La via del male/XVI
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XVI.
Passarono due mesi.
In casa Noina tutto era rientrato nell’ordine e nella pace di prima; le rendite s’erano triplicate: zia Luisa scoppiava di pinguedine e di boria; anche Maria ingrassava e pareva felice. Ora ella non andava più scalza e non accudiva alle più basse faccende domestiche: era diventata quasi una signora. Aveva una fantesca svelta e diligente; altre donne venivano a lavorare in casa, quando si doveva preparare il pane d’orzo per i servi di Francesco. Nel cassetto del canterano Maria conservava una scatola colma di biglietti di banca e un piccolo cestino di monete; tutte le donne dei principali nuoresi la guardavano con invidia quando la domenica ella si recava, splendidamente vestita, alla messa di mezzogiorno. Insomma tutti i suoi sogni s’erano avverati.
Francesco, sempre più innamorato, la circondava di cure e di adorazione, cortese fino alla noia.
Nelle belle giornate di primavera gli sposi montavano sulla magnifica cavalla bianca, che già li aveva ricondotti dal monte Gonare a Nuoro, e visitavano l’oliveto, la vigna, l’ovile di Francesco.
Nell’ovile, anzi, avevano divisato di passarci tutto il mese di maggio, come usano molti pastori nuoresi allorchè si sposano.
Francesco veramente non era un pastore: era un possidente ed aveva una discreta rendita; ma siccome il bestiame e i pascoli (tancas) rappresentavano la sua più grossa proprietà, egli passava buona parte del suo tempo nell’ovile, coi suoi pastori, i suoi cani, le belle vacche alte e fiorenti che lo riconoscevano e che pareva lo amassero in modo speciale. Anch’egli le amava, le chiamava con nomi poetici, le accarezzava, s’accorgeva se stavano più o meno bene.
Queste vacche pascolavano liberamente tutto l’anno nelle ubertose tancas di Francesco; si abbeveravano nell’acqua corrente d’un ruscello, meriggiavano sotto i boschetti di quercie millenarie, e la sera si ritiravano entro una mandria circondata di siepi. Nessun riparo per l’inverno: durante le lunghe nevicate i pastori nutrivano il bestiame con la sida, cioè con le fronde e le foglie della quercia.
Maria battè infantilmente le mani alla proposta di passare il maggio nell’ovile, tanto più che cominciava ad annoiarsi della sua vita sfaccendata di sposa ricca.
— Sono troppo felice, ho fin quasi paura — pensava, mentre trapuntava una collana1 per il suo Francesco, con una pazienza ed un’abilità da Aragne. — Non mi manca niente. Mio padre ora sta bene, mia madre anche: entrambi vanno d’accordo ed amano Francesco come un loro figlio. Tutto va bene; l’annata si promette buona, abbiamo provviste e denari, non siamo tormentati nè da liti, nè da inimicizie. Tutti ci vogliono bene. Anche quel disgraziato non s’è fatto più vivo; mi ha dimenticata, non pensa più a me. Sia iodato Iddio.
Ella ricamava, seduta all'ombra del portone: zia Luisa e la serva lavoravano in cucina, Francesco era in campagna, zio Nicola nella bettola.
La casa dei Noina, più che mai tranquilla e sicura come una piccola fortezza, dominava sul povero vicinato, nelle cui viuzze l’erba cresceva fresca ed alta, nei cui cortiletti, invasi dalla farinella, dal giusquiamo e dalle euforbie, i pergolati e le siepi fiorivano con la melanconica poesia delle cose umili e selvagge.
— Una sola cosa manca. — pensava la giovine sposa, sollevando la testa per infilare l'ago; — ma verrà anche quella! È presto ancora: due mesi appena! Verrà, verrà...
E provava un impeto di gioia al pensiero di poter presto diventar madre.
— Senza figli, Maria Santissima, a che serve la vita, il benessere, il denaro?
Ah, senza confessarlo apertamente, ella finiva con dire a sè stessa che qualche cosa le mancava: la scatola dei biglietti, il cestino delle monete, le vesti di lusso, i servi, l’invidia delle donne della sua classe, non bastavano dunque a riempire la sua vita.
E l’amore dello sposo, dunque?
— Mi vuoi bene, Maria? — egli le domandava, nei momenti della sua più ardente adorazione. — Sei contenta, sei felice come sono felice io?
— Sì, sì, — ella rispondeva.
— Non hai voluto bene ad altri uomini?
