Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/365


decimo. 177

Subito le grand’ale in aere stese,
     E co i mentiti vanni à terra venne.
     Con gl’incurvati artigli il garzon prese,
     Poi verso il patrio ciel battè le penne,
     Come il vecchio custode, e ogn’altro intese
     Gli occhi nel forte augel, che in aria il tenne,
     Co ’l grido in vano al ciel alzò le mani,
     Et abbaiaro à l’aria indarno i cani.

Passa il rettor del ciel gli Etherei calli
     E ’l garzon Frigio entro al suo regno accoglie.
     Poi di portargli il nappo il grado dalli,
     Et à la nuora sua tal grado toglie.
     A mensa egli del vino empie i cristalli
     Non senza duol de la celeste moglie.
     Pur non biasma il marito, e per l’honore
     Non mostra il giel, che le costringe il core.

E tè figliuol leggiadro d’Amiclante
     Nel cielo havrebbe posto il padre mio,
     Se non t’havesse tolto al mondo avante
     Al tempo il tuo destin mortale, e rio.
     Ma se eterno non sei fra l’alme sante,
     Non ti ponno i mortai porre in oblio.
     Che come il pesce aquoso ha il Sol lasciato,
     Rinasci un fior purpureo, et orni il prato.

Si raro, e bel fanciullo era Hiacinto,
     Quant’altri fosse mai cantati in carmi.
     Ne più vago il pennel l’havria dipinto,
     Ne fatto lo scarpel più bello in marmi.
     Et oltre à questo havea l’animo accinto
     A gli studi pacefici, et à l’armi;
     E ne ’l corpo, e ne l’alma havea ogni parte,
     Che Venere può dar, Minerva, e Marte.

Nel trarre il pal del ferro, il dardo, e ’l disco,
     Ogn’un de l’età sua seco perdea.
     Nel salto, e ne la lotta, e in ogni risco,
     Più forza, e più saper d’ogni altro havea.
     E senza dubbio alcun di dire ardisco,
     Che potea star al par (se no ’l vincea)
     Di quel, che nel convito alto, e divino
     Portar suol nel diamante à Giove il vino.

Nel conversare affabile, e soave,
     Sciogliea con tal modestia la favella,
     Che cosa più gioconda, ne più grave
     Non vide mai la mia paterna stella.
     E ben segno ne fe, poi che la chiave
     Fidò de la sua luce adorna, e bella
     A l’hore, e volle, ch’elle il solar plaustro
     Fesser volar fra l’Aquilone, e l’Austro.

Sapean per lo girar perpetuo l’Hore
     D’Apollo il periglioso alto viaggio,
     E ciascuna di loro havea vigore
     Di guidar per un’hora il solar raggio.
     Il freno ad altra poi dava, e l’ardore
     Co ’l nervo, onde à gli augei far suole oltraggio:
     E mentre dava l’una il censo al giorno,
     L’altre se ’n gian volando al carro intorno.

Hor come il padre mio da l’alto scorge
     Un fanciullo si nobile, e si bello,
     La diurna facella à l’Hore porge,
     E scende à lui vicin per me’ vedello.
     Hiacinto de lo Dio biondo s’accorge,
     Che ’l tempo brameria passar con ello,
     E cortese ver lui si mostra, e rende,
     E fa, che ’l suo parlar giocondo intende.

Quanto più il raggio Apollo in lui tien fiso,
     Tanto gli par più bello, e più giocondo,
     Loda il divin suo spirto, ammira il viso,
     Stupisce del parlar dolce, e facondo.
     E lascia dal suo preside diviso
     Quel tempio, ch’egli ha in Delfo in mezzo al mondo.
     Tanto l’alletta il volto, e ’l bel costume
     Di quel, per cui lasciato ha ’l carro, e ’l lume.

Cerca co ’l bel garzon d’Eurota il lito,
     Et ovunque s’invia, gli è sempre appresso,
     E danno intrambidui nel nobil sito
     Di Sparta à gli animai la caccia spesso.
     Del suo bel lume il mio padre invaghito
     Si scorda totalmente di se stesso.
     Porta le reti, e tiene i cani al varco,
     Et usa indegnamente il plettro, e l’arco.