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De frutti d’or, che quell’arbor produce,
     Mi ritrovai tre pomi havere in mano,
     E dissi à lui. Quest’or, che qui riluce,
     Può far goderti il bel sembiante humano.
     À quel, che debbe far, gli apro la luce,
     E fò, che vegga manifesto, e piano,
     Che s’un ne rota in terra, e fa l’ incanto,
     In ogni giro vien grosso altrettanto.

Poi fo d’ogn’un di lor sì picciol pomo,
     Che tutti in una man gli asconde, e serra.
     Trov’ egli la donzella, c’havea domo
     Ogni scritt’huom ne la cursoria guerra:
     Le dice. Ó bella vergine, ch’ogni huomo,
     Ch’osa correr con te mandi sotterra;
     Qui vengo anch’ io per farmi ò sposo teco,
     Ó per andar con gli altri al regno cieco.

T’approvo ben, che grand’honor t’apporta
     Contra di tanti illustri haver la palma:
     Ma se la volontà, che ti trasporta
     À fare essangue altrui la carnal salma,
     Farà la carne mia rimaner morta,
     Per haver men robusto il piede, e l’alma,
     D’haver vinto me sol più gloria havrai,
     Che di tutti i trofei, ch’acquistati hai.

E se vorrà la mia felice sorte,
     Ch’al tuo veloce piede io passi avante,
     Per haver l’alma, e ’l piè di te più forte;
     Sposa pur di buon cor si fido amante,
     Che ’l vincitor, che ti farà consorte,
     Discende da famiglie illustri, e sante.
     Mio padre è Megareo, d’Onchesto ei nacque,
     Che fu fatto figliuol dal Re de l’acque.

Si che la stella mia lieta, e benigna
     M’ha fatto pronepote di Nettuno.
     Ne da la sua la mia virtù traligna,
     D’ogni atto dishonesto io son digiuno.
     Ó che la sorte mia cruda, e maligna
     Voglia con gli altri farmi il giorno bruno;
     Ó che mi voglia il ciel far lieto il core,
     Meco acquistar non puoi se non honore.

Mentre, che ’l bel figliuol con questi accenti
     L’interna voluntà fa manifesta;
     Ella nel volto suo tien gli occhi intenti,
     E ne la mente già dubbiosa resta,
     S’ella ami havere i piè di lui più lenti,
     Ó per haver vittoria andar più presta.
     Si stà sopra di se pensosa alquanto,
     Poi scopre il dubbio cor con questo pianto.

Qual Dio, nemico à la beltà, consiglia
     Si leggiadro fanciullo à correr meco ?
     Accio che ne le sue lucenti ciglia
     Debbia il lume del dì rimaner cieco?
     Hor qual sarà quella spietata figlia,
     Che voglia tal beltà far perir seco ?
     Tanto valor però meco io non porto,
     Che debbia salvar me co’l costui torto.

Sia maledetto il mio destin, che vole
     Ch’io debbia haver dal matrimonio danno;
     Perchè potria si generosa prole
     Farmi beato il giorno, il mese, e l’anno.
     Hor se le sue bellezze uniche, e sole
     Al mio ferino cor pietà non fanno;
     La sua tenera età, felice, e lieta
     Ad ogni duro cor dovria far pieta.

E più, che vien dal gran Signor de l’onde,
     Di questo in quello insino al terzo seme;
     E più, ch’al sangue il suo valor risponde,
     Poi che la morte sua punto non teme;
     E più, che le sue luci alme, e gioconde
     Fondano in me la più beata speme;
     E potrò à lui veder troncar lo stame,
     S’è ver, che tanto vaglia, e tanto m’ame ?

Deh gentil cavalier mentre le tempie
     Non m’orna il perder tuo d’altra corona,
     Fuggi da le mie nozze ingiuste, et empie,
     Et à più grato amor te stesso dona.
     Che ’l ciel di tanti pregi, e gratie t’empie,
     Che fia dolce al tuo prego ogni persona.
     Donna non puoi trovar, siasi pur bella,
     Che neghi farsi al tuo splendore ancella.