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Tosto, ch’appresso al letto esser si sente,
     Trova, che ne l’andar le trema il piede;
     Fugge il colore acceso, e ’l sangue ardente
     S’incentra dove il cor dubbioso siede.
     E tanto più del mal si duole, e pente,
     Quanto à l’error più presso esser si vede;
     Già brama differirlo à un’altra volta,
     E dar non conosciuta à dietro volta.

Hor mentre (augurio al suo stato infelice)
     La timida donzella il piè ritarda,
     La tira per lo braccio la nutrice
     À far l’error più strenua, e più gagliarda.
     La porge al letto scelerato, e dice
     Senz’esser ne l’amor punto bugiarda;
     Ecco colei, che brama il tuo diletto,
     Co’l maggior, che si può, carnale affetto.

Lieto nel letto osceno il padre prende
     La figlia propria sua per piacer trarne,
     E ’l timor, e ’l tremor, che ’l cor l’offende,
     Le placa, e già l’amor vuol, che s’ incarne.
     E gode, mentre al suo diletto intende,
     La carne sua con la sua propria carne;
     E del seme medesmo, onde già nacque,
     Haver l’ingordo sen grave à lei piacque.

E, perche in tali abbracciamenti aviene,
     Che con sommo piacer l’un l’altro nome
     Diletta anima mia, dolce mio bene,
     Havendo ei grigie, e bionde ella le chiome:
     Perche quel dolce, e scelerato bene
     Si nominasse co’l suo proprio nome,
     Mentre ei godè le sue membra leggiadre
     Forse ei chiamò lei figlia, ella lui padre.

Gravida al fin l’ incestuosa figlia
     Si parte, e l’error suo porta nel seno.
     Come il sonno à mortai chiude le ciglia,
     E pon ne l’altra notte à sensi il freno,
     Per raddoppiar l’eccesso il camin piglia,
     E di novo oscurar fa il ciel sereno.
     Vien poi co’l padre à l’amoroso Marte,
     E co’l secondo error da lui si parte.

Non le basta il secondo, e vi và tante
     Volte, ch’al Re di Cipro in pensier cade,
     Di voler posseder la dolce amante
     Con gli occhi per goder la sua beltade.
     Tosto, ch’à lui rivien la figlia errante,
     E c’ha goduto la sua verde etade,
     Si leva, et apre un studio, ove sospesa
     Lunga una corda havea lasciata accesa.

La figlia, che levare il padre sente,
     E per aprir un’uscio oprar la chiave,
     Si getta intorno il panno immantinente,
     Che di quel, che seguì, sospetta, e pave.
     Và pian pian ver lo studio, e vi pon mente,
     E vede, che la corda in man pres’ave,
     E che per far risplender l’aria nera
     Cerca, che faccia il solfo arder la cera.

Tosto prende il camin verso la porta,
     E ’l ferro sprigionar vuol per aprire,
     Ma intanto il lume acceso il padre porta.
     Et ella à tempo non si può coprire.
     Tosto fa rimaner la fiamma morta
     Co’l vento Mirra, e poi dassi à fuggire.
     Ma non restò l’ardor morto dal fiato,
     Ch’ei vide la sua figlia, e ’l suo peccato.

Poi ch’à la lingua il duol di parlar vieta,
     S’accinge il padre irato à la vendetta.
     Discaccia in tutto la paterna pieta,
     E ver la spada ardente il piede affretta.
     Intanto per la notte atra, e secreta
     Fugge l’afflitta figlia, e non l’aspetta.
     Và con la balia à l’uscio de la corte,
     E fa co’l contrasegno aprir le porte.

Sfodra Cinira il ferro, ma non vede
     Per l’aere brun come ferir la figlia.
     Fa ver l’accesa corda andare il piede
     E la cera di novo, e ’l solfo piglia.
     Co’l lume acceso un’altra volta riede
     Dove lasciolla, e nel girar le ciglia
     La porta de la stanza aperta scorge,
     E de la ratta sua fuga s’accorge.