La sorella/Atto I
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ATTO I.
SCENA I.
Attilio giovane, Trinca servo.
Attilio. E ti disse che Pardo mio padre m’avea ammogliato con Sulpizia?
Trinca. E mi disse che Pardo vostro padre v’avea ammogliato con Sulpizia.
Attilio. E la mia Cleria col capitano?
Trinca. E la vostra Cleria col capitano.
Attilio. E che le nozze si facevano per la sera seguente?
Trinca. E che le nozze si facevano per la sera seguente.
Attilio. E ti parea che lo dicesse da senno?
Trinca. E mi parea che lo dicesse da senno.
Attilio. Mi rispondi con le medesime parole, e tanto seccamente, che mi lasci mille desidèri di sapere. Nelle cose d’amore o d’importanza bisogna dir tutte le minuzzarie, perché un minimo atto, una minima parola mi potrebbe indrizzare al rimedio.
Trinca. Ve l’ho riferito con le medesime parole, che mi son state dette, né piú né meno tantillo ve’: non bisogna dimandarmene piú, ché non sarete per saperne altro tutto oggi.
Attilio. S’affligessero cosí te, come me, non schivaresti cosí di ragionarmene.
Trinca. E perché so che v’affliggono, però schivo di ragionarvene.
Attilio. Se ben m’affliggono, pur nell’afflizione vi ritrovo qualche piacer mischiato. Ma ne’ travagli, dove mi trovo, ci sono per li tuoi consigli; e meriteresti che ti spianasse le spalle, ché ancor tu ne patissi la parte del mio affanno.
Trinca. O gran miseria è l’esser servo d’innamorati, i quali non sanno star nel mezzo, ma sempre sugli eccessi. Quando si trovano nelle calamitá, ti vengono con certe furie adosso, che vogli aiutargli con l’opre o col consiglio, che non ti dan tempo a pensare. E l’uomo si pone a pericolo della forca, se si scuopre: e se per qualche bella invenzione il fatto succede bene, non si ricordano del consigliero e attendono a sollazzarsi; ma, quando si scuoprono gl’inganni e si veggono ne’ pericoli, ti vogliono spianar le spalle, come ministri de’ loro danni.
Attilio. Te l’ho detto come la sento.
Trinca. Ben sapete che il volersi sodisfare de illeciti amori e di poco onesti desidèri suol partorir mostri d’infamia e di disgrazie, perché non si conseguiscono se non con inganni e sceleratezze, le quali al fin vengono a scoprirsi, e l’uomo cade poi in travagli peggiori; ma a ciò m’indussero le vostre preghiere.
Attilio. Ancor che te ne pregava, non dovevi aiutarmi.
Trinca. Non dicevate cosí allora, che, se non conseguivate la vostra Cleria, volevate andar disperso per il mondo o ammazzarvi con le vostre mani, e mi stavate con le ginocchia in terra pregandomi; e or non vi ricordate, che con le mie astuzie vi ho posto a cavallo.
Attilio. Anzi su un asino per esser scopato per tutto il mondo.
Trinca. Pacienza.
Attilio. Orsú, che faremo per uscir di travaglio?
Trinca. I vostri travagli a voi s’appartengono. Con i vostri portamenti piú tosto mi sforzate a disservirvi che a servirvi.
Attilio. Rimedia con qualche medicina, tu che puoi.
Trinca. Non son medico, né fui mai a Padoa per istudiare.
Attilio. Col tardar, la malattia mi potrebbe uccidere.
Trinca. Pigliate silopi e medicine che vi purghino il corpo.
Attilio. Se tu non vuoi esser mio medico, sarò io tuo. Ti darò un recipe di venti pugna sul mustaccio e di trenta calci nelle reni.
Trinca. No, no.
Attilio. So che con due parole tu puoi far miracoli.
Trinca. Non son negromante, che fo miracoli con le parole.
Attilio. Non ho visto al mondo piú colerico uomo di te, ché avendoti detto, burlando, che ti voleva spianar le spalle, te l’hai preso da dovero. Se ben mostrava colera fuori, burlava dentro. Io offender te, che sei tutto il mio bene?
