La tempesta (Shakespeare-Angeli)/Atto primo/Scena seconda

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William Shakespeare - La tempesta (1612)
Traduzione dall'inglese di Diego Angeli (1911)
Atto primo - Scena seconda
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SCENA II.


Nell’isola: d’innanzi alla grotta di Prospero.


Entrano PROSPERO e MIRANDA.


                             Miranda.
Se con vostra arte, o caro padre, aveste
l’onde selvagge in tal frastuono messe
or le pacificate. Il cielo - sembra -
ardente pece pioverebbe, se
il mar salendo alla sua guancia, il fuoco
non ne cacciasse. Oh come insiem con quelli
che ho veduto soffrire, anch’io soffersi!
Un vascel valoroso - e non vi ha dubbio

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che in lui non fosse qualche creatura
nobile - messo in pezzi! E quali grida
mi percossero il cuore! E son perite
quelle povere anime! Se fossi
stata una Dea possente avrei sommerso
il mare nella terra, prima che
il buon vascello esso inghiottisse insieme
con quelli che recava seco!

                             Prospero.
                                             Calmati!
non più paura e al pietoso cuore
di’ che non vi fu danno.

                             Miranda.
                                          O triste giorno!

                             Prospero.
Non vi fu danno. Io non ho fatto nulla
che non fosse per te. Per te mio bene,
per te mia figlia che non sai chi sei
e non conosci d’onde io venga, o s’io,
io non sia meglio di Prospero, padrone
di una povera grotta e nulla più
del padre tuo.

                             Miranda.
                    Non ho pensato mai
di sapere altra cosa.

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                             Prospero.
                                  Il tempo è giunto
ch’io ti spieghi altra cosa. Or dunque dammi
la mano ed il mio magico mantello
or dalle spalle toglimi. Così.

Si toglie il mantello e
lo stende per terra.

Quivi si giace la mia arte. asciuga
gli occhi e sii calma. Questa spaventosa
vision del naufragio che percosse
la virtù in te della compassione,
con la sola potenza di mia arte
comandata ho così sicuramente
che non una sola anima — che dico? —
non un solo capello di coloro
che tu udisti gridare, che vedesti
sprofondare nell’onde è andato perso.
Siediti, è giunto il giorno in cui tu devi
conoscere di più.

                             Miranda.
                            Spesso mi avete
cominciato a narrar quel ch’io mi fossi
ma mi avete interrotto ad una vana
mia richiesta lasciandomi, col dire:
‟Basta, non è ancor tempo„.

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                             Prospero.
                                                 E il tempo è giunto
ed il momento ne sospinge. Tendi
l’orecchio e presta attenzione. Puoi
tu ricordare gli anni, pria che in questa
grotta fossimo giunti? Io non suppongo
che tu lo possa però che compiuti
non avevi tre anni.

                             Miranda.
                                 E pur lo posso,
o signore.

                             Prospero.
            Ma cosa? Una dimora
diversa? Altre persone? Dimmi quale
immagine il ricordo tuo rattiene.

                             Miranda.
È così lunge! Ed è quel mio ricordo
più come un sogno che una cosa vera.
Ma dite non avevo allora cinque
o sei donne d’intorno a me?

                             Prospero.
                                                        Ne avevi
anche di più, Miranda. Ma in che modo
tutto ciò vive nel pensiero tuo?
E cosa vedi ancora entro l’oscuro

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baratro e nell'abisso alto del tempo?
Se tu ricordi cose antecedenti
al tuo giungere qui, puoi ricordare
come qui tu giungesti.

                             Miranda.
                                           No, non posso.

                             Prospero.
Sono oramai trascorsi dodici anni,
dodici anni, Miranda! Era tuo padre
il duca di Milano e assai potente
principe.

                             Miranda.
            O signor mio, non siete dunque
mio padre?

                             Prospero.
                 La tua mamma che fu in vero
la virtù stessa, ti dicea mia figlia
ed era certo, duca di Milano
il padre tuo. L’unica erede tu,
e non indegna principessa!

                             Miranda.
                                                    O cielo!
Qual brutto inganno quivi ci ha condotti
o benedizione è stato quello
che ci fu fatto?

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                             Prospero.
                         L’uno e l'altra, o mia
fanciulla: per un brutto inganno, come
tu dicesti, noi qui venimmo ma
l'aiuto è stato benedetto.

