La tempesta (Shakespeare-Rusconi)/Atto primo
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LA TEMPESTA
ATTO PRIMO
SCENA I.
La scena è sopra un vascello in mare sbattuto dalla tempesta. Frequenti lampi e tuoni accrescono il terrore dei naviganti.
Entrano il Capitano del vascello e il Boatswain.
Cap. Boatswain!...
Boat. Eccomi, capitano: qual salute?
Cap. Alla buon’ora: parlate a’ marinai; fate che navighino di fianco; sollevate il trinchetto: all’opera, all’opera; o romperem sugli scogli. (esce ed entrano alcuni marinai)
Boat. A me, compagni, a me: raccogliete le vele: nudate gli alberi; attendete al fischio del capitano. Coraggio, coraggio; lottate colla bufera: e tu, soffia, tempesta: e prorompi, se il vuoi, purchè ne dii campo d’agire. (entrano Alonso, Sebastiano, Antonio, Ferdinando, Gonzalo, ed altri)
Al. Buon sorvegliante, abbiate cura. Dov’è il capitano? Su, su, marinai.
Boat. Rimanetevi sotto coperta, ve ne prego.
Ant. Dov’è il capitano, Boatswain?
Boat. Forsechè non l’udite? Ma qui ne fate impaccio; tornate alle vostre stanze; non cooperate in pro della tempesta.
Gonz. Siate paziente, buon giovine.
Boat. Sì, quando il mare lo sarà. Sgombrate! su via! Quale rispetto hanno questi flutti mugghianti pel nome di re? Giù, giù; silenzio; non ci frustrate delle opere.
Gonz. Sia pure; ma rammenta chi hai nella tua nave.
Boat. Niuno ch’io ami più di me. Siete voi un consigliero? Ebbene se potete comandare a questi elementi la quiete, e ristabilirvi la pace, noi cesseremo tosto di maneggiar le funi: usate di vostra autorità. Ma se nol potete, porgete grazie per esser visso sì lungo tempo, e apprestatevi a dividere il fato che ci pende sopra. Animo, amici. — Toglietevi di qui, dico. (esce)
Gonz. Molto confido in costui, chè non vi scerno marchio di naufrago1; e invece larga impronta di patibolo sta su quel viso. Buon destino, non rimettere de’ tuoi decreti; e comanda che venga con una delle nostre inutili gomene appiccato. Se colui non nacque per la forca, la nostra sorte è miseranda.
(escono: rientra il Boatswain)
Boat. Abbassate l’albero maestro; attaccatevi tutti alle gomene: timoneggiate a ritroso, o il vento ci affonderà. (un grido al di dentro) Sian maledetti coi loro stridi! e’ superano il ruggir della tempesta e le nostre parole. (rientrano Sebastiano, Antonio e Gonzalo) Di nuovo qui? Qual cosa vi spinge, messeri? Abbandoneremo le redini del vascello per annegarci? È tale il vostro intento?
Seb. Peste alla tua gola, cane bestemmiatore, che latri senza pietà!
Boat. Ponetevi dunque voi stessi all’opera.
Ant. Appiccati, sciagurato, appiccati! figlio indolente di femmina di mal affare, l’annegarci ne spaventa meno di te.
Gonz. Costui non annegherà, glie ne fo fede2, fosse il vascello più debole d’un guscio di noce, e meno continente d’una bagascia.
Boat. Secondate la nave coi remi; badate agli scogli; tendiamo in alto; non entrate in disperazione.
(entrano alcuni marinai inzuppati d’acqua)
Mar. Tutto è perduto! Alle preghiere! alle preghiere! Tutto è perduto! (escono)
Boat. Oh! perchè questo freddo?
Gonz. Il Re e il Principe pregano: imitiamo il loro esempio; una sorte ci è comune a tutti...
Seb. Io do in disperazione.
Ant. Noi siamo in balla di carnefici, che ebbri ne rubano la vita; e questo malandrino... (additando il Boatswain) Va, possa tu, ghermito dall’onde, errare sul flusso di dieci maree, e non spirare che all’ultima.
Gonz. Oh! malgrado tutto, ei morrà sul patibolo; sebbene ogni onda a mo’ di voragine venga per ismentirmi, e sembri aprirsi per ingoiarlo. (un rumor confuso s’innalza dalla nave, e molte voci gridano: Miserere di noi! facciamo naufragio! addio, moglie! miei figli! fratello, addio! Oh! anneghiamo! anneghiamo!)
Ant. Moriam tutti col Re! (esce)
Seb. Diamogli il nostr’ultimo addio! (esce)
Gonz. Ora darei mille stadii di mare per un palmo di sterile terra, fosse pur coperta di dumi o di piante venifiche. Ma sian fatti i voleri del Cielo; sebbene più grato mi saria stato morire su men umido letto. (esce)
SCENA II.
