     Volle honorare un Re di tanto merto.
     E, perchè ogni animal diverso, e strano
     Stanza in quel monte faticoso, et erto,
     Volle, ch’Adone il Re grato, e cortese
     Gustasse ancho il cacciar del suo paese.

Non seppe contradir il Re Ciprigno
     Al liberal di quel Signore invito,
     Il qual alquanti dì grato, e benigno
     Gli fe goder le caccie del suo sito.
     Intanto il Nume horribile, e sanguigno
     Havea l’amor di Venere sentito,
     E come Dio disposto à la vendetta
     Contra il misero Adone il passo affretta.

Hor mentre Adon per lo difficil monte
     Co’l Re cortese à suoi piaceri intende;
     Marte cangiando la divina fronte
     D’un superbo cinghiale il volto prende.
     Per darlo à l’alta ripa di Caronte
     Contra d’Adone il verre il corso stende.
     Con lo spiedo ei l’attende ardito, e forte;
     Che vuol del capo ornar le regie porte.

Havea tutto d’acciaio armato il fianco
     Il porco, ma coperto era dal pelo,
     Tal, che fu il tergo assicurato, e franco
     Percosso in van dal tridentato telo.
     Ma ben fè il verre Adon pallido à bianco,
     Ché gli squarciò co’l dente il carnal velo;
     Gli fè il sangue abondar da larga vena,
     E render l’aura estrema in su l’arena.

Lo Dio de l’arme à la celeste parte
     Torna à guidar la sua maligna stella.
     Venere, che non sà, che ’l crudo Marte
     L’imagin tolta al mondo habbia più bella;
     Per dover gir dal regno alto si parte
     Dove l’amor d’Adon qua giù l’appella;
     E battendo alta in aere anchor le piume,
     Volse al monte Libano à caso il lume.

Come vede il garzon disteso in terra
     Con tanto sangue sparso, e forse morto,
     Ver quella parte i bianchi Cigni atterra,
     Ch’anchor chi colui sia, non ha ben scorto:
     Ma quando il vede appresso, il crine afferra,
     Et à le proprie sue carni fa torto.
     Poi contra il fato aperto il cor non saggio,
     Aggiunse al primo dir quest’altro oltraggio.

Se bene havete fati ingiusti, et empi
     La terra, e me d’Adon renduta priva;
     Non farete però, che in tutti i tempi
     La memoria di lui non resti viva.
     De la sua morte ogni anno i mesti essempi
     Faran, che ’l nome suo perpetuo viva;
     Il mondo imiterà con rito santo
     Co’l suo infortunio il mio lamento, e pianto.

[p. 189r modifica]

Tu fiume, anchor, che cosi limpido esci
     De le concavità di questo monte,
     Che co’l tuo humore il costui sangue mesci,
     Onde hoggi vai con sanguinosa fronte;
     Questo di gloria al tuo splendore accresci,
     Dona il nome d’Adone al tuo bel fonte;
     E fa, ch’ogni anno il dì, che restò essangue,
     La splendid’ onda tua corra di sangue.

Appresso un fiume, ch’esce di quei sassi
     Lasciò l’alma d’Adon l’humane some.
     E sempre, che la pompa Adonia fassi,
     (Oltre che da lui prese il fonte il nome)
     Con l’onde insanguinate al pianto dassi,
     Per fare al mondo testimonio, come
     Lo sventurato Adon morì quel giorno,
     Che và la pompa sua solenne intorno.

L’afflitta Citherea dapoi le ciglia
     Da l’acque volse à la sanguigna polve.
     Terra del sangue di colui vermiglia
     (Disse), che in pianto i miei lumi risolve,
     Forma del sangue un’altra maraviglia,
     E mentre intorno al mondo il ciel si volve,
     Ricorda à l’huom con novo illustre fiore
     D’Adon lo sparso sangue, e ’l mio dolore.

Dapoi che fu à Proserpina permesso,
     Quando ritrovò Minta con Plutone,
     Di far menta di lei, malgrado d’esso,
     Per torsi ogni gelosa opinione,
     Ond’è, ch’à Citherea non fia concesso
     Di far un fior del suo diletto Adone?
     Di foglie tanto accese, e sì superbe,
     Che faccia invidia à tutti i fior de l’herbe?