Trinca. Ho da servirvi nelle cose oneste, no nelle scelerate.
Attilio. Non è cosa onesta salvar l’onor e la vita di Cleria mia insieme con me, che, succedendo quel che disegna mio padre, m’ucciderei con le mie mani?
Trinca. Cosí dicevate allora. Non mi ci cogli piú.
Attilio. M’hai servito altre volte con molta prontezza; e or, piú che mai bisognoso del tuo aiuto, vengo con la medesima confidenza a pregarti che adopri tutto il tuo sapere e ci metti tutto il tuo studio.
Trinca. Il padron amorevole e grato fa sollecito il servidore.
Attilio. Servimi, che ti darò un paio di calze.
Trinca. Un paio di calci piú tosto. Ma voi vi promettete molto di me e v’imaginati che con quella agevolezza che dite «aiutami», che subito siate aiutato. L’invenzioni son facili a trovar, ma al riuscir ti voglio: il dir e il fare non mangiano spesso in una tavola: credete di me l’incredibile e pensate che possa l’impossibile.
Attilio. So che dalla tua scuola sogliono uscir molte buone opre.
Trinca. Or, poiché m’avete per un tristo, vo’ che ne veggiate l’effetto.
Attilio. Di grazia, di’ presto, fa’ presto.
Trinca. La prestezza è quella che guasta i negozi: bisogna maturo consiglio e non prestezza.
Attilio. Chi troppo consiglia, non fa nulla.
Trinca. Sappiate che niuno, meglio ch’Erotico vostro amico, può trarvi dal pericolo dove siete.
Attilio. Erotico, quanto prima m’era amico, tanto m’è or inimico: l’amore è un violento effetto dell’anima nostra, cosí l’odio, che da l’amor nasce, è crudelissimo.
Trinca. Come lo farete capace della veritá, vi servirá, come or ci impedisce il servire.
Attilio. Andiamo a trovarlo: che usar viltá e cose che mi dispiacciono vo’ che per amor mi divenghino dilettevoli.
Trinca. Andiamo.
SCENA II.
Balia, Erotico giovane.
Balia. Ahi, quanto poco durano i diletti d’amore, e quanti sono quelli che sovrastanno! Povera figlia, bisognarebbe aver un cuor di turco, per non crepar di dolore. Ma dove troverò io Erotico, che è il sostegno delle nostre speranze?
Erotico. Come dalla mattina il primo negozio va in fallo, tutti vanno a roverscio in quel giorno.
Balia. Ma eccolo. Signor Erotico!
Erotico. O carissima balia! La fortuna muterá tenore, essendomi incontrato con la tesoriera de’ nostri amorosi secreti, con l’aurora del mio sole. Che novella m’apporti della mia dolcissima Sulpizia?
Balia. Cattiva, la peggior che sia.
Erotico. Dimmela, non piú tardare.
Balia. Mi dispiace di darvela.
Erotico. Non dovevi cominciare, se non volevi darmela.
Balia. Sulpizia è maritata.
Erotico. E con chi?
Balia. Con Attilio.
Erotico. Ahi, fortuna traditora, e che potevi tu farmi peggio?
Balia. Vi ha fatto peggio: che Orgio suo zio vuol che per questa sera si faccino le nozze, che la brevitá del tempo ne priva di consigli e di rimedi.
Erotico. Mi volevi dar una cattiva nuova, e or me ne dái due.
Balia. Fortuna non comincia per una né per due.
Erotico. Ecci forse altro?
Balia. Altro sí.
Erotico. Non piú, di grazia.
Balia. È forza dirlo per potervi rimediare.
Erotico. Oh, misero me!
Balia. S’è accorto il zio, ch’io sia stata la mezana de’ vostri amori; e m’ha proibito che non vada fuor di casa né che vi ragioni, con grandissime ingiurie e minaccie.
Erotico. Questo è l’ultimo crollo delle nostre ruine, che non possiam avisarci, né conferirci insieme gli appuntamenti nostri. Sulpizia mia che dice di ciò? come sta?