                             Miranda.
                                                Oh il cuore
mi sanguina a pensar tutte le cose
che sono ormai fuori dal mio ricordo.
Ma proseguite, ve ne prego.

                             Prospero.
                                                     Il mio
fratello - era tuo zio - chiamato Antonio,
te ne supplico, ascolta, e chi potrebbe
pensare che un fratello esser potesse
così perfido? E pur dopo me stesso
nessuno amavo più di lui nel mondo.
Tanto lo amavo che in sua cura detti
tutto il mio Stato, ed era allora sopra
le Signorie la prima e il primo Duca
Prospero: in ogni dignità citato
e nelle liberali arti pur senza
paragone. Sommerso nello studio,
su mio fratello il peso del governo
tutto lasciai, sì che stranier divenni

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al mio paese, assorto nei segreti
miei studii. Ma quel tuo subdolo zio....
di’, mi ascolti?

                             Miranda.
                      Oh sì molto attentamente.

                             Prospero.
....come ebbe appreso ad elargir le grazie
od a negarle, come seppe quale
dovea promuover quale radiare
quale rinnovellar fra creature
che furon mie o trasformarle, avendo
ambo le chiavi degli uffici e degli
ufficiali, a intonare si compiacque
tutto lo Stato in unica armonia
cara agli orecchi suoi, sì ch’egli fu
l’edera avvinta al principesco mio
tronco dal qual suggeva ogni verdura.
Ma non ascolti....

                             Miranda.
                          Oh buon signore, ascolto!

                             Prospero.
Sì, ascoltami, ti prego. Trascurando
sì le cure mondane e tutto intento
ai riposti misteri della mia
mente, vivevo in così gran ritiro
abbandonando ogni favore al mio

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falso fratello, che indole malvagia
teneva sveglio. E quella mia fiducia
come un buon genitore, produceva
in lui tanta falsezza quanto più
essa era grande. E questa non aveva
limiti ed era una fiducia senza
confini. Essendo in tal modo signore
non solamente della mia ricchezza
ma di quel che il poter mio consentiva
di esigere, come uno che dicendo
il falso sempre, fa di sua memoria
tal peccatrice che finisce poi
col creder vera la menzogna sua,
egli credette d’esser duca e, inconscio
di una tal finzione, ogni regale
prerogativa fece sua, fin quando
l’ambizione ognor crescendo.... Ascolti?

                             Miranda.
Curerebbe la storia vostra i sordi!

                             Prospero.
Non seppe più distinguer fra la parte
ch’ei sosteneva e quegli per il quale
la sosteneva, sì che pensò al fine
d’essere di Milano l’assoluto
signore. In quanto a me dovea sembrargli
la biblioteca mia ducato grande
abbastanza, sì che mi giudicava

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ormai incapace d’ogni regal cura.
Alleato - però che da sè solo
mal dominato avrebbe - con il Re
di Napoli, promisegli un tributo
ogni anno e a fargli omaggio la corona
mal sottomise a quella sua più grande,
ed il Ducato - ahi povera Milano! -
libero fino allora, rese schiavo
in un servaggio vergognoso.

                             Miranda.
                                                     Oh cielo!

                             Prospero.
Pensa alla sua condizione e a questo
avvenimento e dimmi s’egli possa
pur essermi fratello!

                             Miranda.
                                    Peccherei
pensando mal dell’avola: cattivi
figli han recato buoni ventri.

                             Prospero.
                                                      Ed ecco
la fine. Il Re di Napoli che mi era
acerrimo nemico, prestò orecchio
alle richieste del fratello mio.
Sì che in compenso del promesso omaggio
e di non so quale tributo, fuori

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del ducato mi avrebbe egli bandito
con i miei tutti e la bella Milano
con ogni onore a mio fratel ceduta.
Fu così che un esercito, di notte,
a tradimento penetrò la cinta
e forse avea le porte di Milano
aperte Antonio - e favoriti dalle
tenebre ci cacciarono i ministri
te piangente e me stesso.

                             Miranda.
                                                  Ahimè pietà!
Non ricordando come allora piansi
ora di nuovo piangerò. Son gli occhi
costretti a ciò da un tal racconto.

                             Prospero.
                                                             Ascolta
ancora un poco e porterò il tuo spirto
agli affari che ci occupano. Senza
questi la storia mia sarebbe troppo
fuori di luogo.

                             Miranda.
                       Ma perchè non hanno
profittato - a distruggerci - dell’ora?