— Mai ad altri, — ella affermava, ed i suoi occhi si appannavano.
Una statua si sarebbe commossa più di lei alle carezze dello sposo: ma lo sposo l’amava, la voleva appunto così, pudica e ignara, con gli occhi appannati, quasi coperti da un velo di pudore.
⁂
Una mattina di maggio i due sposi montarono dunque a cavallo e presero la via dell’ovile.
Era la stessa strada, i medesimi luoghi da loro attraversati pochi mesi prima nel recarsi al monte Gonare. Ora però le campagne, inondate di sole, si stendevano verdi e fiorite; sulla pianura, arsa d’estate e pantanosa d’inverno, ondulava alla brezza una vegetazione selvaggia, un mare d’erbe alte, di cardi dal verde argenteo, di asfodeli dai fiori lucenti di rugiada; le ferule innalzavano i loro ombrelli diafani; manti di fiori rosei coprivano le macchie; il puleggio e la rosa selvatica imbalsamavano l’aria tiepida e pura.
Le montagne lontane circondavano il panorama come d’un immenso diadema di zaffiro, più azzurro del cielo stesso.
Maseda2, la cavalla, procedeva tranquilla per i sentieri aperti fra l’erba delle tancas; benchè non fosse tormentata da mosche, si sbatteva la coda ora su un fianco, ora sull’altro, annusando l’erba ogni volta che Francesco rallentava il freno. Pareva sentisse la gioia della bella giornata, il piacere dell’aria libera: quando attraversava qualche piccolo corso d’acqua, vicino al quale i narcisi e la menta esalavano un profumo eccitante, apriva le narici e fremeva tutta; e rispondeva con un nitrito se qualche vacca affacciava il muso bianco e nero sulla muriccia della tanca e muggiva bonariamente.
Maria, abbandonata sulle spalle di Francesco, si lasciava cullare dal passo tranquillo e cadenzato della cavalla, e provava una dolcezza quasi triste; il tepore del sole, il profumo delle erbe, e tutto quel fascino di solitudine e d’azzurro, le davano un torpore voluttuoso di sogno.
Tra le fratte coperte di rose selvatiche ella udiva gli uccelli trillare d’amore, le vacche muggire, qualche mosca iridata ronzare ebbra di sole e di miele; vedeva le piccole farfalle diafane, verdi e rosse, nere e violacee, che parevano nate dai fiori, incrociarsi e amarsi pazzamente per l’aria; e un filtro d’amore, un desiderio indistinto la illanguidiva tutta. Eppure la stretta ardente della mano di Francesco non riusciva a far divampare il fuoco del desiderio che le covava entro il cuore; s’egli si fosse voltato e l’avesse baciata, ella avrebbe pianto di tristezza.
Ma finalmente giunsero all’ovile: Maria si scosse, scivolò svelta dalla groppa di Maseda, e guardò se il sudore della cavalla le aveva macchiato la sottana.
— Mi pare d’aver dormito, — disse, facendo qualche passo per sgranchirsi le gambe.
Francesco si mise ad armacollo il fucile che aveva sempre tenuto sul davanti della sella, e fischiò per avvertire del loro arrivo il pastore.
Ben presto giunsero, saltando ed abbaiando, i cani dell’ovile, e tutta la tanca, poco prima silenziosa, risuonò di voci amiche. Le giovenche muggivano, quasi indovinando l’arrivo del padrone; i cani degli ovili vicini rispondevano all’abbaiare dei cani di Francesco; i pastori accorrevano.
Maria s’avviò verso la capanna.
La vasta tanca era chiusa da muricce assiepate; al nord s’elevavano grandi roccie, al di là delle quali, coperto da alti rovi e da quercie selvaggie, insinuavasi un sentiero che pareva un antro.
La capanna e le mandrie, fatte con muri a secco e coperte di rami e di frasche, sorgevano quasi nel centro della tanca, addossate ad una roccia e circondate da una breve radura.
Maria si curvò per entrare nella capanna, della quale conosceva già l’interno. Una pietra fissata al suolo serviva da focolare; qualche primitivo sgabello di ferula, fatto dai pastori, formava tutto il mobilio dell’abitazione preistorica.
Sopra un’asse disposta sotto il tetto di frasche, stavano le provviste del pastore; dai rami sporgenti pendevano vasi di sughero col manico di legno pieghevole, ed altri arnesi necessari per la confezione del formaggio e della ricotta; qualche tagliere di legno, qualche spiedo, unghie di pecora ridotte a cucchiai, formavano le masserizie dell’abitazione ove gli sposi volevano veder tramontare la loro luna di miele.
