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decimo. 178

Come l’acceso Dio cader lo scorge,
     Impallidito il volto almo, e giocondo;
     Vien smorto anch’egli, aiuto in van gli porge,
     Ch’ei non si può più dir di questo mondo.
     D’alzarlo ei cerca pur, ma indarno sorge,
     Che ’l collo regger più non può il suo pondo,
     Anzi mentre egli l’alza, e ’l tien sospeso,
     Inchina il volto, ove il trasporta il peso.

Come s’alcun nel passeggiar per l’horto
     Al papavero à caso il fusto offende,
     Viene in breve il suo fior pallido, e smorto,
     E ver la pianta sua s’inchina, e pende:
     Così il garzon ferito, e mezzo morto
     Al gran dolor, che ’l domina, s’arrende.
     Il qual su ’l più bel fior morendo langue,
     Dipinto il suo color di morte, e sangue.

Vorria pur aiutarlo ei, che l’offese,
     E pone in opra in van lo studio, e l’herba,
     Perche la piaga immedicabil rese
     La palla, che ferì, troppo superba.
     Pur con ogni opra pia grato, e cortese
     Tutto il tempo, che puote, in vita il serba.
     E poi che l’arte sua più non vi puote,
     Sfoga l’interno duol con queste note.

Tu muori, ò mio dolcissimo Hiacinto,
     E questo doloroso pugno è stato,
     Che t’ha su ’l fior de’ più begli anni estinto,
     E de l’età prescritta à l’huom fraudato.
     Io miro il volto tuo di sangue tinto,
     E piango la tua morte, e ’l mio peccato.
     Nel sangue, che ’l bel volto irriga, e verga,
     Il mio dolore, e ’l mio delitto alberga.

Convien, ch’al pugno mio crudel si scriva
     La tua infelice accelerata morte:
     La destra mia la tua bell’alma ha priva
     Del corpo, che s’havea fatto consorte.
     La colpa è mia: quel mal da me deriva,
     Ch’à dolci lumi tuoi chius’hà le porte.
     Se colpa si può dir d’un fido core,
     Che gioca per ischerzo, e per amore.

Potessi almen cangiar la sorte teco,
     E de la vita mia render te donno.
     Ó almen potessi anch’io per sempre cieco
     Farmi, e restar nel sempiterno sonno.
     Hor poi, che i fati l’immortal, ch’è meco,
     Con tutto il lor poter tor non mi ponno;
     Meco sempre sarai, ne la mia lingua
     Mai non verrà, che ’l tuo nome s’estingua.

Quando la lira mia sarà tentata
     Da l’impeciato crin, che sta sù l’arco,
     La tua doppia beltà sarà lodata
     Da’ versi di colui, che ti fe incarco.
     Ne mai la lingua mia ti sarà ingrata,
     Ne sarà il verso mio ristretto, e parco,
     Ma con le canne liberali, e pronte,
     Darà il miglior liquor, c’habbia il suo fonte.

E s’io co ’l suon de l’arbore, e co ’l canto
     Spiegherò le tue lodi, e la mia doglia;
     Tu fatto un fiore il mio seguirai pianto
     Con quel, che scritto fia ne la tua foglia.
     Quel tempo verrà anchor, che ’l carnal manto
     Perdendo prenderà la stessa spoglia
     Quel forte Aiace, e ’l fior mostrerà scritto
     Il suo nome, il tuo pianto, e ’l mio delitto.

Mentre con queste note aperte, e vere
     Apollo il suo dolor sfoga, e rimembra,
     S’allargan le pareti oscure, e nere,
     E fan, che ’l gioco un gran giardin rassembra.
     Fanno à le mura l’edere spalliere,
     Già su l’herba ha il garzon l’estinte membra.
     Le travi, e i travicelli insieme uniti
     Si forman olmi, e pergolati, e viti.

La rete, ch’à traverso era sospesa,
     Sopra la qual dovea passar la palla,
     Simile à quella vien, che ’l ragno ha tesa,
     Per prendervi la mosca, ò la farfalla.
     La terra, c’havea rossa il sangue resa,
     Che reggea sopra lei la morta spalla,
     Ingravida del sangue il proprio chiostro,
     Poi parturisce un fior di minio, e d’ostro.