                             Prospero.
Dimanda giusta e ben doveva il mio
racconto provocarla. Essi non hanno
o cara figlia osato - così grande

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era l’amore che il mio popol tutto
mi portava - segnar con sanguinosa
impronta il lor misfatto, ma abbellirlo
vollero con più bei colori. In breve,
caricati che ci ebber sopra un barco,
ci spinsero nel mare. Aveano scelto
una vecchia carcassa di battello
non attrezzato, senza vele, senza
albero, senza sarte: per istinto
l’avean già tutto abbandonato i sorci.
Quivi ci hanno imbarcati e ai nostri pianti
solo rispose il mare ed i sospiri
ci rese il vento!

                             Miranda.
                       Ahimè quale imbarazzo
dovetti esser per voi!

                             Prospero.
                                     Tu, Cherubino,
fosti invece la mia salvezza. Il tuo
sorriso infuse in me come una forza
celeste e come il mare ebbi cosparso
delle più amare lacrime, un novello
cuore si fece in me, per sopportare
quel che avverrebbe.

                             Miranda.
                                 E in che modo giungemmo
a terra?

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                             Prospero.
           Per divina provvidenza
un po’ di cibo e un poco d’acqua che
un nobil uom di Napoli - Gonzalo,
addentro nel disegno - tutto preso
dalla sua carità volle lasciarci.
E insiem coi cibi i bei vestiarii, i ricchi
tessuti, i lini e tutto il necessario
che tanto ci ha giovato. Per sua grande
gentilezza, sapendo il molto amore
che per i libri avea, dalla mia stessa
libreria seppe sceglier quei volumi
che amavo più del mio ducato.

                             Miranda.
                                                               O possa
veder quest’uomo un giorno! Ora mi levo.

                             Prospero.
Sta’ ferma: e dell’errar nostro marino
l’ultima parte ascolta. Quivi, in questa
isola siamo giunti, e quivi io stesso
fui tuo maestro e ti giovai pur tanto
quanto nessuna principessa che abbia
maggior tempo e più libero, ma certo
non sì divoto precettore.

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                             Miranda.
                                                 Il cielo
vi ringrazi per questo. E ora o mio
signore - ve ne supplico, è un pensiero
che non mi sa dar pace - qual ragione
aveste a suscitar tale tempesta?

                             Prospero.
Ecco: tu lo saprai. Per uno strano
evento, la munifica fortuna
or mia sola signora - ha in questa spiaggia
condotto tutti i miei nemici ed io
con la mia prescienza ho appreso come
il mio destino sottostasse ad una
ben augurante stella il cui potere
s’io non lo afferro subito si perde
ed ogni mia fortuna è fatta vana
per sempre. Or cessa con le tue dimande.
Tu sei presa dal sonno: è una propizia
stanchezza a cui tu cederai. D’altronde
so ben che non hai scelta.
Miranda si addormenta.
                                                        Vieni, o servo
mio, vieni! Io sono pronto. Fatti dunque
vicino, O mio Ariel. Vieni!

                              Ariele.
                                                        Salute
o possente maestro, o gran signore

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salute! Io venni qui per obbedire
ad ogni tuo comando: per volare,
per nuotar, per piombare in mezzo al fuoco
o galoppar sulle chiomanti nubi.
Ariele e il valor suo tutto è pronto
al voler tuo possente.

                             Prospero.
                                        Hai suscitato
la tempesta che - o spirto - ti dissi
di suscitare?

                              Ariele.
                 In ogni più minuto
particolare. Ho sconquassato tutta
del Re la nave, or sullo sprone alzandola
or sulla poppa e in ogni sua cabina
o sopra il ponte suscitai l’incendio.
Spesso mi son diviso ardendo in luoghi
diversi e sopra l’albero e fra mezzo
ai pennoni così distintamente
per poi di nuovo unirmi in uno. I lampi
di Giove precursori del tremendo
fulmine, non son così spessi; il fuoco,
lo scoppiettio di solforose fiamme
sembravano assediar l’alto Nettuno
e, per virtù del suo tridente, l’onde
sue piene d’ira far tremare.

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                             Prospero.
                                                           O bravo
spirito! Chi potrebbe esser sì forte
e sì costante che la sua ragione
non smarrirebbe in tale inganno?