Tutto di nettar santo, et odorato
     Del suo gradito Adone il sangue sparse,
     Il qual da interno spirito infiammato
     Si vide in forma sferica gonfiarse.
     Così lo spirto suol ne l’acqua entrato
     In una palla lucida formarse,
     Ne molto andò, che ’l rosso, e picciol tondo
     S’aperse in un bel fior grato, e giocondo.

Purpureo al fior del melagran rassembra,
     Ma l’uso suo può dirsi illustre, e corto.
     E con la brevità, c’ha in se, rimembra,
     Come l’human splendor vien tosto morto.
     Se poco ella godè le belle membra,
     Del fior gode hhoggi poco il campo, e l’horto:
     Che ’l vento, che ’l formò, subito toglie
     Al debil fusto le caduche foglie.

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ANNOTATIONI DEL DECIMO LIBRO.

La favola di Orfeo ci mostra quanta forza, e vigore habbia l’eloquenza, come quella che è figliuola di Apollo che non è altro che la sapienza; la lira datagli da Mercurio, è l’arte del favellare propriamente, laquale a simiglianza della lira va movendo gli affetti co’l suono hora acuto, hora grave, della voce e della pronuntia, di maniera che le selve, e i boschi si movono per il piacere che pigliano di udire la ben’ordinata, e pura favella dell’huomo giudicioso, non sono altro i boschi e le selve, che quegli huomini che sono cosi fissi, et ostinati nelle loro opinioni, che con grandissima difficoltà ne possono essere rimossi, i quali al fine si lasciano vincere dalla soavità della voce, e dalla forza delle parole, propriamente questi tali sono figurati per gli arbori che fanno le selve e i boschi, perche si come questi hanno le loro radici ferme, e profonde, cosi quelli fissano, e profondano nel centro dell’ostinationi le opinioni loro; ferma ancora Orfeo figurato per l’eloquente i fiumi, che non sono altro che li dishonesti, e lascivi huomini che quando non siano retirati dalla forza della lingua dalla loro infame vita, scorrono senza ritegno alcuno sino al mare, che è il pentimento, e l’amarezza; che suole venire subito dietro a i piaceri carnali. Rende Orfeo ancora mansuete e benigne le fiere, che sono gli huomini crudeli, & ingordi del sangue altrui, perche sono ridotti dal giuditioso favellatore a piu humana e piu lodevole vita; ama l’eloquente & è amato da Euridice, laqual figuraremo per la concupiscenza naturale, che passeggiando per i prati quali sono i suoi propri desideri; fugge da Aristeo che è il loro freno, come quello che desidera di tornarla a piu alti e piu lodevoli pensieri; e fuggendo more ferita dal serpente, che non è altro che quello inganno che stando nascosto nelle cose temporali, coglie tutti gli huomini che vivono in diverse maniere; morta la concupiscenza nelle sue proprie passioni è condotta all’inferno, Orfeo come suo verissimo amico che è il giuditioso parlatore, che con efficace persuasioni tenta di ritornarla di sopra alla virtù; e tornandovela; si rimira incautamente in dietro; e la perde di nuovo, perche non fa bisogno rimirar indietro, ma sempre inanzi; lo scendere di Orfeo all’inferno è l’huomo saggio, e prudente che non deve mai per qual si voglia concupiscenza partirse dalla contemplatione delle cose alte, per mirare le cose basse, e temporali e compiacerse in esse.

Preme l’Anguillara come si è veduto fin qui in rapresentare alcune cose pratiche come la caccia del Cervo, il maneggiar cavalli, il tessere, il cuscire, poi che gli riescono tutte felicemente, come gli è riuscito quivi ancora il rappresentare il suon della lira; in quella stanza: Quel legno appoggia alla mammella manca, e nella seguente.

Nella trasformatione di Ati in Pino, si può pigliar’ essempio quanto è mal convenevole il matrimonio quando vi è gran differenza di età, come era fra Cibele madre de gli dei, et Ati ancor giovinetto; e però non è maraviglia se ne segueno per cagione della gelosia di molti mali accidenti, come veggiamo tutto di avenire, e come avenne all’infelice Ati che si voltò all’Amore piu convenevole ad esso della Ninfa Sagarithide.

La trasformatione del giovane dolente per la morte del suo amantissimo Cervo, in Cipresso arbore che significa pianto e doglia, de i piu cari amici, e parenti, perche gli antichi erano accostumati a ornare de’ rami di quest’arbore le sepolture de i morti che vivendo gli erano charissimi ci da essempio che non dobbiamo giamai porre tanto amore nelle cose mortali, che poi quando le ci mancano, a viva forza tutto il rimanente della vita nostra sia un’essempio di amarissimo cordoglio a tutti quelli che ci veggono cosi, non senza loro grandissima maraviglia, come ancora non senza grandissimo danno nostro.