Balia. Sta piú innamorata e piú ostinata che mai. Voi sapete che, se tutte le donne al principio son ritrose ad amare, come amor pone la radice nella natura loro e vi penetra sul vivo, se ci attacca di modo che non può piú sradicarsene. Pensate poi che sará, quando si generano poi le radici delle radici? Ella sdegna la vita senza voi.
Erotico. Non deve sdegnarla, sapendo quanto amorevole e caro albergo ha nel mio core, e la certezza che amo cosí lei, come ella ama me, e come tutti i nostri pensieri son drizzati ad un segno.
Balia. Chi ama, teme, e teme sempre del peggio.
Erotico. Come può temere, se il nostro vicendevole amore cominciò da fanciullezza, dalle nostre libere volontá concordi insieme, e conservatosi poi si lungo tempo che non basta maligna stella a disunir tanta corrispondenza di amore? E se nel nostro amoroso corso ci accade qualche intoppo, abbia speranza che un giorno ci ristoreremo con tanta piú dolcezza, con quanta piú amarezza abbiamo passata una tempesta di cosí maligna fortuna.
Balia. La tempesta, che voi dite, passerá subito; ma la sua s’ingagliardisce da un rabbioso vento di gelosia, che ha inteso che Pardo disegna darvi Cleria per moglie, ed ella è insospettita che la bellezza di Cleria non vi distorni da amar lei, onde arde di un doppio fuoco: di amore e di gelosia.
Erotico. Io perda la vista degli occhi miei, se per altro gli ho a caro, che per mirar la sua bellezza, e se posso mirar altro che lei.
Balia. Vi ricorda che se ben non è bella come Cleria, che voi ne sète cagione. Che se gli occhi suoi son scoloriti, e i giri d’intorno lividi, ricordatevi delle lacrime che l’avete fatto spargere, e quanto il sonno è stato lontano da loro. Se il volto è pallido e sbigottito, e la morte v’ha spiegato l’insegne sue, considerate i travagli e le pene che le date, e il tosco di che la nodrite. Che se la fortuna volesse darle qualche sorte di contento, bisognarebbe che avesse un altro cuore, che lo bastasse a soffrire, cosí il suo è avezzo a soffrir sempre.
Erotico. O balia, quanto mi trafiggi il cuore in udirti! Io non potrei dir mai l’imperio che han sovra di me la bontá, la bellezza, la grazia e i suoi onesti costumi; e come per un secreto voler d’amore è cosí impadronita della mia volontá, che non posso voler se non quello ch’ella vuole.
Balia. Ma quanto ella è avanzata dalle bellezze del corpo di Cleria, tanto ella avanza, con le bellezze dell’animo, Cleria di gran lunga. E vedete l’esperienza, che voi non tanto l’avete disamata, quanto ella con ogni forma di verace amore vi ave amato; non tanto voi disprezzata, quanto ella v’ha riverito. Non datele voi tanti disgusti, quanti ella se n’ha inghiottiti. E con la fede e costanza del suo amore, ha vinto i vostri disamori, i dispreggi e le passioni; e nelle voraci fiamme, dove gran tempo è consumata, morta e incenerita, quasi novella fenice, è ravvivata a piú bella e chiara vita e rinovellata sempre nel suo amore. Or di questa bellezza avrebbe a caro che ne faceste paragone con quella di Cleria, che, consideratala da presso, la renderebbe fosca e contrafatta. E dove or nella sua faccia si veggono scolpiti i trofei e le spoglie della vostra crudeltá, in quella dell’animo vedreste la gloria della sua fede e i trionfi della sua costanza.