L’isola; al dinnanzi la grotta di Prospero.
Entrano Prospero e Miranda.
Mir. Se foste voi, mio caro padre, che colla potenza della vostra arte eccitaste le acque a quell’orribile sollevamento, pacificatele, ve ne scongiuro. E’ pare che questo nero cielo verserebbe un torrente d’infiammato zolfo, se il mare salendo fino alle stelle non ispegnesse i suoi fuochi. Oh quanto soffersi veggendo soffrire quegli infelici! quanto nel vedere profondarsi sì nobile vascello, che senza dubbio ricettava ben più nobili creature! Ah! il grido del suo naufragio risuonava tuttavia nel mio cuore! Poveri sfortunati! e’ son periti! Perchè non ebb’io la potenza di un Dio per versar tutto il mare negli abissi della terra, primachè operata avesse tanta sciagura!
Prosp. Componiti a quiete, obblia terrori e maravaglie; di’ al pietoso tuo cuore, che nulla di sinistro accadde.
Mir. Oh dì nefando!
Prosp. Nulla d’infausto avvenne. Tutto ch’io feci, lo feci per la tenerezza che sento per te, mia figlia; per te, che l’essere tuo ancora ignori, non che il fianco da cui traesti la vita. Tu finora non vedesti nel padre tuo che il signore di una misera caverna, senza pur sospettare ch’ei derivar potesse da un sangue illustre.
Mir. Non mai il desiderio di saperne di più entrò in me.
Prosp. Ma è ben tempo ch’io di più ti dica. Dammi mano, e mi spoglia di questo magico vestimento... Così: (deponendo il mantello) posa quivi l’arte mia; e tu asciuga quegli occhi, e riconfortati. Il tremendo spettacolo che commosse l’anima tua virtuosa fu da me ordinato in guisa, che non una creatura per esso avrà patito, non un capello sarà rimasto leso a nessuno di quanti stavano in quella nave che vedesti affondare testè. Ma assiditi, che lunga materia sarà al mio dire.
Mir. Spesso intraprendeste la narrazione della mia storia; ma sempre poscia interrottala, mi lasciaste immersa in vane congetture, dicendo a voi stesso: ristiamoci; non è ancor tempo.
Prosp. Ma ora venne l’istante, in cui è mestieri che tu m’ascolti: obbedisci, e intendi alle mie parole con cupida mente. Hai tu memoria alcuna d’un tempo di tua vita, in cui questa caverna non ne dava ricetto? Oh! no; certo non l’hai: perocchè al tempo di cui favello non contavi forse il terzo anno di vita.
Mir. Ricordo, signore, ricordo quello di cui parlate.
Prosp. Oh! tanto puoi? Qual’altra dimora adunque, qual’altra persona, qual altro oggetto, dimmi, stampava l’immagine sua nella tua mente?
Mir. Quel tempo è ben remoto; e piuttosto il ritraggo come sogno confuso, che come fatto di cui la memoria mi guarentisca la veracità. Ma non aveva io allora quattro o cinque donzelle ai miei servigi?
Prosp. Avevi. Ma come tale ricordanza potè alimentarsi in te? Scerni tu verun altro oggetto fra quella notte profonda; fra quell’abisso del passato? Se rimembri alcuna cosa del tempo che precedè il tuo arrivo in quest’isola, rimembrar déi parimente in quali termini qui venisti.
Mir. Oh! di ciò non ho conoscenza.
Prosp. Volge il tredicesimo anno. Miranda, sì, il tredicesimo anno soltanto da che tuo padre più non è quel Duca di Milano, cui sempre onorava gran codazzo di principi.
Mir. Ah! non siete voi mio padre?
Prosp. Tua madre, tesoro di virtù, mi ti diè per figlia; e sola figlia ed erede crescevi al trono di Milano.
Mir. Oh! chi ne precipitò da quel posto? qual vicenda di bene o di male qui ne sospinse?
Prosp. L’una e l’altra, figlia mia, l’una e l’altra. Per frode fummo cacciati dal nostro ducato; per ventura approdammo a queste sponde.
Mir. Se troppo non è il dolore che rinnovella in voi la memoria di quei tempi, continuate.
Prosp. Mio fratello, il tuo zio Antonio... attendi a me... Oh! tanta perfidia potrà capire in un fratello? Egli, che dopo di te, era la cosa più cara che avessi al mondo... egli, a cui fidate aveva le redini del mio potente governo, mentr’io tutt’assorto nei misteri della scienza, intendeva a rimetterla in onore, egli, oh barbaro! profittando del mio viver solingo... ma tu non mi odi, Miranda?
