La via del male/XV
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XV.
Spinto dal suo destino Pietro rientrò in casa Noina. Da giorni e giorni egli combatteva contro l’ossessione di riveder Maria sposa, Maria irreparabilmente perduta per lui. Perchè? Neppure lui lo sapeva. Così, per disperazione.
Egli ora viveva presso le sue vecchie zie e lavorava nel loro piccolo podere. La mattina delle nozze di Maria si svegliò prestissimo e si mise a lavorare con più ardore del solito; ma il suo pensiero volava lontano, penetrava nella casa degli sposi, li accompagnava alla cerimonia. Egli vedeva Maria vestita da sposa; vedeva Francesco sorriderle; seguiva il corteo rumoroso e lieto. Maria splendeva di bellezza, Francesco di felicità. Ed egli... egli era là, curvo sulla terra che alle prime carezze primaverili s’adornava come una sposa; egli era là, solo, schiavo tradito e dimenticato...
Un sudore freddo gli bagnava la nuca; le tempia gli pulsavano; il desiderio di ritornare in paese e di recarsi in casa degli sposi lo vinceva come una suggestione maligna.
— Ho la febbre, non posso più lavorare, — disse frà sè, per scusare la sua debolezza. Si tastò il polso, s’asciugò il sudore; poi s’avviò. Ma giunto a Nuoro, invece di coricarsi si lavò, indossò il costume delle feste e si diresse al luogo fatale. Un impulso cieco lo spingeva: egli s’avviava verso la casa del Noina come l’assassino ritorna nel luogo ove ha commesso il delitto.
Arrivato davanti al portone esitò ancora un momento, poi scosse la testa col suo solito gesto sprezzante ed entrò; ma si fermò sotto la tettoia. Era circa la una: il sole inondava il cortile; dalla cucina usciva un acuto odore di carni arrostite e di caffè tostato. S’udivano risate, tintinnii di bicchieri, tutto il chiasso del banchetto nuziale.
Pietro guardava verso la loggia con occhi ardenti. Doveva salire? Doveva entrare in cucina, sedersi al suo posto di servo? I ricordi gli affluivano al cuore, con impeto angoscioso; per un momento egli rivisse nel passato, ricordò il primo convegno d’amore, e strinse i denti quasi per reprimere un grido di rabbia e di dolore.
Una donna apparve solla porta della cucina, con in mano un gran piatto bianco che scintillò al sole.
— Oh, Pietro, — ella salutò gaiamente, — buon giorno. Vieni avanti. Vieni su.
— C’è molta gente? — egli domandò, attraversando il cortile.
— Non tanta. Vieni: zio Nicola sarà contento di vederti!
Egli la seguì su per la scala.
— Guardate chi viene, — disse la donna, entrando nella stanza del banchetto. E tutti lo guardarono. Egli si toccò la berretta, poi s’avvicinò a zio Nicola e gli mise una mano sulla spalla.
Il padrone, già mezzo brillo, si scostò e fece sedere Pietro accanto a lui; poi gli pose un piatto davanti e gli disse qualche parola.
Pietro non capì: non vedeva, non udiva nulla; gli pareva d’esser penetrato in un luogo sconosciuto, tra una folla di ignoti, e sentiva solo il battito del suo cuore. Ma a poco a poco si calmò: vide davanti a sè il piatto, lo respinse e poi si guardò attorno.
I convitati erano circa una trentina fra uomini e donne: sedevano intorno a tavole apparecchiate alla buona, con piatti variopinti e bicchieri di diverse forme, certo prestati gentilmente da qualche famiglia amica.
Gli sposi mangiavano nello stesso piatto, seguendo l’uso nuziale sardo, e Francesco serviva Maria con esagerata premura.
Ella aveva smesso il costume da sposa, ma sotto il bustino di broccato conservava la splendida camicia ricamata; un fazzoletto scuro, dipinto di rose e di giacinti, le avvolgeva la testa. Era bellissima, e Francesco, ebbro d’amore e anche un po’ di vino, pareva non vedesse altro che lei, sordo alle chiacchiere e alle grida dei convitati. Parve non accorgersi dell’arrivo di Pietro: anche Maria non battè palpebra, non smise di sorridere.