Erotico. Balia, con le tue parole m’intorbidi l’animo di sorte che non si rasserenará piú mai. Giuro per la sua vita — ché non ho qui in terra maggior cosa da giurare — che nella maestá del suo volto vi riluce una spezie d’imperio reale, che mi risveglia l’animo a gran desidèri di gloria e m’innalza con gli occhi dell’intelletto a considerar quella dell’animo suo senza pari; e mi servo di quella sua bellezza, come occhiali, per innalzarmi a piú sublime grado di contemplazione, a quel sommo bene, a quella celeste ineffabil bellezza, anzi fonte onde scaturisce ogni bellezza. Però la priego, per quanto amor mi porta, che non entri in tal pensiero; e mi doglio ch’io non posso aperto mostrarle il cuore, ch’ivi vedrebbe risplender la sua bella imagine, come in un lucido e polito specchio, e star tanto occupato e ripieno di quella, che non v’è piú luogo per altre, e che son chiuse le vie a tutte. E qual mai altra donna fu piú amorevole nella buona fortuna? qual piú costante nell’adversa? qual piú presta ne’ serviggi? qual nell’assenza piú congionta col mio cuore? in qual altro cuore piú generosi spirti e nobilissimi pensieri? O donna d’eroica e incomparabil virtú! Onde, nel complimento di tante sue azioni mi son piú confirmato nella venerazione della sua persona.
Balia. E che avendo ad esser di Cleria, vi supplica e vi scongiura, ch’in ricompensa dell’amor suo o per merito della vostra grazia, che in abito disconosciuto di paggio o di fantesca la riceviate in casa ne’ vostri serviggi: se non come moglie, almeno come ministra della vostra felicitá e spettatrice del suo primo amore; e in quell’abito vi mostrará in parte quell’umil servitú con la quale desidera servirvi ogni ora. Prendetela per serva o per ischiava: ogni stato le sará felice e ogni fatica dolce.
Erotico. Dille che, non potendo altro, entrarò in casa sua, e con un pugnale mi vendicherò di quel barbaro e discortese suo zio; e in quella dolcezza di vendetta m’ucciderò ancor io.
Balia. Vi ricordo che siate diligente.
Erotico. Potrei esser privo di giudizio e di valore in ogni cosa, ma non in quello dove si tratta del suo serviggio.
Balia. Guardate, che vi sta mirando dalla fenestra e vi fa l’occhino: salutatela e mandatele un bacio, se la volete rallegrare.
Erotico. Ecco, la saluto e la bacio.
Balia. Non vedete, che s’è inchinata da dentro la gelosia e vi ha ribaciato? Che volete che le dica da vostra parte?
Erotico. Che si scriva queste parole nel core: che l’amor mio va sempre crescendo di giorno in giorno, come crescono in lei la bellezza e l’onorate sue azioni, e che non è per mancar mai: che non ho tempo di trattenermi con lei, perché corro per rimediare a cosí strano accidente.
Balia. Si duole che molti giorni sono, che non siate venuto a ragionar con lei.
Erotico. Dille che non è mai giorno, che, delle ventiquattro ore che sono, non ne ragioni sempre con lei le quarantotto.
Balia. Come, se non ci venete?
Erotico. La continua memoria che ho di lei, e quel ritratto, che mi sta nel cuor dipinto per man di amore col pennello della imaginazione, sta piú vivo nel mio core, che non ci sta l’anima istessa: ragionando io con lei ed ella meco, ci raguagliamo e dogliamo insieme delle miserie nostre.
Balia. Almeno passate di lá.
Erotico. Se non ci passo col corpo, ci passo con l’animo mille volte; e quanto è miglior l’animo del corpo, tanto è piú degna quella vista di questa.
Balia. A dio.
SCENA III.
Erotico, Attilio, Trinca.
Attilio. Ecco, l’abbiam pur trovato al fine.
Erotico. (Non ci è piú fede al mondo, non si trova piú uomo di cui possa fidarsi. Al tempo d’oggi la fede è ritrovata per ingannar la fede. Ma io vo’ tradir e ingannar ciascuno, poiché ciascuno cerca tradir e ingannar me).
Attilio. Parla da sé solo.
Trinca. Come quello che sta ne’ travagli dove tu sei.
Erotico. (Vo’ andarmene in qualche isola diserta, per non esser ingannato da uomo piú. Sulpizia farsi d’altri, eh?).
Trinca. Forse che parla d’altro?
Attilio. Come amor entra in un cuore, ne scaccia ogni altro pensiero, perché vuol regnar solo.