                              Ariele.
                                                                 Credo
non un’anima sola abbia potuto
resistere a una febbre di follia
o a non dar segni di sgomento. Tutti
- i marinari eccettuati - dentro
le spume si gettarono, la nave
con me in fiamme lasciando. Ferdinando,
il figliuolo del Re, con i capelli
irti - più che capelli erano stecchi -
a lanciarsi fu il primo e strepitava:
“L’inferno è vuoto e i demoni son qui!„

                             Prospero.
È lo Spirito mio questo! Ma dimmi:
non avveniva tutto ciò vicino
alla spiaggia?

                              Ariele.
                 Vicino, o mio signore.

                             Prospero.
Ma son salvi, Ariel?

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                              Ariele.
                                      Non un capello
si è perso e sulle vesti lor che a galla
li sorreggean, non una macchia sola.
Son più fresche di prima. Ed in quel modo
che hai comandato, nei diversi punti
dell’isola gli ho sparsi in varii gruppi.
Il figliuolo del Re trassi alla spiaggia
io stesso e lo lasciai mentre coi suoi
sospiri l’aria rinfrescava, assiso
e con le braccia in triste nodo avvinte:
così.
                             Prospero.
       Ma dimmi, che facesti della
ciurma del Re e della rimanente
flotta?

                              Ariele.
        Quella del Re salva è nel porto:
io l’ho celata dentro la profonda
baia, dove una notte mi chiamasti
affinchè ti recassi dalle sempre
tempestose Bermude una rugiada.
I marinari sotto i boccaporti
stan rannicchiati, immersi in un gran sonno
che il mio incanto aggiungendosi alle molte
fatiche ha suscitato. E il resto della

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flotta che avea disperso, ho nuovamente
unito ed ora voga sopra l’onde
mediterranee raggiungendo il porto
di Napoli, dolente tutta e certa
d’aver visto affondar del Re la nave
e quel gran principe.

                             Prospero.
                                        O Ariele, il tuo
ufficio hai ben compiuto. Ma ancor altro
ci resta a fare. In quale ora del giorno
siamo?

                              Ariele.
        È trascorsa la metà.

                             Prospero.
                                                       Di due
clessidre almeno. Il tempo che ci resta
fra l’ora sesta e adesso, noi dobbiamo
sagacemente spenderlo.

                              Ariele.
                                           V’è ancora
da lavorare? Poichè tu mi dai
tante fatiche lascia ch’io rammenti
la tua promessa ancor non mantenuta.

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                             Prospero.
Che c’è di nuovo, spirito bizzarro,
e che puoi dimandarmi ora?

                              Ariele.
                                                      La mia
libertà!

                             Prospero.
          Prima ancora che sia giunto
il tempo? Basta!

                              Ariele.
                    Te ne prego, almeno
rammenta i degni uffici che ti ho fatto,
nè ho mai mentito nè ho sbagliato mai.
E ti ho servito senza brontolare,
senza rancori! Tu mi promettesti
di condonarmi un anno intiero.

                             Prospero.
                                                            Hai forse
dimenticato da qual mai supplizio
ti liberai?

                             Ariele.
         No.

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                             Prospero.
                   Sì! Per questo credi
far grandi cose sol perchè calpesti
il fango dell’amaro abisso e scorri
sull’aspro vento settentrionale
e - per il mio servigio - entro le vene
della Terra ti chiudi allor che il gelo
la stringe tutta.

                              Ariele.
                  Non è ver, signore!

                             Prospero.
Tu mentisci, o maligno spirto. Hai dunque
dimenticato Sicoràx, l’infame
strega che gli anni e che l’invidia al pari
di un cerchio avean ricurva? Dimmi, l’hai
dimenticata?

                              Ariele.
             No, signore.

                             Prospero.
                                              L’hai
dimenticata! Ove era nata? Dimmi!

                             Ariele.
In Algeri, o signore!

[p. 25 modifica]

                             Prospero.
                                          Ah sì? Da vero?
Ben una volta al mese è necessario
ch’io ti ripeta quel che fosti. E tu
l’hai già dimenticato. Quella strega
malvagia, Sicoràx, come tu sai
fu bandita da Algeri per delitti
innumeri e incantesimi capaci
di spaventare umano orecchio e pure
le salvaron la vita in prò di certa
sua azione. Non è vero?

                              Ariele.
                                              Sì,
o signore.