Mir. Vi ascolto colla maggior attenzione.
Prosp. Dacchè quel perfido fu valente nell’arte d’accordar grazie o di rifiutarle, di deprimere i buoni e di esaltare i tristi, si fe’ intorno vasto circolo d’adulatori, e divenne l’edera che tappezza la pianta, e ne simula la verzura. Così s’elevò sulla testa del suo principe assente... Ma il tuo pensiero è con me?
Mir. Oh quale istoria!
Prosp. Propenso per la solitudine e per l’opera del mio perfezionamento, bisogna ben di maggior pregio di quante piaciono al vulgo (se pur tal vita solitaria può perdonarsi ad un sovrano) sprezzando le grandezze terrestri, svegliai nel traditore malvagi appetiti; e la mia confidenza, qual madre d’infausta prole, non ingenerò nel suo cuore che turpitudine e crudeltà. Venuto in possesso degli annui miei redditi, e della mia potestà d’impor taglie e balzelli, simile a quei mentitori che col lungo ripetere una menzogna corrompono sì fattamente la propria memoria da venire in credenza esser quella verità, ei riputossi duca di Milano. In ciò lo confermò poscia e l’abito del comandare, e l’inceder splendente di tutte le mostre della maestà regia. Miranda, ascolti?
Mir. Il vostro racconto, signore, cattiverebbe l’orecchio più insensibile.
Prosp. Per colmar l’intervallo che separava ancora dalla persona del sovrano il suo simulacro, un titolo occorreva, quello di usurpatore. A questo con tutta l’anima intese; e vile, e consapevole della propria viltà, onde carpirlo fermò patti col re di Napoli; soggettò un libero ducato ad un esterno reame; tributario lo fece d’indipendente che era. Oh mia Milano, venuta sì in fondo.
Mir. Povero padre!
Prosp. Aguzza or ben l’ingegno sulle condizioni del trattato; e dimmi poscia se un tal uomo mi poteva esser fratello.
Mir. Indegnissima pianta di nobile seme!
Prosp. Eccoti i patti. Il re di Napoli, mio nemico inflessibile, accetta le proposte di mio fratello; e in ricompensa dell’omaggio di cui t’ho parlato, e di non so qual tributo, promette di spogliarmi insieme con mia figlia del mio trono, e si obbliga di porre il diadema sul capo di mio fratello. Con tale accorgimento un esercito ribelle è posto in piedi, e col favor delle tenebre introdotto in Milano, onde cacciarmene in un con te, che stridevi fra le mie braccia.
Mir. Oimò! tal trista istoria mi spreme dagli occhi le lagrime!
Prosp. Odi un istante ancora, e sarai allo scopo del mio racconto.
Mir. Chi vietò loro di toglierne la vita?
Prosp. Ben chiedesti; e a ciò naturalmente io veniva. L’amore che grande mi portava il mio popolo, non diè loro forse fidanza di bruttarsi di sangue; onde, ostentando vaghe mostre per far velo a turpi disegni, ne trascinarono su di una barca; e allontanatine alcun tratto dal porto, ne deposero sul carcame d’un vascello putrido d’anni, spoglio d’ogni arredo marinaresco, che i topi stessi per istinto aveano disertato. Fu là che ne abbandonarono perchè andassimo a gemere sul vasto elemento, che co’ suoi muggiti ne rispondeva; e perchè esalassimo i nostri sospiri fra i zeffiri, che commossi sembravano rammaricarsi delle nostre sventure, blandendo così all’oltraggio che ne faceano trasportandoci lungi dal paese natale.
Mir. Oimè! di quale impaccio vi sarò allora stata!
Prosp. L’angelo tu fosti, che mi salvò. Allorchè, oppresso dal peso delle mie sventure, io versava dagli occhi un torrente di pianto, tu, piena d’una serenità che ti veniva dal cielo, mi sorridesti; e quel sorriso valse a francheggiarmi, e rendermi impavido contro i colpi della fortuna.
Mir. Come poi potemmo approdar ad una sponda?
Prosp. Per divina mercè. Da un nobile napoletano, Gonzalo, cui era stato commesso l’adempimento di quel crudo disegno, ne era stata impartita qualche vettovaglia, nonchè vestimenta e attrezzi di prim’uso; ma, più che tutto, a mia istanza, alcuni libri che gl’indicai, ch’io teneva e tengo ancora in maggior conto del mio ducato.
Mir. Possa io vedere un giorno quest’uomo benefico.
Prosp. Or ecco a cui venni; odi adesso qual fine avessero i nostri travagli. Gettati in quest’isola, qui t’allevai, qui ti fui maestro, qui t’imbevvi di virtù che rado scontransi in giovinette.