— Ella non mi vede neppure: perchè son venuto? — si domandò Pietro.
— Eh, sei ancora bianco come una donnicciuola, — gli disse zio Nicola, rimettendogli il piatto davanti. — Il carcere ti ha fatto diventar bello! Ma perchè diavolo non vuoi mangiare?
— Ho già mangiato. Ah, son diventato bello, dunque? Meglio: così le donne mi verranno dietro ancor più di prima...
— Ah, donnajuolo! — gridò zio Nicola: — ora mi alzo e ti bastono.
Maria volse rapidamente gli occhi in giro, guardò per un attimo il viso ridente di Pietro, poi abbassò le palpebre e si curvò sul suo piatto.
— Egli non pensa più a me: è venuto per farmelo capire. Va bene, — pensò; ma non seppe perchè aggrottò le sopracciglia.
La mano ardente di Francesco si posò sulla sua; ella sollevò la testa e rise, egli le cinse la vita col braccio...
Pietro ora non poteva staccare gli occhi da loro: ah, ecco, la visione intraveduta e respinta nei momenti più acerbi della sua disperazione, era diventata realtà; quello che un giorno gli pareva impossibile persino in sogno, ora accadeva davanti ai suoi occhi.
Dunque era vero? Tutto era finito per lui; tutto, tutto era passato... Ed egli non reagiva? A momenti sentiva ancora entro le orecchie quel rombo lontano che pareva un galoppo sfrenato di cavalli, e un velo sanguigno gli cadeva sugli occhi.
Ma solo Sabina badava a lui, e s’accorgeva dello sguardo selvaggio che egli rivolgeva agli sposi. Pallida, quasi sofferente, ella non nascondeva la sua ansia e la sua delusione. Aveva atteso Pietro; l’aveva sentito venire; ma ora s’accorgeva che egli era venuto per disperazione.
— È finita, — pensava anche lei, — non c’è più speranza. Egli l’ama sempre e neppure si accorge di me. Come la guarda! I suoi occhi sembrano di vitriolo: mi fanno paura.
— Che hai, cuore mio? — le chiese un giovinetto. — Perchè sei così pallida? Che hai veduto?
Ella alzò le spalle: il giovinotto girò lo sguardo attorno, ma non vide che volti sorridenti e rosei.
La festa era al colmo; tutti ridevano e parlavano, con le labbra lucenti di grasso, gli occhi lustri, le mani sollevate; barzellette amene, frasi equivoche guizzavano da un capo all’altro della mensa; qualcuno imprecava.
Ritto accanto alla sposa, col volto color rame a metà lumeggiato da un raggio di sole, un pastore alto, dai capelli rossastri e la barba selvaggia, tagliava destramente a piccoli pezzi un bel porchetto arrostito. Il coltello a serramanico, che il pastore aveva tratto dalla sua saccoccia, e quasi spariva nella sua mano nodosa enorme, trovava ogni giuntura, tagliava ogni nervo, scorreva scricchiolando sulla crosta rossa del porchetto. Quando questo fu trinciato, il pastore si leccò con disinvoltura le dita, pulì il coltello col tovagliuolo, poi sospirò e si guardò attorno soddisfatto.
Qualche invitato lo applaudì. Lo sposo si rivolse a guardarlo e gridò, in lingua italiana:
— Ma bravo! Bravo, compare; se il re fosse qui presente vi eleggerebbe scalco dei suoi gatti.
Tutti risero, fuorchè Sabina per dolore, zia Luisa per decoro e Maria per dispetto; sì, ella cominciava a stizzirsi nel veder Francesco bere un po’ troppo. Pietro ne avrebbe certamente riso.
Il largo piatto col porchetto fece il giro della tavola; e Francesco, frugandovi a lungo, procurò per Maria i rognoni che tagliò a pezzetti e coprì di sale.