Maria guardò e frugò in ogni angolo; mise tutto in ordine, poi sedette su uno sgabello, finchè arrivò il servo pastore, verso il quale ella nutriva un’istintiva antipatia.
Era un grosso e rozzo giovanotto dal nome duro: Zizzu Croca, e dal nomignolo poco rassicurante: Turulia3 — una figura da uomo primordiale, con grossi occhi azzurri iniettati di sangue, in un viso nero, arso e aquilino d’arabo: la mastrucca, sopragiacca di pelle lanosa, completava il suo aspetto d’uomo selvaggio.
Nonostante questo aspetto, Zizzu Croca aveva maniere garbate ed una voce dolce, quasi femminile.
— Lasciate fare a me, — disse, poichè Maria e Francesco si preoccupavano per il giaciglio, — vi farò un letto più bello del vostro letto di sposi. Io dormirò fuori, sotto la siepe, o costruirò un’altra capanna: qui, in quest’angolo, faremo un bel giaciglio di felci, sulle quali stenderemo il materasso, i cuscini e le coperte che arriveranno da Nuoro.
Infatti s’avviò verso il ruscello, sulle cui rive le felci spiegavano i loro ventagli dentellati, ne falciò un mucchio e prima di portarle nella capanna lasciò che il sole ne assorbisse la rugiada.
Verso mezzogiorno arrivò il servo con un carro carico di roba: materassi, cuscini, coperte, provviste.
Maria mise in ordine ogni cosa; poi i due sposi se ne andarono a veder le vacche e a visitare tutta la tanca. Il sole quasi ardente inondava i pascoli; le alte quercie scintillavano; i prati coperti di reseda e di ranuncoli parevano spruzzati d’oro; ogni cosa brillava nella luminosità di quel limpido e silenzioso meriggio. Le locustelle saltellavano sui rovi fioriti; farfalle in colore dei fiori, insetti in colore dell’erba, animavano la solitudine divina del bosco, nei cui ceruli sfondi, dietro le roccie e i muricciuoli verdi di musco, il cielo pareva un mare lontano: un mare di sogni.
Francesco Rosana aveva un sentimento istintivo della natura. Col suo modo d’esprimersi un po’ affettato, diceva alla sua giovine sposa, cingendole la vita col braccio, e guardandola con occhi amorosi:
— Una volta ho visto una Bibbia con le figure colorate: c’era il paradiso terrestre con alti alberi e campi fioriti, così come in questa tanca. Adamo ed Eva camminavano sull’erba; ecco, mi pare che anche noi siamo nel paradiso terrestre. Quante volte ti ho desiderata, qui, quando ero scapolo. Ah, vedi, mi pare un sogno ora...
E la stringeva a sè, quasi pauroso di vederla sparire. Ella lo lasciava fare, calma e sorridente come una dea; e passava calpestando i fiorellini e gli insetti, e strappando le rose selvatiche che le sfioravano la mano.
E le giovenche bianche macchiate di nero, i tori rossi dai grandi occhi umidi e come sognanti, i vitellini color caffè-latte, dal muso roseo e le corna nascenti, volgevano lentamente il capo e scuotevano la coda, quasi salutando i loro giovani padroni.
⁂
Anche Maria si sentiva contenta di quella vita idilliaca, e avrebbe voluto che quel maggio durasse eternamente.
Si levava all’alba, quando le cime delle quercie rabbrividivano alla brezza, inargentate dal riflesso del cielo chiaro, e assisteva con Francesco al mungere delle vacche e alla confezione del formaggio, aiutando i pastori a versare il latte ed a preparare i recipienti. Le vacche uscivano una dopo l’altra dalle mandrie, e si fermavano vicine al pastore quando Francesco le chiamava per nome. Dalle grandi mammelle rosee il latte pioveva tiepido e fumante entro il paiuolo di rame o nei recipienti di sughero.
Attraverso la siepe i vitelli guardavano curiosi, coi grandi occhi attenti, e dall’estremità della radura gli alti steli dell’avena, le ombrelle della ferula, gli occhi d’oro dei ranuncoli, cosparsi di rugiada, pareva guardassero, commossi e frementi, quella funzione così sacra e solenne nella sua semplicità primitiva.