Mir. Il Cielo ve ne ricompensi. Adesso, signore, piacciavi istruirmi, ve ne scongiuro, ed è il cuore che n’ha bisogno, della mira che aveste suscitando questa tempesta.
Prosp. Odilo. Per una sventura delle più strane, la benefica fortuna, oggi mia signora prediletta, cacciò a queste sponde i miei nemici; e la mia prescienza mi ammonisce che una stella propensa splende adesso sul mio zenit, cui negligendo sarei infelice per sempre. Desisti ora dalle tue dimande, e cedi al sonno che ti sorprende. È sonno fortunato, e invano lo combatteresti. (Miranda si addormenta)3 Vieni ora, mio soggetto; vieni, son pronto. Avvicinati, mio Ariele; vieni a me. (entra Ariele)
Ar. Omaggio e salute al mio signore! potente e venerando signore, salute! Vengo per obbedire ai tuoi piaceri4, e volare, nuotare, scorrer tra le fiamme, se lo vuoi; o aleggiar fra quelle candide nubi che interrompono l’uniformità degli azzurri del cielo. Parla, comanda: Ariele, per quanto è da lui, t’obbedirà5.
Prosp. Suscitasti, o spirito, esattamente, come t’imposi, la tempesta?
Ar. In nulla obbliai il voler vostro. Assalii, come avevate commesso, il vascello del re, e per tutto ingenerai terrore e spavento. Dividendo talvolta i miei fuochi, investii in pari tempo varii luoghi; e le mie fiamme splendendo sugli alberi della nave e sopra il ponte, finirono accomunandosi in un vorace incendio. Sì, Giove vibra meno rapidi i teli dall’alto6, che rapidi non iscorressero i turbini della vampa mia, che avventandosi in lucide colonne, imporporava i cerulei campi di Nettuno, facendo forse tremare il formidabile tridente nella mano di questo Dio.
Prosp. Valoroso spirito, e fu alcuno che in tanta tempesta conservasse placida la ragione?
Ar. Non uno, in cui il gelo della paura non penetrasse, e qualche immagine non offrisse di disperazione. Tutti, tranne i marinai, gettaronsi nei flutti spumanti, tutti abbandonarono l’incendiata nave. Il figlio del re, Ferdinando, coi capelli ritti sulla testa, quasi canne ispidissime, scagliossi per primo gridando: L’inferno è deserto; tutti i demoni vennero qui.
Prosp. E vero ei diceva, mio spirito; ma non eravate vicini alla sponda?
Ar. Sì, mio signore.
Prosp. Tutti dunque si salvarono?
Ar. Alcuno non perì. Approdati in quest’isola, qui li dispersi, come m’imponesti, e il figlio del re sta scompagnato da tutti, e geme solo in un angolo alpestre.
Prosp. E dei marinai che ne facesti? che del vascello?
Ar. Il vascello è in salvo entro quella baia romita, dove tu una volta mi chiamasti perchè andassi a far tesoro di rugiade nelle Bermude7 tempestose. I marinai giacciono sparsi sulla rada, invasati in un sonno profondo, frutto della fatica e de’ miei incanti. Rispetto al resto del naviglio, esso se ne riede tristamente a Napoli, convinto d’aver assistito al naufragio del re.
Prosp. Bene adempisti il mio comando; ma ti aspettano nuove fatiche. A qual’ora è il dì?
Ar. Oltre la metà sua.
Prosp. Sì, di due stadii almeno; e quattro soli ce ne rimangono per l’opera.
Ar. Cure novelle? Ah! poichè a tanto mi sforzi, lascia ch’io ti rammenti le tue promesse.
Prosp. Spirito bizzarro, che vuoi tu domandarmi?
Ar. La mia libertà.
Prosp. Prima del tempo la vorrai? Non far ch’io t’oda più richiedermi di ciò.
Ar. Rammenta lo zelo con che io ti servii; rammenta la mia sommissione, la mia fedeltà. Un anno promettesti di sottrarre al tempo della mia servitù.
Prosp. Obblii tu da quali pene ti liberassi?
Ar. No.
Prosp. Tu l’obblii; e annoveri fra le tue grandi opere il correre sulle salse pianure del mare, il togliere le ali degli agghiacciati Aquiloni, il penetrar nelle viscere della terra, passando fra strati di gelo e di fuoco.
Ar. Oh, no.
Prosp. Menti, Genio maligno: e già dimenticasti l’orrenda Sicora, la decrepita strega, che gli anni e le colpe avean curvata in cerchio; la dimenticasti.
Ar. No.
Prosp. Ove era dunque nata? rispondi.
Ar. In Algeri.