La sposa respinse con grazia la forchetta che Francesco le porgeva.
— Non ho voglia: basta.
Ma egli le mise in bocca un pezzetto di rognone: ella dovette mangiarlo, ma si stizzì alquanto.
— Va, lasciami in pace!
— Maria, ti ho offeso? — egli le chiese, fingendo un grave dispiacere. — Maria!...
— Eh, non piangere per questo! Piuttosto... — ella mormorò, rattenendo la mano ch’egli tendeva verso il bicchiere, — mi farai il piacere di non bere oltre...
— Ah, tu hai paura che m’addormenti? — egli disse, guardandola maliziosamente. — Ebbene, no, non berrò più. Più, per oggi, più, più!
E mise la sua mano su quella di lei, e non volle più mangiare nè bere, ma aveva già bevuto abbastanza, e i suoi occhi si socchiudevano, appannati dal vino e dal desiderio.
A un tratto si sollevò e disse in italiano:
— Evviva l’amore! — e baciò prima una vecchia parente sedutagli accanto, poi Maria.
Di nuovo tutti risero e applaudirono.
— Com’è allegro quel Francesco; un mattacchione, — disse zia Luisa alla sua vicina di tavola.
Pietro guardava Maria, e Sabina guardava Pietro: entrambi pallidi e cupi, parevano, davanti a quella mensa i cui vini e le vivande succulenti avevano colorito persino il viso scialbo di zia Luisa, due spettri convenuti al banchetto per portarvi il malaugurio. Ma i convitati non badavano a loro: Pietro usciva dal carcere, Sabina era una povera servente malaticcia; chi poteva occuparsi della loro tristezza? L’allegria degli altri aumentava; i piatti delle vivande si seguivano, facevano il giro della tavola, sparivano senza che alcuno pensasse più a servirsi; le parenti di Francesco, che contavano le portate, fecero scorrere due volte tutte le dita delle mani: sì, venti portate, non c’era male.
Ecco finalmente il caffè ed i liquori; le donne che servivano a tavola si fermarono dietro lo sedie degli invitati, e presero parte alla conversazione. Ed ecco, ad un tratto; un giovane istranzu, cioè d’un paese vicino, si alzò, col bicchiere in mano. Tutti aspettarono un brindisi, ma il giovinotto sollevò il bicchiere, mosse la mano sinistra con la punta dell’indice e quella del pollice unite, e cominciò a declamare una strofa del poema: Su triunfu d'Eleonora d'Arborea, di un poeta sardo:
Cando s’amore cun sas frizzas d’oro
Sa prima olta m’hat fertu su sinu...
— Che matto, — disse Maria, nascondendo il viso nel tovagliuolo, per non lasciarsi scorgere a ridere. — È ubbriaco.
Zio Nicola s’alzò, fece un cenno al giovane istranzu, e questo tacque. Allora il padre della sposa sedette a cavalcioni sulla sua sedia, battè il bastone sulla tavola, e cominciò la disputa nuziale. Invitò i poeti presenti a rispondergli, poi fece un brindisi agli sposi e inneggiò al «santo matrimonio e alle sue gioie».
Rispose un giovine poeta estemporaneo, assai noto per le sue belle improvvisate. Egli cominciò a lodare le bellezze della sposa e le virtù dello sposo; zio Nicola mise una mano sull’orecchia e stette ad ascoltare, preparandosi a rispondere.
Dalla porta spalancata penetrava il sole al declino; si scorgevano sul cielo intensamente azzurro gruppi di nuvolette bianche che salivano lente sull’orizzonte, come agnellini su per una china, e davano al pomeriggio una dolcezza, una calma soave.
A poco a poco i commensali, annoiati dalla disputa dei poeti estemporanei, si alzarono e scesero nel cortile. A tavola rimasero solo i cantadores, due vecchi contadini e un fanciullo, Pietro e un giovine proprietario.
Questi due ultimi parlavano a voce bassa, senza por mente ai poeti.