Erotico. (Ma Idio non mi dia cosa che desio, se non ne farò vendetta tale, qual merita il mio dolore e la rabbiosa gelosia).
Trinca. Salutatelo.
Attilio. Signor Erotico, buon giorno.
Erotico. (Mi dá il buon giorno chi desia darmi il malanno. Ma sará ben che gli parli; che, se non posso impetrar da lui che la lasci, impetrarò almeno che la lasci per qualche giorno). Idio vi salvi, signor Attilio.
Attilio. Come state?
Erotico. Tal che non posso trovar modo per dolermi del mio dolore.
Attilio. Di che vi dolete?
Erotico. Che non si trova piú fede né amicizia, perché un che mi credea fidel amico, sotto color d’amicizia m’ha tradito e assassinato.
Attilio. Costui sará il piú tristo uomo del mondo.
Erotico. Tal lo stimo io.
Attilio. Ditemi, di grazia, chi sia il traditor di fede e assassino d’amici, ché prometto farne la vendetta per voi.
Erotico. È vostro grande amico.
Attilio. Tanto piú dovete manifestarlomi, accioché possa guardarmi da lui.
Erotico. Fareste ben a farlo, perché è ragionevole e debito vostro.
Attilio. Come si chiama?
Erotico. Attilio. E voi sète quello che mi tradite e assassinate, e mi fate il peggior officio che possa farsi; e avete un gran torto.
Attilio. Avete voi torto maggiore aver una tal stima di me — e io vi compatisco, perché sète fuor di voi stesso — perch’io son lealissimo con gli amici.
Erotico. Ma vi prego per quella cara amicizia, che un tempo fu sí perfetta e incorrotta fra noi, che mi siate cortese di quello ch’è mio, per rigor di giustizia e per debito di amore...
Attilio. Io non intendo il vostro parlare: o ch’io sia troppo goffo o che voi non esprimete bene il vostro concetto.
Erotico. ... che non prendiate Sulpizia per consorte.
Attilio. Deh, caro Erotico, chi ve lo dice?
Erotico. Tutta la cittá. Ma sappiate che Sulpizia è mio dono irrevocabile, perché ci abbiamo data la fede di essere sposi, e i nostri amori non son stati sterili: però non sarete per possederla legitimamente mai per moglie, né senza gelosia.
Attilio. Io prender la vostra Sulpizia per moglie?
Erotico. E sappiate che, se ben l’uomo per sé non val nulla, la disperazione lo fa valoroso. Almeno trattenetevi per qualche tempo, accioché non vedano gli occhi miei cosí nemico spettacolo e io abbia tempo a partirmi per andar disperso per il mondo: cosí viverete senza mio sospetto.
Attilio. Voi potete promettervi di me come di voi stesso, perché stimo voi come un altro me stesso; e vi do potestá che ve la godiate e procacciate per moglie, ch’io vi rinunzio ogni interesse che pretendesse in lei, e ve la rifiuto.
Erotico. Ella non è cosa di rifiuto, però non voglio crederlo.
Attilio. Se non volete credere il vero, crederete il falso.
Erotico. E che credete ch’io creda?
Attilio. Ogni altra cosa, fuor che la veritá.
Erotico. Piacesse a Dio che cosí fusse!
Attilio. A Dio piace che cosí sia.
Erotico. Dubito che non lo diciate, ché, confidandomi nelle parole vostre, mi attraversiate e la conseguiate con piú agevolezza.
Attilio. Io stimo che i nostri travagli abbino gran somiglianza e corrispondenza fra loro; ma accioché io non mi doglia di voi di quello che voi vi dolete di me, vi narrerò il tutto, e vederete che, se voi avete ragione, io non ho il torto.
Trinca. Signor Erotico, se voi non tacete, e voi, padrone, non scoprite il fatto, consumaremo il giorno; e noi abbiamo carestia di tempo.
Erotico. Io taccio e ascolto, e per ascoltar meglio comprarei un altro paio di orecchie.