Prosp. È ciò vero? Sono costretto di ricordarti ad ogni luna ciò che un dì fosti, e ciò che ognora obblii. Quell’empia strega fu, lo sai, sbandita da Algeri per molti malefizii che vi compiè, e per gli orrendi suoi sortilegi, che orecchio umano fremerebbe d’intendere. Per una valida ragione però se le lasciò la vita. Dimmi, è questo vero?
Ar. È vero, signore.
Prosp. Quella strega dall’occhio di piombo, allorchè fu qui condotta, portava un frutto nel suo seno; e tu, che oggi mi servi, eri allora uno schiavo. Troppo gentile per sottometterti a’ turpi suoi comandi, ti rifiutasti all’esecuzione delle sue tregende luride, e, per castigartene, nell’accesso di sua rabbia implacabile mendicò l’aiuto de’ suoi Genii più potenti, e ti costrinse entro il tronco d’un pino lacerato. Compresso nelle viscere dell’albero, fra inauditi strazii vi traesti la vita pel corso di dodici anni; e intanto la strega spirò, lasciandoti in quella prigione ove esalavi gemiti più frequenti che i colpi che la ruota del mulino batte sull’onda. Quest’isola allora non era abitata da alcuna creatura umana, se per tale riguardar non si volesse il parto che Sicora depose in questi luoghi, quel mostro color di rame, degno rampollo di lei.
Ar. Sì, Caliban suo figlio.
Prosp. Quel Caliban che ora tengo a’ miei servigi, stupida creatura, in cui non vedi che fango. Tu dunque sai fra quali tormenti io ti trovassi; sai le grida dolorose che innalzavi, al suono di cui ululavano i feroci lupi, e fremevano nelle commosse viscere gli orsi selvaggi. Era supplizio da dannato, nè Sicora poteva più romper l’incanto. Arrivato in questi luoghi, intesi le tue strida; e valendomi della mia arte, costrinsi il pino ad aprirsi, e a lasciarti fuggire.
Ar. Te ne siano rese grazie, mio signore.
Prosp. Or se ti lagni un’altra volta, fenderò una quercia; e confittoti fra i suoi nodi, permetterò che vi gemi la vita per altri dodici inverni.
Ar. Perdono, signore; sarò umile a’ tuoi cenni; ti obbedirò silfo di buona volontà.
Prosp. Attienti al detto, e fra due giorni sarai libero.
Ar. Ne sia il patto fra di noi. Ora che deggio fare? parla; che deggio fare?
Prosp. Trasformati in ninfa marina, invisibile per tutti, fuorchè per me. Vola a prender questa forma, e poi ritorna. Va; non indugiare. (Ariele esce) — Tu, mia cara figlia, svegliati; dormisti abbastanza, e propizio fu il sonno che scese su di te.
Mir. L’impressione del vostro racconto m’immerse in quel sopore.
Prosp. Scuotiti, alzati; vien meco; andianne dal nostro schiavo Caliban, che non mai ci fu largo di risposte cortesi.
Mir. È un malvagio colui, e m’è ingrato di mirarlo.
Prosp. Ma, sebbene malvagio, esso ci è utile. È esso che accende il fuoco, che accatasta le legne, che ci rende mille altri servigi necessari. Olà! schiavo Caliban, informe loto, favella.
Cal. (dal di dentro) È qui bastante legna.
Prosp. Esci, ti dico; altre bisogne t’aspettano. Vieni, testuggine. Oh! non verrai tu? (rientra Ariele in forma di ninfa dell’acqua) Vaga apparizione! Mio leggiadro Ariele, odi all’orecchio.
(gli parla sommesso)
Ar. Signore, sarà fatto. (esce)
Prosp. Ebbene, immondo schiavo, frutto esecrabile dei laidi amori d’un demonio colla tua madre infernale, non vorrai farti avanti? (entra Caliban)
Cal. Cada su di voi la guazza più contagiosa che mai mia madre raccogliesse da infetta palude colla penna d’un corvo! il soffio pestilenziale delle valli vi spiri addosso, e vi dissecchi come scheletri per tutto il corpo!
Prosp. Va; e per quest’augurio preparati a soffrire i dolori dell’incúbo, che questa notte t’investirà. Sentirai allora i tuoi fianchi trafitti da mille punture, che ti permetteranno a mala pena di respirare. Già gl’istrici aguzzano i loro dardi terribili, per meglio vibrarli in te durante le lunghe ore di questa notte. Vo’ che le tue piaghe sian fitte come i fori d’un’arnia, e ogni ferita più acuta di quella che fatta ti avesse il pungolo d’una vespa.