                             Prospero.
            Cotesta fattucchiera
dall’occhio cispellino fu condotta
quivi col figlio e abbandonata dalla
ciurma. E tu, schiavo mio, come sovente
mi hai narrato, eri suo servo e perchè
eri uno spirto troppo delicato
per compiere le infami e obbrobriose
sue volontà, ti rifiutasti ai gravi
ordini che ti dava e allor nell’impeto
dell’implacabil ira ella ti chiuse
- di possenti ministri con l’aiuto -

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nello spacco di un pino e dentro quelle
strette pareti dodici anni intieri
crudelmente restasti prigioniero.
E in questo tempo ella morì lasciando
te a gemere là dentro, con sospiri
più rapidi dei gemiti che fanno
le ruote di un molino. Allora questa
isola - se n’eccettui quel figlio
ch’ella avea partorito, un mostricciuolo
lentigginoso e degno di sua stirpe -
non era anco onorata da un’umana
forma.

                              Ariele.
       Sì, Calibano1, il figlio suo.

                             Prospero.
È quel che dico, spirto mentecatto!
Ed è appunto quel Calibàn che tengo
al mio servizio. Tu sai bene in quali
tormenti ti trovai. Faceano urlare
i lupi le tue grida e i furiosi
orsi a pietà muovevano. Un tormento
di dannato. E non era più presente
Sicoràx per disfar l’opera sua.
Fu l’arte mia che ben costrinse il pino
a riaprirsi e ti lasciò partire
allorchè quivi giunto io ti sentii.

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                              Ariele.
Grazie, o signore.

                             Prospero.
                         Se tu gemi ancora
io squarcerò una rovere e sì dentro
ti chiuderò nel suo nodoso ventre
che resterai ben dodici anni a urlare.

                              Ariele.
Perdonami, o signore, ai tuoi comandi
obbedirò di buona grazia e tutto
farò da buono spirito.

                             Prospero.
                                         Sta bene
e fra tre giorni ti libererò.

                              Ariele.
Ecco di nuovo il mio nobil padrone!
Che debbo fare? Dimmelo, che debbo
fare?

                             Prospero.
      Va’ con l’aspetto di una ninfa
del mare a tutti gli occhi occulto e solo
visibile alla tua vista e alla mia.

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Va’: prendi questa forma e poi ritorna
così cambiato qui. Sii diligente.
Ariele exit.
A Miranda.
Svegliati, cuore mio, svegliati, hai bene
dormito ed ora svegliati.

                             Miranda.
svegliandosi.
                                               Lo strano
vostro racconto mi assopiva.

                             Prospero.
                                                      Scuoti
quel tuo torpor. Vieni: visiteremo
Calibàno il mio schiavo che nessuna
buona parola ha mai per noi.

                             Miranda.
                                                       Signore,
è un villano costui nè mai lo veggo
volentieri.

                             Prospero.
            Ma ancora non possiamo
così com’è farne di meno. Accende
il nostro fuoco, il legno spacca e in molti
uffici egli ci serve che ci sono
utili.
        Olà! Su Calibàn, su schiavo!
Olà fango, rispondi!

[p. 29 modifica]

                             Calibano.
di dentro.
                                      C’è abbastanza
legno qua dentro.

                             Prospero.
                        Vieni qua ti dico.
C’è ben altro da fare. Vieni dunque,
testuggine.
Rientra Ariele in costume di ninfa.
             O gentil vista! O mio dolce
Ariele, m’ascolta in un orecchio.
Gli parla all’orecchio.

                              Ariele.
Sarà fatto, o signore.

                             Prospero.
                                          O velenoso
Schiavo che fece il diavolo all’infame
tua madre, vieni qui!
Entra Calibano.

                             Calibano.
                                           Che una rugiada
malefica qual mai mia madre trasse
con la penna di un corvo da palude
putrida, cada sopra voi. Che il vento
d’Oriente v’investa e vi ricopra
di pustole ambedue!

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                             Prospero.
                                        Sta’ pur sicuro
che per questo sarai stretto dai crampi
stanotte e ai fianchi avrai dolori tali
che il respiro ti tolgano. I folletti
nell’ore della notte allor che meglio
possono lavorare, i loro sforzi
rivolgeranno contro te. Sarai
coperto di punture così strette
come sono le celle d’alveare
e più cocenti che l’avesser fatte
gli aculei delle api.