Attilio. Sappiate che, trovandosi Pardo mio padre a’ serviggi della regina Bona in Polonia, ché la serviva di scalco, per stanziarvi piú aggiatamente mandò a chiamar Costanza sua moglie e Cleria sua figlia, allora bambina, da Nola, perché condusse me seco, ch’era un poco grandetto. Accadde che, essendosi imbarcate in Bari per andar a trovarlo, per una fiera tempesta non s’ebbe piú nuova di loro; talché in avisi e in lettere a diversi amici, in diverse parti, s’andar consumando il tempo e le speranze, e fra tanto si tenne suspeso il dolore. Poi venne aviso come la barca era sommersa: e sommerse mio padre in un mar di lacrime e in una amarissima memoria di lor duro caso. Appresso s’ebbe nuova che, da alcune fuste di turchi rapite, erano state condotte in Constantinopoli. Duo anni sono, ebbe nuova di Costanza sua moglie, ch’era schiava di un bassá, che, per esser decrepita, l’avrebbe venduta a buona derata; e che Cleria serviva un sangiacco fuor di Costantinopoli. Pardo mio padre mi sforzò a far questo viaggio, e mi diede trecento scudi per lo riscatto e altri per lo viaggio, con lettere di favore a quei clarissimi in Vineggia, che di lá m’imbarcassi per Constantinopoli. Giunsi a Vineggia, in casa di un napolitano, chiamato Pandolfo, dove sogliono alloggiare tutti i passaggieri napolitani. Venne l’ora della cena, e ci sedemmo a tavola; e una giovane, chiamata Sofia, ci serviva. Ella, nel volgermi gli occhi sopra, mi lanciò una fiamma nel core, che non cessò mai serpir per tutto, fin che non fece ben l’officio suo. Io, sentendomi le vene diseccate dal fuoco, chiedea da bere, e per rinfrescarmi e per godermi di quella divinissima vista piú da presso. Ma facea contrario effetto, perché amor avea mischiato veleno e fuoco in quel vino che mi avvelenava e uccideva in un tempo. Cosí, tra vivo e morto, non sapeva che mangiava o beveva o aveva; ma parea un di quei che si sognano mangiare: che la mia cena fu la sua bellezza. Si levò la mensa, e tutto inebriato di amore, me ne andai a dormire, con speranza di riposare, pensandomi che l’infirmitá dell’animo fossero come quelle del corpo, che col sonno s’acchetassero. Ma il sonno fu peggio che la cena: perché l’infirmitá dell’animo nel giorno s’addormentano per la conversazione degli amici, ma nella quiete della notte si destano le pene e gli amorosi pensieri. Pur, verso l’alba, un leggier sogno m’occupò le luci: neanche quel sogno mi lasciava riposare, perché mi rappresentava le parole e gli atti di Sofía. Parlava seco de’ miei tormenti, l’abbracciava e baciava; e, pensando abbracciar lei, abbracciava me stesso e le lenzuola, e finalmente tutte fur larve e imagini del desiderato bene. Vien Trinca la mattina a sollecitarmi che m’alzi per partire, e m’interrompe cosí gran piacere.
Erotico. V’alzaste, vi poneste in viaggio per riscattar la madre e la sorella.
Attilio. Che madre? che sorella? che viaggio? Tutte queste cose in tanto odio mi caddero, che maggior dispiacere non potea sentire, se col pensiero caduto vi fussi. Cosí, fingendomi indisposto, ci componemmo con Pandolfo di riposarmi per alcun giorno in casa sua, non mancando mai con soffrenza e umiltá batter l’inespugnabil rocca del suo pudico core. Quando mi passava da presso, la toccava un poco; e tanto m’eran piú care quelle rapite dolcezze, con quanti piú piacevoli sdegni e con piú modestia mi eran contese. E veramente la modestia è quella che dá spirito e ravviva la bellezza. Al fin mi rese certo che non meno ella mi amava, ch’era amata da me; come era donzella e gentil donna, che desiderarla per altro modo che per moglie, era un perder tempo. E veramente le sue azioni e maniere erano tanto oneste e d’incorrotta pudicizia, che mi toglievano ogni ardir di usarle violenza; e i suoi costumi mostravano lo splendor de’ suoi natali e, anco schiava, mostrava la dignitá del suo merito. Cosí mi trovai servo della serva e schiavo della schiava. Al fin pagai ducento ducati, che per tanti Pandolfo l’avea riscattata; e feci libera chi ligato mi avea. Ma non tanto la feci libera del corpo, quanto ella mi rimase serva con l’animo. La sposai e fui possessor della sua bellezza. ...