Cal. Mangierò senza lagnarmi al desco che mi apparecchi. Ma quest’isola è mia, e tu mi rubi quello che fu di mia madre. Allorchè venisti qui, mi soiavi, e mi porgevi le more bagnate nell’acqua, insegnandomi il nome del grande e del piccolo luminare, che bruciano dì e notte in cielo. In quel tempo io t’amai, e ti mostrai tutte le ricchezze del paese, le fresche sorgenti, i pozzi salati, i luoghi aridi, i fertili. Maledizione su di me per averlo fatto! Vipistrelli, rospi, serpi, e tutti gli altri malefizii di Sicora ti vengano addosso; poichè, di re ch’io era, m’hai fatto schiavo, e confinato nel duro antro d’uno scoglio, usurpandomi tutto il resto dell’isola.
Prosp. Servo impudente e mentitore, cui muove la sferza, non mai il beneficio, troppo umanamente ti trattai, ricettandoti nella mia caverna, infino a che ardisti attentare all’onor di mia figlia.
Cal. Oh! oh! così riescito fossi! così prevenuto non m’avessi! e popolata avrei questa isola di piccoli Calibani!
Prosp. Schiavo abborrito, in cui la bontà non può lasciar traccia; turpe sentina d’ogni più laido vizio, io ti commiserai. Assiduo intorno a te mi posi per insegnarti a parlare, assiduo diedi opera ad instruirti dei nomi delle cose. Selvaggio indomito, non manifestavi i tuoi bisogni che con grida feroci; ed io impressi alle tue idee un movimento che te li fece conoscere. Ma, qualunque studio in te ponessi, la tua vile natura lo corrompeva, e il fango di che sei composto deturpava i miei benefizi. Con giustizia fosti dunque ridotto in quello scoglio, e ben peggio meritavi d’una prigione.
Cal. Tu m’insegnasti un idioma; e tutto il profitto che ne ritraggo è di saperti maledire. La peste rossa ti colga per avermi insegnata la tua lingua.
Prosp. Generato dell’inferno, va, esci, e trovane combustibili; più gravi bisogne poscia ti aspettano. Tu ti ribelli, anima perversa? Se rifiuti o se fai fremendo quello ch’io ti comando, torturerò le tue membra con sì inauditi martori, che le belve a’ tuoi urli fuggiranno smarrite dai loro antri.
Cal. No, te ne prego, andrò; resta. (a parte) Convien che obbedisca: sì potente è la sua arte, che sottomettere anche potrebbe il Dio di mia madre, Setebos, e farne un suo soggetto.
Prosp. Sia dunque, schiavo; esci di qui!
(Caliban esce; rientra Ariele invisibile, suonando un liuto e cantando; Ferdinando lo segue)
Canzone d’Ariele.
«Venite su quest’auree sabbie, e porgetevi le mani: mentre fra voi corrono i saluti e i baci, le acque insolcabili cessano di mugghiare: intrecciate qua e là vaghe danze; e voi, dolci Intelligenze dell’aere, accompagnateli col canto».
(gli Echi qua e là ripetono)
«Udite, udite il latrar dei mastini, che l’aere introna, e sorvola alle stelle! Udite, udite l’araldo del dì, che empie l’aure colla canzone del mattino».
Ferd. Dov’è questa celeste musica? l’arrecano i zeffiri? è della terra? Oh! essa finì. Certo segue i passi di qualche divinità dell’isola. Seduto sopra uno scoglio, ove piangeva il naufragio del padre mio, questa melode sorgendo dalla superficie dell’onde, dolcemente mi penetrò l’orecchio; e sì soavi n’eran gli accordi, che calmarono in pari tempo e gli irritati flutti e il mio dolore. Sursi per seguirla, o forse ne fui trascinato... Ma essa dileguò... No, già ricomincia!
Ariele canta.
«Sotto l’acque del mare tuo padre è sepolto; ma l’ossa sue rivivono cangiate in puro corallo. Dove furon gli occhi suoi, ivi ora splendono due perle; e il sublime sepolcro che gli diè tomba, non fè’ che rivestirlo di più tersa sustanza. Ad ogni ora le Ninfe del mare suonan per lui la squilla degli estinti. Odi! ne intendo il gemito che al fragor delle onde mestamente s’accoppia».
(gli Echi ripetono una melodia melanconica).
Ferd. Questi canti mi chiamano al pensiero la catastrofe del padre mio; nè opera son di mortali, nè appartengono alla terra. Ecco, ora si elevano, e trasvolano sul mio capo.
(Prospero squarcia il velo di nebbia in cui insieme con Miranda s’era occultato, e parla alla figlia)
Prosp. Alza gli occhi tuoi velati dalle loro lunghe palpebre, e dimmi ciò che scerni laggiù.
Mir. Oh! che vegg’io? Non è quello uno spirito? Come guarda! qual nobile forma veste! È uno spirito?