Giove ruba il bellissimo Ganimede, e il fa suo copieri per farci vedere quanto sia vago il cielo di privar’ il mondo come indegno di goderle, di quelle cose che gli sono piu grate, e che sono da essere tenute in maggior stima; il fa poi suo copieri havendolo convertito nel segno di Aquario il quale quando ha il Sole fermo in lui, dà da bere non solamente a Giove, ma a tutto il mondo con larghissime e abondantissime pioggie.

Giacinto trasformato nel fiore del suo nome da Apollo, ci fa vedere che la virtù del Sole che si va compartendo ne i semplici la mattina quando si rallegrano vedendolo comparire, come quello che con la benignità sua li va purgando dalla soverchia humidità della notte, deve esser colta in tempo della sua giovanezza, che è che la non sia ne troppo morbida per la soverchia hu[p. 190r modifica]midità, ne meno troppo asciuta per il soverchio ardore de i raggi del Sole, colta dunque a tempo, si trasforma in fiore, che non è altro che quella parte piu purgata, piu nobile, e piu atta a operare, e far’effetti miracolosi intorno la sanità, che è come un fiore, rapresenta quivi l’Anguillara molto vagamente il gioco della Racchetta in quella stanza, Un gioco da Racchetta havea Giacinto come medesimamente rappresenta ancora il giocare fra Apollo e Giacinto nelle seguenti, come si vede fare in molti luoghi e fra gli altri nel regno di Francia.

L’amore di Pigmalione, alla figura d’Avolio fatta dalle sue mani, ci da essempio che quelli che tenta fa riparo alle forze della natura, non volendo giamai gustar’ il dolcissimo, e soavissimo Amore posto regolatamente fra l’huomo, e la donna; essendo la volontà nostra naturalmente spinta per sempre ad amare, si danno ad amare alcune cose di poco frutto, solamente per proprio loro piacere, come pitture, sculture, medaglie a simil cose; e le amano cosi caldamente, che vengono le medesime cose, a satisfare al desiderio loro, come se rimanessero satisfati del desiderio del vero Amore, che deve esser fra l’huomo, e la donna; vogliono alcuni che questo amore di Pigmalione s’intenda, che essendo egli satio dell’Amore delle donne, si deliberò di non travagliarse piu con esse loro, ma prese per suo piacere una picciola fanciullina, per nodrirla fin’all’età matura, e crescendo la fanciulla in maravigliosa bellezza, se ne accese di maniera Pigmalione che non chiedeva altro a i Dei, se non che volessero presto condurla a quell’età che può sostenere gli abbracciamenti dell’huomo, per poter porre a fine il suo ardentissimo amore, e che questa fanciulla s’intenda per la figura d’Avolio fatta dalle sue mani havendole egli dato una bella, e nobile creanza, & havendola poi goduta n’hebbe un figliuolo che diede il nome all’isola di Papho, per havervi edificato un castello, e chiamatolo da’l suo nome.

La favola di Mirrha vogliono alcuni che la fusse ingeniosamente ritrovata perche Mirrha è un’arbore appresso i Sabei che s’infiamma per il molto vigore de i raggi del Sole; onde essendo il Sole padre di tutte le cose, però si dice che Mirrha amò il padre, come quello che infiammando quest’arbore, fa scoprire fuori della corteccia alcune aperture, dalle quali poi si coglie quel soave unguento della Mirrha, che significa Adonenon essendo interpretato Adone altro che soave. Si vede quivi in questa favola quanto si sia affaticato l’Anguillara per rappresentare vivamente tutti quei dubbij che potevano tenire sospeso, e irresoluto l’animo dell’inamorata Mirrha, con quelle dispute che poteva fare in cosi scelerato amore, la ragione, con l’infame sua passione, vedendosi tutti quei spirti, e quegli affetti, che si possono desiderare, in rappresentare questa favola, oltra le conversioni e le comparationi bellissime come quella della stanza, Qual se la quercia annosa altera e grossa. Una bellissima digressione è anchor quella che fa nella stanza Non le basta il secondo, e vi va tante, e nella seguente.