Trinca. Deh, rassumete il fatto in breve somma, ché, se volete raccontargli ogni cosa appuntino, consumaremo il giorno.
Attilio. ... Cosí consigliato da Trinca, scrissi a mio padre da Vineggia, come fossi in Constantinopoli, che Costanza sua moglie era morta, e che avea riscattato Cleria per ducento ducati, e con lei me ne veniva a Nola — e portai Sofia mia innamorata sotto nome di Cleria mia sorella, — dove fin ora con grandissima consolazione vissuti siamo. Or considera, Erotico caro, che voglia abbia io di aver la tua Sulpizia per moglie, che non cambiarei la mia Sofia per quante reine ha il mondo.
Erotico. Non ascoltai mai narrazion di comedia con piú piacere, perché mi toglie da un mar di travagli. Or ditemi, come potremo aiutarci l’un l’altro?
Attilio. Ho fatto la parte mia in comedia, il resto tocca a Trinca.
Trinca. Ho caro che il signor Erotico ascolti la mia invenzione, accioché non m’ingannassi il giudizio. Ascoltate, e non mi replicate insin al fin del mio ragionamento. Pardo vuol maritar Cleria col capitano, perché non gli dá dote; e Gulone parasito tratta le nozze. Proporremo voi a Pardo con la medesima condizione; e come che voi sète di maggior merito, stimo che l’otterremo. Poi diremo che Attilio vuol prender Sulpizia, perché il vecchio lo desia molto, e vuol che si sposino per la sera che viene. Diremo che volete abitare insieme, come amici di molti anni, o nella vostra o nella sua casa: il giorno, Sulpizia sará moglie di Attilio, e Cleria di Erotico dalla cintura in su; la notte, Sulpizia di Erotico, e Cleria di Attilio dalla cintura in giú; e bisogna scambiar le mogli fin che vive il vecchio, il qual non potrá viver molto.
Erotico. Se sposerò Cleria, come potrò goder la mia Sulpizia? e se Attilio sposerá Sulpizia, come potrá goder la sua Cleria?
Trinca. Con la vostra impacienza interrompete me e turbate voi stesso: se mi ascoltavate, come v’ho detto da prima, intendevate il modo. Troveremo un amico, lo vestiremo da prete e diremo che sia il parocchiano; e sposeravvi. Come poi il vecchio sará morto, vi sposarete con i legitimi modi.
Erotico. Ah, ah, ah, come si può trovar il piú bel caso, e da ridere?
Attilio. E da rider, sempre che ce ne ricordaremo. Giá il cuor, ch’era sepolto nella disperazione, comincia a ravvivarsi nella speranza.
Erotico. Ed il mio respira, ch’era giá morto nell’angoscia; e giá spero posseder la mia Sulpizia.
Attilio. Ed io la mia Cleria.
Trinca. Ed io la forca o la galera, se si scuopre.
Attilio. Speriamo che amore e la fortuna ci favoriranno.
Erotico. L’invenzione è tanto bella, che porta seco i rimedi di tutti gli infortuni che ci potessero intervenire.
Attilio. Speriamo bene, ché il mal non manca mai.
Erotico. La forza d’amore è incredibile, quando egli guida gli avvenimenti: però speriamo in lui, che, come ha vinto tutti i dèi, cosí vincerá la fortuna.
Attilio. Amore innamorò tutte le cose, non mai la fortuna.
Erotico. Non ci avviliamo ne’ contrari avvenimenti.
Trinca. Non piú consigli: è fatta la rissoluzione, comincisi l’essecuzione. Abbiam bisogno di prestezza, perché il tempo ne stringe; e quanto ci ha nociuto la passata tardanza, tanto ci giovi la presente prestezza: il mondo è goduto da solleciti.