Prosp. No, fanciulla: ha sensi come noi; vive di nostra vita; è uno di coloro che naufragarono; e senza i segni del dolore che offuscarono i suoi lineamenti, perocchè il dolore è la carie della bellezza, lo potresti dire un’avvenente creatura. Egli ha perduti i suoi compagni; ed erra per l’isola, onde trovarli.
Mir. Io lo posso ben dire un oggetto divino, chè mai non vidi nulla di sì nobile in terra.
Prosp. (a parte) Tutto va a seconda de’ miei desiderii. Ariele, amabile Ariele, fra due giorni sarai libero per quest’opera.
Ferd. Oh! ecco al certo la Dea che seguivano i miei concenti! (avanzandosi) Vergine eccelsa, vorrete esaudire la mia preghiera, dicendomi se siete un’abitante di quest’isola? Vorrete soccorrermi di consiglio nella incertezza in cui verso? Vorrete appagare il più ardente, sebben per ultimo esposto, de’ miei voti, istruendomi se appartenete ai cieli o alla terra?
Mir. Non vedete in me cosa sublime, signore, ma una fanciulla soltanto.
Ferd. La lingua mia! Cielo! Sarei il re degli uomini che parlan tal lingua, se stessi nel paese ove s’adopera.
Prosp. Il re! Ma qual saresti, se il sovrano di Napoli t’ascoltasse?
Ferd. Quel che ora sono: un misero abbandonato, che stupisce d’udirvi parlare del suo reame. Sì, in me vedete ora il re di Napoli; in me, che miseramente mirai sommergersi nei flutti il padre mio.
Mir. Ah per pietà!
Ferd. Sì, lo vidi sommergere poc’anzi in un con tutti i suoi, col duca di Milano, e col suo illustre figlio.
Prosp. Il duca di Milano e la sua illustre figlia potrebbero smentirti, se ora l’opera fosse da ciò; ma vada pure l’inganno. (a parte) Dal primo istante i loro sguardi si son compresi. Amabile Ariele, di questo servigio avrai buon guiderdone. (ad alta voce) Una parola.
Mir. Perchè mio padre gli favella così aspramente? È il terzo uomo che ho veduto; è il primo per cui sospiro. Possa la pietà intenerire mio padre e volgerlo dal lato ove inclina il mio cuore.
Ferd. Oh se fanciulla siete, se la fede non impegnaste ancora, diverrete in breve la regina di Napoli.
Prosp. Indugia, giovine; odimi prima un istante. (con voce sommessa) Eccoli già avvinti al giogo dell’amore; ma è mestieri ch’io intepidisca la foga di questa subitanea passione per tema che la facilità del conquisto non ne scemi il prezzo. (ad alta voce) Straniero, ascoltami; comando che tu m’ascolti. Tu hai usurpato un nome che non è tuo; nè qui venisti che per ispogliarmi del mio possesso.
Ferd. Giuro...
Mir. Oh no! nulla di malvagio può stanziare in così nobile tempio. Se dimora sì bella potesse celare uno spirito malefico, le anime virtuose diverrebbero invidiose del male.
Prosp. (a Ferdinando) Seguimi. (a Miranda) Non mi parlar di lui: è un traditore. Vieni; vuo’ che i tuoi ferri ti curvino, e ti congiungano i piedi alla testa. L’acqua del mare ti sarà bevanda; l’erbe dei ruscelli, le amare radici ti daran pasto: seguimi.
Ferd. No; finchè il mio nemico non sia più di me potente, resisterò all’oltraggio. (sguaina la spada)
Mir. O mio buon padre, nol sommettete a gastighi: è sì buono, e si mostra tanto valente!
Prosp. Una fanciulla ardirà consigliarmi?... Getta quel ferro, insensato che fai pompa d’ardire, e a cui la coscienza del delitto non consente di vibrare un colpo. Abbandona quell’aspetto minaccioso, che mal ti si addice, dacchè con questa verga sola potrei farti cadere per terra la spada.
Mir. Padre ve ne scongiuro...
Prosp. Lungi da me; cessate.
Mir. Pietà, signore, pietà... mi fo mallevadrice per lui... signore, pietà.
Prosp. Taci; una parola di più mi obbligherebbe a sdegnarmi con te; mi obbligherebbe forse ad odiarti. Oh! come ardisci tu assumere le parti d’un fraudolento? Taci. Tu, che mai non vedesti se non Caliban e costui, credi forse che il mondo non abbia altri suoi eguali? Questi è un novello Caliban, fanciulla insensata, se comparar lo si volesse al restante degli uomini, che a lui vicini ti sembrerebbero angeli.
Mir. I miei voti saran modesti; ma non desidero di vedere uomo più bello di lui.
Prosp. (a Ferdinando) Obbedisci: già i tuoi muscoli tornarono alla loro infanzia; ogni vigore ne svanì.