— Sì, — diceva Pietro. — ho un piccolo capitale e tra poco comprerò dei buoi che rivenderò. Ho anche un socio, un proprietario assai ricco; hai tu qualche coppia di buoi da vendere?
Il possidente non si meravigliava che l’ex-servo possedesse un «piccolo capitale». Pietro non aveva famiglia da mantenere e la sua vecchia zia era da tutti creduta una donna denarosa nonostante la sua apparente miseria.
— Sì, - ho da vendere parecchie coppie di buoi e di giovenche, — rispose il proprietario.
— Vedremo, — disse Pietro, pensieroso. — in aprile forse non avremo tutto il denaro necessario, ma combineremo lo stesso. Dove hai le vacche?
— Nella Serra. Come si chiama il tuo socio?
— Giovanni Antine: un giovane svelto.
— Diavolo, lo conosco! Ma ora è in carcere.
— Oh, per cosa da niente: ha bastonato una guardia daziaria, — disse subito Pietro. — Ma uscirà a giorni.
— Così, tua zia ha scovato l’acchisorju1, — esclamò l’altro. — Diventerai ricco, Pietro. Te l’auguro perchè lo meriti.
— Grazie, — disse Pietro, — ma, credi pure, io non ho trovato alcun acchisorju: son quindici anni che faccio il servo, ed ho risparmiato qualche cosa: ecco tutto.
Egli mentiva, e non sapeva perchè; ad un tratto s’alzò, rise, gli parve d’esser diventato allegro.
— Andiamo giù anche noi, — propose.
Affacciandosi sulla scala vide che nel cortile gli invitati ballavano il ballo sardo. Seduta sui gradini della scala, una bella fanciulla in costume suonava la fisarmonica e guardava il circolo dei ballerini che saltellavano tenendosi per mano.
Ma quando Pietro e il giovane proprietario scesero nel cortile, la suonatrice rallentò le note, sollevò il mento roseo che teneva appoggiato alla fisarmonica, e gridò:
— Ohè, chi suona, ora? Voglio ballare anch’io.
— Continua, Paska; ballerai poi, — la supplicarono; ma ella si alzò, depose lo strumento sul gradino, e afferrò la mano del giovane proprietario; poi si unì con lui al circolo dei ballerini, e cominciò a saltellare.
Allora Sabina sollevò gli occhi tristi e guardò Pietro.
— Un tempo tu sapevi suonare, — gli disse con serietà. — Suona, Pietro.
Pareva gli domandasse un favore molto triste; ma egli neppure rispose.
— Suona, Pietro Benu; ti fa male la pancia che sei così di malumore? — gridò il giovine istranzu ubbriaco.
— Non so suonare, — egli rispose allora, infastidito.
— Ebbene, al diavolo la fisarmonica: cantiamo, — propose un ballerino anziano, un bell’uomo roseo dalla lunga barba nera.
— Almeno ballerai, — ardì mormorare Sabina, afferrando la mano di Pietro.
Egli si lasciò trascinare dal circolo saltellante, ma la sua mano senza vita pareva a Sabina la mano di un morto.
Tre giovanotti riuniti nel centro del cortile intonarono a voce il motivo del ballo sardo; la nota del tenore, d’una sonorità selvaggia, pareva venir di lontano, da una foresta primordiale, ove un fauno s’era svegliato cantando. Intorno ai cantori, il circolo dei ballerini animati dalla caratteristica musica vocale, saltava e strisciava, serpeggiante, ora restringendosi, ora allargandosi; qualche giovinotto emetteva di tanto in tanto un grido selvaggio, di gioia un po’ beffarda, e i cantori proseguivano il loro strano:
Bimbaràmbàra mbài, bimbarambòi.
Ma a misura che il sole declinava dietro il portone, e l’ombra invadeva il cortile, gl'invitati diventavano seri e pensierosi; ognuno ricominciava a pensare ai fatti suoi e pareva svegliarsi dall’ebbrezza di quel giorno di nozze. A poco a poco il ballo, i canti, i suoni cessarono; molte persone partirono. Francesco attirò Maria in un cantuccio; sedettero ed egli le prese una mano. Il moto del ballo e la digestione avevano fatto svanire la mezza sbornia dello sposo: ora egli tornava ad esser galante e innamorato, ma coi suoi soliti modi insinuanti e un po’ affettati.
