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decimo. 176

V’andò il funebre anchora alto Cipresso,
     Che in forma di obilisco ha l’alta cima,
     C’hoggi è una pianta, e fu un fanciullo anch’esso
     E cangiò il volto human non molto prima.
     Fù Ciparisso à Cea dal ciel concesso
     Si bel, quant’altri mai godè quel clima.
     E fu grato à quel Dio, che l’ombre arretra,
     Ch’opra sì bene hor l’arco, hora la cetra.

Un cervo già ne l’isola di Cea
     D’oro il forbito alzò ramoso corno,
     Sacro à la bella Driada, à la Napea,
     A cui la detta patria era soggiorno.
     E la montana, e la silvestre Dea
     Gli havean d’un bel monile il collo adorno,
     Gli ornar l’orecchie anchor di perle, e d’oro
     Con raro, e sottilissimo lavoro.

D’un bel gemmato cor gli ornar la fronte,
     Da bei legami d’or sospeso, e stretto.
     Ne sol correa sicuro il piano, e ’l monte,
     Ma gia per la città senza sospetto.
     Solea prender da ogn’uno il cibo, e ’l fonte;
     Ogn’un potea palpargli il collo, e ’l petto.
     Al cenno di ciascun solea gir presso,
     Et ad ogni stranier creder se stesso.

Ma più di tutti gli altri era à te grato
     Leggiadro Ciparisso adorno, e bello.
     Tu ’l menavi hora al fonte, et hora al prato,
     Et hora al cibo human nel patrio ostello.
     Tu di fiori, e ghirlande il volto ornato
     Talhora al tergo suo premevi il vello:
     Tu fatto cavalier sopra il suo dorso
     Con fren di seta à lui reggevi il corso.

Nel tempo era, che ’l Sole al Cancro ardea
     Co ’l più cocente ardor le curve braccia,
     E l’ombra de le cose à punto havea
     Dritto à Settentrion volta la faccia;
     E ’l cervo al fresco à l’ombra si giacea,
     E ’l bel garzon di lui seguia la traccia;
     Quando ad un alto faggio alzando il lume,
     Vi scorse un grande augel posar le piume.

L’arco allentato curva, e ’l nervo tira
     Tanto alto, che le tacche al legno afferra.
     Lo strale incocca, e poi prende la mira
     Là ’ve fra l’ali sue l’augel si serra.
     Fà poi, che ’l pugno manco al cielo aspira,
     E ’l destro tira il nervo in ver la terra.
     Vola à ferir l’ambitioso telo,
     Fugge l’augel, và il dardo irato al cielo.

Co ’l moto violento la saetta
     Và tanto verso il ciel, che non si vede.
     Il moto natural poi giù l’affretta
     A quietar ne la terrena sede:
     E dove l’ombra il miser cervo alletta,
     Cade con furia à piombo, e in parte il fiede,
     Che ’l misero mortal ne geme, e langue,
     E in breve manda l’alma co ’l sangue.

Tosto, che Ciparisso il dardo scorge
     Cader su ’l miser cervo, aspro, e mortale,
     E de la morte subita s’accorge,
     C’ha dato al viver suo l’iniquo strale;
     In preda al pianto misero si porge,
     Et à le strida al ciel fa batter l’ale.
     Febo il consola, e prova, ch’un vil danno
     Non merta tanto duol, ne tanto affanno.

Pur ogni suo argomento, ogni conforto,
     È scarsa medicina al duolo interno.
     Piange abbracciando spesso il corpo morto,
     Poi manda questi preghi al ciel superno.
     Poi ch’io fei co ’l mio strale al cervo torto,
     Fa Re del cielo il mio lamento eterno.
     Gli cangian gli alti Dei la carnal soma,
     E fan, ch’egli alza al ciel l’horrida chioma.

Con la radice al suolo il piè s’apprende,
     E ’l busto tondo vien dritto, et acuto.
     Altissima la cima al cielo ascende,
     Co ’l sempre verde crin folto, et hirsuto.
     Tosto, che ’l biondo Dio gli occhi v’intende
     Gli da piangendo l’ultimo saluto.
     Piangerai gli altri poi (dice) altrettanto,
     Essendo ogn’hor presente al duolo, e al pianto.