Più tardi Maria passava nuovamente al fuoco il formaggio, dopo averlo lasciato alquanto fermentare, e lo riduceva a caciuole in forma di pera. Ella era molto graziosa quando sbrigava questa faccenda: rimboccava le maniche della camicia fino al gomito, ripiegava sulla sommità del capo i lembi del fazzoletto, in modo che si scorgevano i suoi pendenti di corallo, si ripiegava sul focolare acceso e rimescolava destramente il formaggio entro la casseruola di rame. E quando il cacio diventava tutto una pasta elastica e giallognola, ella lo estraeva, lo metteva entro un piatto concavo, gli dava, lisciandolo con le mani bagnate, la forma di una grossa pera e lo gettava nell’acqua fresca; poi ne cominciava subito un altro.
Francesco ed il pastore eseguivano anch’essi, col cacio così ridotto, graziosi formaggelli in forma di animaletti, piccole vacche, cinghiali, cervi, ed anche treccie e statuine che parevano idoletti indigeni, e microscopici cavallini con sella e briglia e relativo cavaliere.
Questi giocattoli mangiabili venivano poi da zia Luisa regalati ai bambini degli amici e dei parenti. Francesco provava un certo gusto nell’eseguirli.
Maria preparava il pranzo, ed il pastore veniva ammesso alla mensa patriarcale dei padroni; il più delle volle pranzavano all’aperto, sotto una quercia, e dopo il pasto i due sposi vagavano per la tanca, visitavano gli ovili vicini, talvolta si spingevano fino alla chiesetta dello Spirito Santo, solitaria e nera come una roccia tra il verde dei campi silenziosi.
Se non si allontanavano dal loro ovile, Maria e Francesco meriggiavano nel bosco, e talvolta finivano coll’addormentarsi sotto le quercie scosse dalla brezza e indorate dal sole, sopra un letto di fieno o di margherite, davanti a quegli sfondi così azzurri e luminosi che davano l’illusione di un mare lontano.
Quando si svegliava Maria preparava il caffè, poi sedeva davanti alla capanna, all’ombra della roccia, e trapuntava una camicia, mentre Francesco leggeva un numero arretrato della Nuova Sardegna, o il poema sardo «Su Triunfu d’Eleonora d’Arborea» del poeta Dore di Posada.
La solitudine era dolce e profonda; i cani sonnecchiavano; sul prato, in fondo alla radura, i vitellini si rincorrevano e giocavano; s’udiva qualche fischio, qualche voce lontana; l’ombra delle quercie si allungava sull’erba e il sole declinava con dolcezza infinita.
Verso l’imbrunire Maria preparava la cena; poi, se la sera non era troppo fresca, i due sposi vagavano ancora un po’ qua e là. Qualche lucciola brillava, immobile sull’erba, come un misterioso fiore notturno, e pareva riflettesse lo splendore verdognolo delle prime stelle tremolanti sul cielo ancora violaceo. Tutto taceva e odorava; le estreme foglie delle quercie tremolavano, vicine agli astri; il pastore dalle vesti selvagge, accoccolato davanti alle mandrie, recitava il rosario. Poi i due sposi si raccoglievano nel loro letto di felci, e la notte soave spiegava le sue ali di velo sulla natura addormentata.
⁂
Così i giorni passavano.
Uno dei pastori, il più giovine, un ragazzo malaticcio e silenzioso, recava ogni sera a Nuoro il prodotto giornaliero delle vacche, e la mattina dopo ritornava con le provviste che zia Luisa mandava agli sposi. Ogni giorno zio Nicola mandava a dire che sarebbe presto venuto, ma non arrivava mai.
Nessuno turbava l’idillio primaverile dei due sposi: solo qualche pastore vicino veniva a visitarli e qualche viandante nuorese s’indugiava un momento nel loro ovile. Però Turulia, il pastore anziano, litigava spesso con Francesco per cose da nulla. Con Maria si mostrava affettuoso e premuroso, lamentandosi spesso con lei per la pedanteria e le esigenze del padrone: di notte si accovacciava sotto un riparo di frasche, a pochi passi dalla capanna, e vigilava come un cane.
Una sera, nel ritirare le vacche, Francesco si accorse che ne mancava una. Al solito, una breve questione sorse tra padrone e servo, poi entrambi s’allontanarono per cercare la vacca. Maria rimase per la prima volta sola nell’ovile: Francesco però le aveva promesso di ritornare presto, e por ingannare il tempo ella s’avanzò fino alle roccie che dominavano il sentiero.