Ferd. (da sè) Sì; i miei sensi son fatti inerti, come in un sogno doloroso. La perdita del padre, questo abbattimento insolito che provo, il naufragio di tutti i miei, e le minaccie di quest’uomo che m’ha in suo potere, sarebbero lievi pene per me, se almeno una volta al giorno potessi dalla mia carcere vedere quell’amabile fanciulla. Oh! la libertà regnasse pure in tutte le altre regioni della terra, lo spazio di quel carcere sarebbe abbastanza vasto pe’ miei desiderii.
Prosp. (a parte) Favella fra sè, e geme! — (a Ferdinando) Avanzati. — (ad Ariele) Son contento di te, grazioso silfo. — (a Ferdinando) Seguimi. — (ad Ariele) Intendi a quanto ti rimane da compiere.
Mir. (a Ferdinando) Non vi lasciate vincer dall’ambascia, signore. Mio padre è migliore del suo linguaggio, nè è in lui naturale il modo che ha usato.
Prosp. (ad Ariele) Diverrai libero come il vento delle montagne; ma ora diligentemente adempi il mio comando.
Ar. Signore, lo farò.
Prosp. (a Ferdinando) Seguimi — (a Miranda) E tu astienti dal chiedermi grazia per lui. (escono)
Note
- ↑ Allusione al proverbio: L’uomo noto pel gibetto — Non mai annegherà.
- ↑ Allude sempre al citato proverbio.
- ↑ Magico è questo sonno, in cui Prospero immerge Miranda: ei teme che i suoi incantesimi non la vincano troppo presto, infondendole per le membra il sopore; ond’è che così di sovente la eccita ad ascoltarlo. L’intento di Prospero è di rendere sua figlia amorosa di Ferdinando, appena ch’essa lo vegga; intento che, per l’educazione tutta stoica da lui data alla fanciulla, non era sì facile a conseguire. Per vincere l’ostacolo il Poeta comincia dall’intenerire la giovinetta col racconto delle sue infantili sventure e di quelle del padre suo; e apre per tal guisa col sentimento della pietà il cammino dell’amore. Di ciò non pago, vi arroge la forza de’ prestigi, e al principio della sua narrazione le dice: Dammi mano, e mi spoglia di questo magico vestimento. L’incantesimo allora agisce col contatto; e Prospero teme che non lasci bastante forza alla figlia sua per udire sino al termine il racconto. Warburton.
Parrà strano di primo aspetto che la narrativa d’una storia maravigliosa concilii il sonno; ma, se ben vi si guarda, si vedrà che ogni agitazione violenta dell’anima affatica i sensi, e guida naturalmente al riposo, sopratutto se l’istoria finisce, come questa, coll’offrire idee più dolci e care, che rinfrancano l’anima de’ suoi primi commovimenti. Johnson. - ↑ Per ben comprendere il carattere di Prospero, è d’uopo rintracciare il sistema degli incantesimi, che fornì tante meraviglie ai romanzi del medio evo. Quel sistema avea per base l’opinione generalmente invalsa, che gli angeli ribelli, precipitati dal cielo, avessero occupate differenti regioni, a seconda dei differenti gradi di loro malizia. Quindi gli uni diceansi costretti all’Inferno; gli altri dispersi per l’aere, per la terra, per l’acque, per le caverne profonde che
spalancansi nelle viscere del nostro globo. Di codesti Spiriti o Angeli decaduti, gli uni erano più degli altri malefici. I Genii terrestri venivano riputati i più crudeli; quelli dell’aere i meno perversi. L’uomo, mercè certi prestigi, e bene studiando nelle occulte scienze, poteva assoggettare quegli Spiriti a’ suoi voleri, almeno per un tempo determinato, sebbene con grande ripugnanza, e lor malgrado essi obbedissero al loro tiranno. Vedrassi perciò che Ariele si stanca di servir Prospero, e che sovente lo fastidisce coll’inchiesta di sua libertà. Caliban ancora su questo punto collima con Ariele; e osserva che i Genii stanno di mal animo sottoposti a Prospero, verso del quale nutrono un odio acerbissimo.
Johnson.
- ↑ Questa parte vien d’ordinario riempita in Londra da una fanciulla.
- ↑ Ad attenuare l’Impressione spiacevole che recar potesse quest’amalgama di Divinità, varranno i versi di Dante:
. . . . . . . . o sommo Giove,
Che fosti ’n terra per noi crocifisso. - ↑ Smith, nella sua relazione, dice che quelle isole erano così temute dai naviganti, che molti le chiamavano le isole diaboliche. In fatti sono attorniate di scogli latenti sott’acqua, e poste in un clima soggetto al nembi più terribili.