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Quando il corpo del Sol vedeano giunto
     Dove il meridian fendea la sfera;
     Dico il meridian, ch’era in quel punto
     Nel qual co’l bel fanciul lo Dio biond’era,
     E che ’l medesmo spatio il giorno à punto
     Era lontan da l’alba, e da la sera;
     Ó notando se’n gian godendo l’onde,
     Ó godean l’aura à l’ombra de le fronde.

Poi ver la sera innanzi al tempo alquanto,
     Che suol co’l cibo à l’huom render conforto,
     Tal volta il piombo, e ’l disco alzavan tanto,
     Che faceano à le nubi oltraggio, e torto.
     Talhor con la racchetta, over co’l guanto
     Palle di cuoio battean per lor diporto
     Fin che l’hora venia, che con le cene
     Brama di ristorar l’avare vene.

Un gioco da racchetta havea Hiacinto
     Di ben pensata, e commoda grandezza.
     Da quattro muri in quadro egli era cinto,
     E tre quadri facean la sua lunghezza.
     Di dentro il muro à nero era dipinto,
     Dal basso fondo à la suprema altezza.
     Da due sol lati il suo tetto havea giusto,
     L’un largo, e corto, e l’altro lungo, e angusto.

Sendo lo Dio ne lo steccato un giorno,
     Per far co’l disco, e la racchetta il gioco,
     Febo girar fa la racchetta intorno,
     E giocan chi di lor sceglier dè il loco.
     Vince il mortale, et ei s’elegge il corno
     Del mandator, vantaggio à lui non poco.
     Poi manda falso à l’avertito Nume,
     E la palla, ove và, segue co’l lume.

Lo Dio la palla con giudicio attende,
     E se la può investir prima, che cada,
     Con l’accorta racchetta à lui la rende,
     Ma l’aversario à lei rompe la strada.
     Tanto, c’hor l’uno, hor l’altro il cuoio offende,
     E fa, ch’ogni hor sopra la corda vada.
     Fin ch’un fa il fallo, ò in modo il tondo scaccia
     Ch’à forza in terra fa segnar la caccia.

Con gran giudicio l’uno, e l’altro mira,
     Qual colpo il segno, il caso, e ’l loco chiede.
     E l’occhio esperto, ch’al vantaggio aspira,
     Obediente fa la mano, e ’l piede.
     Hor fà, che cresce innanzi, hor si ritira
     Con leggiadria, dove il bisogno vede.
     E l’uno, e l’altro v’è si bene instrutto,
     Che par, che non si mova, et è per tutto.

Fermato c’han due segni, cangian lato,
     E secondo che stan presso, ò lontano,
     Così batton co’l fil duro, e intrecciato
     La travagliata palla hor forte, hor piano.
     Quel, c’ha disavantaggio, è più accurato
     Nel dar la botta sua con dolce mano,
     Ma quel, c’ha ne la caccia alcun vantaggio,
     Fa con maggior superbia al disco oltraggio.

Havean giocato tanto, che vicino
     Era d’ogn’uno, ò ’l perdere, ò la palma:
     Et era il pegno tal, che l’huom divino
     Più tosto eletto havria di perder l’alma:
     Et era giunto il dì, che ’l fier destino
     Dovea disanimar la carnal salma
     Del miser figlio, il qual facea gran stima
     D’haver la spoglia in quel duello opima.

L’ultimo gioco hor và ne la partita,
     Chi ’l vincerà, n’avrà l’honore, e ’l pegno:
     E già se perde il giovane è finita,
     Un sol per lui non vantaggioso segno.
     Tanto ch’ogn’un di lor cauto s’aita,
     Adopra il piè, la man, l’occhio, e l’ingegno.
     Lo Dio se vien la palla, in furia dalle;
     L’altro pian pian, perchè lontan s’avalle.

Hor, mentre l’uno, e l’altro studia, e vede,
     Che l’aversario il voto non adempia;
     Apollo con furor la palla fiede,
     E fa sdegnarla, e gir superba, et empia.
     Mentre il garzon vi và, gli manca un piede,
     E nel cader, ferir sente la tempia
     Dal disco empio, e crudel, che correa in fretta
     À far del suo gran stratio la vendetta.