La gente andava e veniva: le giovinette e qualche adolescente si divertivano a stringer patti di fede e d’amicizia (comparia), annodando e snodando sette volte le cocche d’un fazzoletto e stringendosi poi la mano, dandosi del voi e chiamandosi compari e comari; nelle camere di sopra si udiva il tintinnìo dei bicchieri e le voci rauche ed allegre degli amici di zio Nicola, ma nell’angolo ove s’erano ritirati gli sposi, sotto la volta della scala, regnava una pace soave, quasi triste. Il sole era scomparso; l’ombra aveva invaso il cortile; sul cielo limpidissimo si stendevano i primi veli rosei del crepuscolo; non un alito di vento, non un canto di uccello, non una nuvola, turbavano l’armonia melanconica e dolce di quell’ora, e gli sposi si sentivano vagamente turbati. Maria era divenuta un po’ pallida; i suoi occhi sembravano più grandi del solito.
— Ti diverti? — domandò Francesco, palpando con un dito le pietre degli anelli che coprivano le mani di Maria.
— Se non mi diverto oggi, quando potrei divertirmi? — ella disse, con lieve ironia.
Francesco le cinse la vita col braccio, la guardò negli occhi con desiderio ardente. Com’ella era bella così, un po’ languida e stanca, con gli occhi smarriti, rivolti al cielo roseo! No, nessun re della terra poteva esser felice come in quel momento si sentiva felice Francesco Rosana. Egli fremeva lievemente, come l’albero accarezzato dalla brezza; guardava la bocca della sposa e provava la gioia dello assetato che avvicina le labbra allo zampillo della fontana...
Ma ella guardava lontano, ed i suoi occhi splendevano d’una luce vaga, che sembrava il riflesso del cielo e forse era il riflesso d’un sogno triste...
Pietro intanto era risalito nella stanza ove zio Nicola s’ostinava a tentare ancora qualche verso.
— I tempi cambiano, — disse il contadino anziano dai vino roseo e la barba nera. — Un tempo si cantava fino alla mezzanotte, o almeno finchè gli sposi si ritiravano, e si ballava molto, anche. Ora i giovani son fiacchi, la gente è stanca e non ama divertirsi. Le nozze sembrano funerali.
— Ho anche osservato una cosa, — disse il pastore che aveva trinciato il porchetto arrostito. — Un tempo si usava baciare la sposa sulle guancie, e qualche burlone la baciava anche sulla bocca. Ora niente: pare si abbia paura. Nessuno ha baciato Maria.
— Voglio baciarla io, — esclamò il contadino, battendo le mani. — È vero che bisogna baciarla mentre le si fa un dono. Il dono io gliel’ho già fatto, ma il bacio lo voglio ancora...
— Ebbene, se la baci tu la bacio anch’io, — disse il giovine proprietario.
— Francesco Rosana vi romperà le costole.
— Un corno! E che non è usanza antica? Sua madre, quando si sposò, fu baciata da tutti gl’invitati.
— Vuoi farmi un piacere? — disse allora Pietro al giovine possidente. — Devo anch’io regalare una moneta alla sposa: non mi piace darle una carta da dieci lire. Potresti cambiarmela e darmi due scudi d’argento?
— Fai le cose a dovere, perdio! — osservò l’altro. — Mi dispiace, però, non ho gli scudi.
Ma Pietro ebbe un’idea felice; chiamò zia Luisa in disparte e le domandò se poteva cambiargli in argento le dieci lire.
— Se vuoi anche in oro, figlio mio, — disse zia Luisa. - Tutto quello che vuoi.
— Bene, datemi mezzo marengo.
Zia Luisa cambiò il denaro e Pietro tenne entro il pugno la monetina d’oro.