                             Calibano.
                                     Il pranzo debbo
mangiarmi! È mia quest’isola. Mia madre
Sicoràx me la dette e tu l’hai presa!
Quando giungesti qui la prima volta
mi accogliesti benigno e gran carezze
mi facesti amichevoli. Mi davi
da bere un’acqua ove spremevi bacche
e m’insegnavi il nome della grande
luce e dell’altra piccola che il giorno
e la notte rischiarano. Ed allora
io ti amavo e cercavo di mostrarti
i pregi di quest’isola: le fresche
sorgenti, le salina, gli opulenti
terreni e quelli sterili. Sia sempre

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maledetto di aver fatto così.
Che le malie di Sicoràx, le vespe,
i rospi e vipistrelli su di voi
si abbattano. Però che sono il solo
vostro suddito e prima ero sovrano
di me stesso! E mi date come cuccia
quell’aspra roccia, e tutta quanta l’isola
mi togliete!

                             Prospero.
             O bugiardo schiavo, i colpi
ti commuovono e non le gentilezze.
Se ben marcio tu sia, con una umana
attenzione io ti ho trattato e nella
mia stessa grotta ti ho tenuto, fino
al giorno in cui tentasti violare
l’onore di mia figlia!

                             Calibano.
                                       Oho! lo avessi
potuto fare! Se non lo impedivi
l’isola tutta avrei ripopolato
di Calibani!

                             Prospero.
                O schiavo maledetto
cui nessuna bontà lascerà impronta
chè sei capace d’ogni male! Ho avuto
pietà di te, mi sono imposto il grave
compito di farti parlare. Ogni ora

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ti ho insegnato una cosa o l’altra. E quando
non sapevi, o selvaggio, disbrogliare
il tuo pensiero e mugolavi acute
strida sì come un bruto, a quelli oscuri
tuoi sentimenti ho dato una parola
che li rese palesi. Ma la tua
vile stirpe - quantunque tu imparassi -
aveva in se tali funesti germi
che non poteano i buoni sopportarne
il contatto. È così che giustamente
ti ho chiuso in questa roccia, meritata
assai più che una carcere.

                             Calibano.
                                                  Mi avete
insegnato a parlare e ne profitto
per maledire. Che la peste rossa
vi uccida per avermi appreso il vostro
linguaggio.

                             Prospero.
             Mal seme di strega, via
di qua! La legna arrecaci e sii pronto,
se mi credi, che c’è nuovo lavoro.
Scuoti le spalle, o maligno? Se mostri
trascuratezza o mal voler nel fare
quel che ti ordinerò, tutto ti voglio
torcer con vecchi crampi, empirti l’ossa
di spasimi e ruggire in tal maniera

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io ti farò, che all’urla tue le belve
tremeranno!

                             Calibano.
                  Ti prego, no, ti prego!
A parte.
Debbo obbedire e sì potente è l’arte
sua che saprebbe Setebos, il dio
di mia madre, far servo.

                             Prospero.
                                           Orsù, via schiavo!
Exit Calibano.
Rientra Ariele invisibile, suonando
e cantando. Ferdinando lo segue.

                             Ariele.
cantando.
Su queste sabbie gialle
prendetevi per mano
dopo la riverenza
farete il baciamano
- taccion l’onde ribelli -
danzate, e dolci spiriti
cantano i ritornelli
Ascoltate! ascoltate
Si ode abbaiare dal di dentro.
abbaiano i cani di guardia!

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Si ode di nuovo abbaiare.
Ascoltate! ascoltate: si udì
Lanciar Cantachiaro
il prosuntuoso suo chicchirichì!

                            Ferdinando.
Dove saranno questi canti? In cielo
o sulla terra? Io più non gli odo e pure
vigileran su qualche Dio di questa
isola. Ch’io mi segga anche una volta
e pianga anche una volta il naufragato
mio padre. Sopra l’onde furiose
mi colpì questa musica addolcendo
l’impeto loro e insieme il mio dolore
con sua dolcezza. Allora io l’ho seguita
o meglio quella mi condusse qui.
Ora è cessata. No, di nuovo ancora
ricomincia.

                              Ariele.
cantando.
A ben cinque braccia nel mare
tuo padre si giace sepolto:
coralli son l’ossa,
son gli occhi due perle nel volto.
Ma niente di lui sarà vano
che per un incanto del mare
dovrà trasformarsi in qualcosa
di ricco e di strano.

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O ninfe del mare intonate
per lui, d’ora in ora il lamento
Si ode suono di campane.
Din‐don le campane - le sento
Din‐don le campane
Di nuovo il suono di campane.2

                            Ferdinando.
              Quel canto di mio padre
annegato racconta. Non è cosa
mortale e non è suono che alla terra
appartenga. Or lo sento sopra me!

