Subito le grand’ale in aere stese,
E co i mentiti vanni à terra venne.
Con gl’incurvati artigli il garzon prese,
Poi verso il patrio ciel battè le penne,
Come il vecchio custode, e ogn’altro intese
Gli occhi nel forte augel, che in aria il tenne,
Co ’l grido in vano al ciel alzò le mani,
Et abbaiaro à l’aria indarno i cani.
Passa il rettor del ciel gli Etherei calli
E ’l garzon Frigio entro al suo regno accoglie.
Poi di portargli il nappo il grado dalli,
Et à la nuora sua tal grado toglie.
A mensa egli del vino empie i cristalli
Non senza duol de la celeste moglie.
Pur non biasma il marito, e per l’honore
Non mostra il giel, che le costringe il core.
E tè figliuol leggiadro d’Amiclante
Nel cielo havrebbe posto il padre mio,
Se non t’havesse tolto al mondo avante
Al tempo il tuo destin mortale, e rio.
Ma se eterno non sei fra l’alme sante,
Non ti ponno i mortai porre in oblio.
Che come il pesce aquoso ha il Sol lasciato,
Rinasci un fior purpureo, et orni il prato.
Si raro, e bel fanciullo era Hiacinto,
Quant’altri fosse mai cantati in carmi.
Ne più vago il pennel l’havria dipinto,
Ne fatto lo scarpel più bello in marmi.
Et oltre à questo havea l’animo accinto
A gli studi pacefici, et à l’armi;
E ne ’l corpo, e ne l’alma havea ogni parte,
Che Venere può dar, Minerva, e Marte.
Nel trarre il pal del ferro, il dardo, e ’l disco,
Ogn’un de l’età sua seco perdea.
Nel salto, e ne la lotta, e in ogni risco,
Più forza, e più saper d’ogni altro havea.
E senza dubbio alcun di dire ardisco,
Che potea star al par (se no ’l vincea)
Di quel, che nel convito alto, e divino
Portar suol nel diamante à Giove il vino.
Nel conversare affabile, e soave,
Sciogliea con tal modestia la favella,
Che cosa più gioconda, ne più grave
Non vide mai la mia paterna stella.
E ben segno ne fe, poi che la chiave
Fidò de la sua luce adorna, e bella
A l’hore, e volle, ch’elle il solar plaustro
Fesser volar fra l’Aquilone, e l’Austro.
Sapean per lo girar perpetuo l’Hore
D’Apollo il periglioso alto viaggio,
E ciascuna di loro havea vigore
Di guidar per un’hora il solar raggio.
Il freno ad altra poi dava, e l’ardore
Co ’l nervo, onde à gli augei far suole oltraggio:
E mentre dava l’una il censo al giorno,
L’altre se ’n gian volando al carro intorno.
Hor come il padre mio da l’alto scorge
Un fanciullo si nobile, e si bello,
La diurna facella à l’Hore porge,
E scende à lui vicin per me’ vedello.
Hiacinto de lo Dio biondo s’accorge,
Che ’l tempo brameria passar con ello,
E cortese ver lui si mostra, e rende,
E fa, che ’l suo parlar giocondo intende.
Quanto più il raggio Apollo in lui tien fiso,
Tanto gli par più bello, e più giocondo,
Loda il divin suo spirto, ammira il viso,
Stupisce del parlar dolce, e facondo.
E lascia dal suo preside diviso
Quel tempio, ch’egli ha in Delfo in mezzo al mondo.
Tanto l’alletta il volto, e ’l bel costume
Di quel, per cui lasciato ha ’l carro, e ’l lume.
Cerca co ’l bel garzon d’Eurota il lito,
Et ovunque s’invia, gli è sempre appresso,
E danno intrambidui nel nobil sito
Di Sparta à gli animai la caccia spesso.
Del suo bel lume il mio padre invaghito
Si scorda totalmente di se stesso.
Porta le reti, e tiene i cani al varco,
Et usa indegnamente il plettro, e l’arco.