La luna illuminava già la tanca; ad occidente il cielo conservava una tinta rossa infocata.
Appoggiata ad una roccia, Maria vedeva ai suoi piedi il viottolo assiepato e più in là un angolo del sentiero che attraversava la tanca limitrofa.
A un tratto le parve di udire i passi di un uomo in fondo al viottolo; credendo fosse Francesco, si sporse alquanto, ma non vide nessuno: i passi cessarono.
— Franziscu? — ella chiamò.
Nessuno rispose. Allora Maria sollevò gli occhi, e guardando di nuovo verso la tanca vicina vide un uomo alto e svelto che attraversava rapidamente il tratto di sentiero che si scorgeva dalla roccia. Ella credette di riconoscerlo, e se un fantasma le fosse apparso in quell’istante non le avrebbe causato più spavento.
Istintivamente si nascose dietro la roccia, e per qualche momento stette immobile, fredda, palpitante; mille confusi pensieri di terrore le passarono nella mente. Che cercava Pietro da quelle parti? Le pareva d’averlo ben riconosciuto; sì, era lui, alto e svelto, con la sua sopragiacca di pelle giallognola; nessun altro paesano nuorese aveva il portamento fiero di Pietro Benu, ed ella poteva ben riconoscerlo anche al chiaro di luna e in lontananza.
Ma dopo un momento ella si scosse, guardò ancora, ascoltò. Niente, nessuno. La pace infinita della notte lunare stendevasi sulle tancas solitarie: all’ombra delle macchie le lucciole verdognole splendevano: fra l’erba i grilli trillavano la loro interminabile serenata.
— No, mi sono ingannata, — pensò Maria; e ritornò verso la capanna.
Una vaga inquietudine la spingeva; accese il lume e preparò tutto per la cena, ma ogni piccolo rumore la turbava.
Francesco non tardò a ritornare.
— Nessuna traccia della vacca, — egli disse, adirato. — Vedrai che non si ritroverà. Ah, la finiremo male con Turulia: egli è veramente un nibbio.
— Che colpa ne ha lui?
— Che colpa? Glielo spiegherò io. Girano certe figure da queste parti!
Maria non osò dire che aveva creduto di veder Pietro.
Francesco le disse:
— Anche ai pastori vicini sono stati, in questi ultimi tempi, rubati tori e vacche. Ci deve essere una vera associazione: banditi e malfattori che se la intendono con qualche servo pastore, e naturalmente anche con questo famoso nibbio...
— Oh, e tu che intendi di fare?
— Lascia che passino questi giorni; quando saremo ritornati in paese vedrai.
Ma a notte alta il servo ritornò con la vacca zoppicante, e disse di averla trovata in fondo ad una perca4.
Altri giorni passarono: da tre settimane gli sposi trascorrevano la loro luna di miele nella pace dell’ovile; zio Nicola era venuto un giorno a trovarli; un altro giorno eran venute le parenti di Francesco.
Il tempo mantenevasi sereno; il cielo conservava quella limpidità luminosa che talvolta, in Sardegna, diventa implacabile e fatale; già l’erba ingialliva, l’acqua dei ruscelli diminuiva sempre più.
Un giorno anche Sabina, in groppa al cavallo del servo giovinetto, venne a trovare gli sposi.
— Ti faccio sapere che ho un pretendente, — disse a Maria. E accorgendosi subito che un’ombra passava negli occhi della giovine sposa, si affrettò a soggiungere: — Sì, lo conosci, è un contadino, Giuseppe Pera: non è bello, ma è buono, ed ha anche qualche po’ di terra al sole. Suo fratello ha l’ovile qui vicino.
— Buona fortuna, allora.
— Non così presto: io non gli voglio bene, — disse Sabina: e se ne andò fra le macchie in cerca di fiori, dai quali succhiava il miele.
Dopo mezzogiorno ella si sdraiò fra l’erba, e nel silenzio profumato del bosco udì gli sposi ridere e baciarsi sotto un albero.
Ricordò i baci di Maria e di Pietro, lassù, fra le distese di grano maturo, nel silenzio dell’altipiano, e fremette.
Spezzò coi denti uno stelo d’avena e pensò a Pietro: ella lo amava sempre, lo amava più che mai; perchè egli non ritornava a lei, ora che Maria dava i suoi baci ad un altro?