                             Prospero.
a Miranda.
Le infrangiate cortine dei tuoi occhi
solleva e dimmi quel che vedi.

                             Miranda.
                                                            È mai
uno spirito? Come egli si guarda
intorno! Credete a me, signore,
nobile forma egli ha, ma senza dubbio
è uno spirito.

                             Prospero.
                    No, bambina, ei dorme
e mangia ed ha li stessi sensi tutti
che abbiamo noi; li stessi. Quel galante
che vedi là fuor del naufragio, quando

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non fosse dal dolor battuto - il duolo
della bellezza è il cancro - tu potresti
bel giovine chiamarlo. I suoi compagni
ha perduto e qua e là tenta cercarli.

                             Miranda
Posso chiamarlo un essere divino,
che mai di naturale ho visto tanto
nobile!

                             Prospero.
da sè.
      S’incamminano le cose
come l’animo mio sperava. O Spirito,
lieve Spirito! in meno di due giorni,
per questo fatto, libero sarai.

                            Ferdinando.
Certo, quella è la dea che questo canto
accompagnava. I miei voti ascoltate:
posso sapere se abitate questa
isola? E mi potete dar consiglio
del come debba quivi comportarmi?
Ma la prima dimanda è questa ch’io
v’indirizzo per ultima: O portento,
siete fanciulla o no?3

                             Miranda.
                                       Non un portento,
signore, ma fanciulla certo.

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                            Ferdinando.
                                                     Il mio
stesso linguaggio! O cielo! E pur sarei
primo fra quelli che un linguaggio tale
parlano, se ancor fossi nel paese
dove si parla.

                             Prospero.
                   Come il primo? E cosa
diverresti mai tu se ti sentisse
parlare il Re di Napoli?

                            Ferdinando.
                                                 Lo stesso
di quel ch’io sono, pien di meraviglia
nell’udirti di Napoli parlare.
Egli mi udiva ed è per questo ch’io
piangevo. Il Re di Napoli son io
oramai, chè ho veduto con questi occhi
- d’onde non più cessò l’alta marea
delle lacrime - il padre naufragare.

                             Miranda.
Ahimè che pena!

                            Ferdinando.
                               Sì, sulla mia fede!
E insiem con lui tutta la Corte e il Duca
di Milano col suo nobile figlio.

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                             Prospero.
a parte.
Il Duca di Milano con la sua
più nobile figliuola ti potrebbe
smentir, se lo credesse. A prima vista
si son scambiati i loro sguardi. O dolce
Ariel, sarai libero per questo!
A Ferdinando.
Signore, una parola, con i vostri
discorsi io temo non vi siate fatto
qualche danno. Ascoltate: una parola.

                             Miranda.
da sè.
Perchè mio padre sì scortesemente
gli parla? È questo il terzo essere umano
ch’io vidi mai, ma il primo per il quale
io mi sospiri. La pietà sospinga
mio padre dalla mia parte.

                            Ferdinando.
                                                    Se siete
vergine ancora e il vostro cor non sia
impegnato, di Napoli regina
io vi farò!

                             Prospero.
               Piano, signore, ancora
una parola!

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A parte.
                    Entrambi sono presi
da uno stesso potere, ma bisogna
questi rapidi eventi ritardare
perchè una troppo facile vittoria
non renda il premio troppo lieve.
A Ferdinando.
                                                               Ancora
una parola: ascoltami, t’impongo
di seguirmi. Tu, certo usurpi un nome
che non è il tuo: come una spia venisti
in quest’isola e tenti d’usurparla
a me che sono il suo sovrano.

                            Ferdinando.
                                                               No!
come è vero ch’io sono un uomo!

                            Miranda.
                                                           Nulla
di male può abitare un simil tempio.
Se dimora sì bella avrà cattivo
spirito, i buoni spirti cercheranno
di abitarla con lui.

                             Prospero.
                                    Seguimi!
A Miranda.
                                                 Smetti
di chieder grazia! È un traditore.

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A Ferdinando.
                                                                Vieni!
Il collo ai piedi t’incatenerò,
l’acqua del mar sarà la tua bevanda,
conchiglie d’acqua dolce avrai per cibo
e disseccate radiche ed i gusci
delle ghiande. Su, vieni!

                            Ferdinando.
                                                No! Che prima
di subir tale trattamento voglio
aspettare un nemico più possente.
Sfodera la spada e resta immobile per incanto.