La favola di Adone ci fa vedere quanto sia pronta la bellezza figurata per Venere ad amare il soave piacere d’Amore, figurato per Adone poi che quella Venere non finta che regnò in Cipro, diede leggi, e persuase tutte le donne per goder’ interamente quel piacere, che procacciassero per qual si voglia modo, di essere abbracciate senza alcun freno di vergogna da gli huomini, non tenendo alcun conto di adulteri o stupri; oltra che introdusse fra i Soriani che fussero condotte le vergini a i lidi del mare, a fin che passando i legni de forestieri, overo facendo scala in quei lidi, levassero loro il fiore della virginità tanto stimato, dove si vive religiosamente; è ferito Adone dal Cinghiale, quando il piacere amoroso è sturbato da gli infelici e fieri successi, che avengono per caginoe della gelosia, overo di invidia nelle cose d’Amore; come quello che non vuole alcuna cosa dura, fiera, ne aspra, ma che ogni sua cosa sia sempre piena di dolcezza, sempre in gioia, e sempre in stato felice, da il sangue di Adone, che è il soave piacer’amoroso, pigliano colore le rose perche nella stagione di questo soavissimo fiore, pare che tutti i cuori si sentano infiammare dal desiderio di godere la bellezza la quale si va scoprendo in gran parte nelle Rose, poi che i Poeti non hanno trovato simiglianza piu propria alla bellezza delle donne, di quella della Rosa, simigliando el loro guancie alle rose, il colore delle quali è cosi grato all’occhio, come l’odore, all’odorato; si duole Venere per la morte di Adone quando la bellezza rimane priva del soavissimo piacere di Amore.

Descrive l’Anguillara con nuovo modo di dire molto vagamente che cosa sia Amore, e gli effetti suoi, in quella stanza, Amor’ altro non è che un bel desio, e nelle seguenti; con artifitiosissima digressione, nella quale si leggono alcune esclamationi molto proprie, come quella [p. 190v modifica]della stanza, O veramente aventurata morte, e di quell’altra, O gran lode di Amor poi che si giova insieme con la conversione dell’inamorata Venere al suo amato Adone, nella stanza, Ma il ben de ’l quale il mondo men ha parte, e nella seguente insieme con la risposta di Adone.La favola di Atalanta, e di Hippomene ci da essempio che non è cosa che piu prontamente vinca la durezza, e l’ostinatione dele donne che l’oro, come quelle che naturalmente sono avarissime, e di qui aveneva che tutti quelli che tentavano di vinverla nel corso con la virtù, e col valore rimanevano morti; perche con esse loro non giova nobiltà, bellezza, ne virtù, mancando l’oro.Quando però non sia no infiammate esse ancora da questo focoso furore chiamato volgarmente Amore; perche all’hora, si lasciano vincere di maniera che non mirano ne all’honore, ne al timore, ne a cosa alcuna, anzi corrono sfrenatissime a i loro piaceri, senza alcuna consideratione appigliandose sempre al peggio; furono al fine ambidoi conversi in Leoni, e posti al carro di Cibele, poi che non hebbero punto di vergogna ne ’l congiungerse insieme alla presentia de gli Dei, per darci essempio che questa fiera passione trahe cosi l’huomo, e la donna fuori della sua propria natura, che li converte in animali fierissimi come i leoni, sono poi in processo di tempo, quando si vien raffredando il vigore del sangue; ridotti a tirar il carro di Cibele, quando si cominciano a riconoscere, e riconoscendose a vivere con gli ordini della natura, e con l’ubidienza delle leggi.Descrive molto felicemente l’Anguillara questa favola di Atalanta, adornandola come è accostumato di fare, di molte belle digressioni, cosi nel rapresentar la forza d’Amore in Hippomene, come ancor ala bellezza della superba giovane, mettendola vagamente innanzi a gli occhi di chi legge, con bellissime conversioni come nella stanza, Poi fu d’ogn’un di lor si picciol pomo dove si converte Hippomene, nella stanza, Dhe gentil cavalier mentre le tempie, e nelle seguenti, con bellissime comparationi come quella della stanza, Come s’al muro candido di latte: con quella vaga descrittione del corso. Come quella della stanza, Già il respirare era affannato, e stanco, e nelle seguenti, e con quella bellissima sententia di Virgilio ancora, che è nella stanza: Dhe disse poi per ch’anchor’io non tento dicendo nel verso, il fine: Gl’ audaci sempre il cielo aita.