— Andiamo, — disse poi al giovine proprietario. — Addio, zio Nicola.
— Come, te ne vai, Pietro? Bevi almeno.
— Ebbene, date qui.
Egli bevette un bicchiere di vino forte, poi si avviò, seguito dal suo nuovo amico. Nel cortile si fermò un momento, ridendo; sentiva una dolce vertigine, e gli pareva che dentro il suo pugno la monetina d’oro palpitasse forte come cosa viva.
— Addio, zia Luisa, — gridò, mettendo la testa entro la porta di cucina. — Addio, Sabina bella...
— Addio, — rispose Sabina, correndo come una pazza fino al limitare della porta.
Ma quando uscì nel cortile, ella vide una scena strana. Pietro e il compagno s’avvicinavano agli sposi: Francesco, che si era alquanto curvato su Maria, si sollevò e sorrise. Il giovine proprietario disse qualche parola, e si curvò e baciò la sposa sulla fronte.
E subito dopo Pietro l’imitò, ma invece di baciare Maria sulla fronte la baciò sulla guancia, quasi all’angolo della bocca; poi le strinse la mano dandole la moneta d’oro.
Sabina sussultò; le parve di svenire.
I due giovanotti attraversarono il cortile e se ne andarono: Maria mostrava a Francesco la monetina donatale da Pietro; egli sorrideva e diceva scherzando:
— Ah, me l’hanno fatta! Guai però se gli altri cercano d’imitarli!
— Stupido, — pensò Sabina, voltando le spalle agli sposi. — Il bacio di Pietro è stato il bacio di Giuda; e tu sorridi!
⁂
Pietro vagò tutta la sera in compagnia del suo nuovo amico. Andarono nella bettola del «forestiere» e la bella Maria Franzisca li inebbriò di vino e di sguardi provocanti.
Poi il toscano s’avvicinò e sedette vicino a loro.
— Che belle nozze, — disse, col suo linguaggio bizzarro; — come è vero Dio, non se ne vedranno più, in questo vicinato, nozze così di lusso.
— Abbiamo bacialo la sposa, — disse il giovine proprietario. — Io non ci ho trovato nessun gusto, però...
— Ci troverà più gusto lo sposo, — disse la moglie del bettoliere, alla quale il marito volgeva le spalle; e il suo sguardo nero, scintillante, attirava con una specie di fascino magnetico gli occhi di Pietro. Egli taceva e la guardava.
Per la prima volta s’accorse che la giovine donna, della quale soltanto la voce un po’ rauca riusciva sgradevole, rassomigliava a Maria.
E mentre il toscano e il giovine possidente parlavano male di Francesco, burlandosi delle sue maniere affettate, l’ex-servo si alzò e s’avvicinò al banco per pagare.
— Che fai? — gridò l’altro.
— Lascia, — egli rispose. — Hai da cambiarmi cinque lire, Maria Franzisca?
Ella apri il cassetto e disse con intenzione:
— Stanotte mio marito va ad Oliena. Ho messo tutti gli spiccioli nella sua borsa.
Pietro s’era curvato sul banco e quando ella si sollevò le fece un cenno cogli occhi. Ella contava gli spiccioli e fece cenno di sì.
Fino a tarda sera Pietro e il compagno vagarono per le bettole; poi l’ex-servo incontrò altri suoi conoscenti e tutti assieme andarono a cantare davanti alle porte delle fanciulle, delle quali più o meno erano innamorati. La notte era dolce, tiepida. Pietro, ubbriaco, pensava sempre agli sposi e per stordirsi cantava, e di tanto in tanto si sfogava con quel grido caratteristico, col quale talvolta i paesani nuoresi vogliono esprimere la loro gioia. Ma sembrava un urlo di angoscia dispettosa.
Tutta la notte egli fece baldoria.
Maria Franzisca lo attese a lungo, e quando egli arrivò ed ella lo accolse ubbriaco fra le sue braccia, lo sentì gemere e lamentarsi come un malato.
- ↑ Tesoro.