                             Miranda.
O caro padre nol tentar con prova
troppo imprudente: è nobile e non è
timido!

                             Prospero.
          Cosa? Il mio piede diventa
mio maestro?
A Ferdinando.
                 Rinfodera la spada,
traditore che tenti di colpire
ma che non osi, tanto la certezza
di tua colpa ti aggrava. Smetti dunque
di stare in guardia! Con la mia bacchetta
io posso disarmarti e far cadere
la tua spada.

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                             Miranda.
                 Vi supplico, o mio padre!

                             Prospero.
Via di qua, non appenderti alle mie
vesti.

                             Miranda.
    Pietà, signore, io sarò il suo
ostaggio!

                             Prospero.
           Basta! Ancora una parola
e mi cruccerò teco, per non dire
che ti odierò. Per simile impostore
guarda quale avvocato! Zitta! Credi
forse che non ci sieno altre figure
come questa, perchè non ne vedesti
all’infuori di Calibàno e della
sua? Folle bimba, al paragone d’altri
uomini, Calibàno egli è; son tutti
angeli al suo confronto.

                             Miranda.
                                               Umili molto
son dunque i sentimenti miei: non cerco
di vederne migliori.

[p. 42 modifica]

                             Prospero.
                                     Or dunque, andiamo.
Obbedisci! I tuoi nervi son di nuovo
in infanzia e non hanno più vigore.

                            Ferdinando.
Ed infatti è così! Tutti i pensieri
come in un sogno son paralizzati.
La morte di mio padre, la stanchezza
ch’io sento, e quella perdita di tutti
gli amici miei, per fino le minacce
di quest’uomo a cui sono sottomesso,
saranno lievi cose a me se dalla
mia prigione potrò solo una volta
al giorno, contemplar questa fanciulla.
La libertà tenga ogni più riposto
angolo della terra: in tal prigione
avrò spazio bastante.

                             Prospero.
da sè.
                                          Bene!
A Ferdinando.
                                                      Andiamo!
Da sè.
Buon Ariele, ben oprasti!
A Ferdinando.
                                                      Andiamo!
Ad Ariele.
Ascolta quel che devi fare.

[p. 43 modifica]

                             Miranda.
                                                    Abbiate
coraggio: assai migliore è il padre mio
di quel che il suo parlar non lo dimostri.
Quello che ha fatto è fuor del suo costume.

                             Prospero.
d Ariele.
Tu libero sarai siccome il vento
delle montagne, ma il comando mio `
in ogni punto devi esattamente
adempiere!

                              Ariele.
           Alla lettera!

                             Prospero.
A Miranda.
                                              Su, via
seguimi e non parlarmi in suo favore.

  1. [p. 181 modifica]Con questo personaggio, l'autore ha voluto senza dubbio personificare uno di quelli indigeni ‒ di razza rossa ‒ che nei viaggi a cui si accenna nella prefazione assumevano tanti e tanto fantastici aspetti. Il Farmer osserva poi come Caliban sia metatesi di Canibal e l'osservazione è tanto più giusta in quanto gli anagrammi e i giuochi di parole erano di moda in quell'epoca.
  2. [p. 181 modifica]Questa canzone e l'altra del quarto atto: là dove sugge l'ape, ecc.... furono musicate da Robert Johnson e pubblicate a Oxford nel 1660 dal Dr. Wilson, in una raccolta intitolata Court Ayres or Ballads.
  3. [p. 182 modifica]Questa esclamazione di Ferdinando si è prestata a molti comenti dovuti alle diverse interpretazioni del testo. Secondo la maggior parte delle edizioni inglesi il testo direbbe:
    O you wonder!
    If you be made or no!
    a cui Miranda risponde:
    No wonder, sir;
    But certaily a maid.
    giuocando sul doppio significato di made-creatura, cosa creata, e maid-vergine come aveva frainteso la figlia di Prospero. Ma secondo il Malone, questo gioco di parole non doveva esistere nel testo originale tanto più che le prime copie leggono if you be maid or no. Del resto, l'interpretazione che ha suscitato grandi dispute fra i comentatori ha valore relativo e secondo noi è bene concludere con le parole del Mason il quale osserva giustamente che tutta la questione si riduce a sapere se i lettori vorranno adottare un'espressione semplice e naturale che non ha bisogno di comenti o meglio un'altra che l'ingenuità di molti comentatori ha interpretato imperfettamente.