Attilio. Eccoci all’ubbidirti.
Trinca. Voi, Attilio, perché i vecchi sono ostinati, e i loro cervelli si muovono al moto della luna, umiliatevi a vostro padre. Gli ostinati si vincono piú tosto con l’umiltá che con l’arroganza; e mostrate desiderar Sulpizia, ché, sí come l’avarizia s’inganna con la liberalitá, cosí col mostrarsi volontoroso s’inganna chi vi crede. E voi, Erotico, parlandovi il vecchio di voler Cleria, mostrategli desiderarla.
Erotico. Sará pensiero mio particolare: fingerò ben la parte mia.
Trinca. Né bisogna mostrar tanto affetto, che paia affettato.
Attilio. Che faremo del parasito che, s’almen non ci impedisce, ci differisce?
Erotico. Che del capitano?
Trinca. Lasciate fare a me, che fra il parasito e il capitano, e ambidue col padrone ci porrò tanta zizania, che scompigliarò e porrò sossopra quanto s’è fatto.
Erotico. Trinca, non potendoti or render premio condegno, ricevi almeno la mia confessione: che ricevo da te la vita e l’onore e quanto bene ho al mondo, e spero col tempo fartelo conoscere.
Attilio. Trinca, questo serviggio ti porterá tanto utile, quanto serviggio che sia fatto a persona che faccia professione di conoscere i benefici.
Trinca. Fate che i fatti corrispondano alle parole. Partetevi, ché io vo a ritrovare il padrone, per cominciar ad ordir l’inganno.
Erotico. Mi parto: a dio.
Attilio. Tra tanto andrò a casa; ché amor mi ha fatto bussola di naviganti, che, volgendola di qua e di lá quanto si voglia, come si lascia libera, da se stessa si riduce alla sua tramontana: cosí né per travagli che mi turbino, né per affanni che mi molestino, da una amorosa violenza mi sento tirar dove splende la chiara luce della mia stella.
SCENA IV.
Cleria, Attilio, Trinca.
Cleria. Attilio, anima mia, fermatevi costí, ché son stata gran pezza aspettandovi in fenestra, per avisarvi che, se un poco piú foste tardato, non areste trovata la vostra Cleria in casa.
Attilio. Non vi dolete, occhio mio caro.
Cleria. Qual miseria è che pareggi la mia? Mi sento l’anima cosí ristretta nel cuore, che son per cader morta; né posso imaginarmi come questa tormentata anima possa reger questo tormentato mio corpo.
Attilio. Non vi struggete, o signora, piú cara a me che la luce degli occhi miei.
Cleria. Pensavami che la fortuna, — poiché dall’uscir delle fascie cominciò a farmi guerra, avendomi da bambina fatta preda de’ turchi, privatami de’ miei cari genitori, fattami serva di genti barbare, ricomperata come schiava, — avesse mutato proposito e volesse ristorarmi de’ danni passati col farmi ambiziosa del titolo di vostra schiava, il che lo stimava per mia somma ventura. Ma or mi fa peggio che mai, ché vuol rovinarmi in tutto; perché questo sospetto cosí m’inamarisce ogni bene, che mi toglie la speranza di non aver a sperar mai piú favilla di luce: e pur vivo? Son nata pur disgraziata!
Attilio. Io, dal primo punto che vi viddi, fui cattivato nell’amor vostro: però assicurativi, signora, che non meno a me duole il separarmi da voi, che voi da me, parendomi impossibile che l’un possa vivere senza la vita de l’altro. E come potrei io vivere, se i spiriti miei non prendessero alimento da una certa virtú celeste, che sta occulta negli occhi vostri, dai quali prende vigor la mia vita? E tante volte mi ravvivo e rinasco nella mia istessa vita, quante volte vi miro. Son vostro, voglio esser vostro e, ancor che voi non voleste, pur son vostro; né tutto il mondo basta a far che non siate mia, poiché dalla vostra libera volontá me vi deste. Niuna cosa m’è cara piú di voi; e chi mi togliesse voi e mi desse tutto il mondo, non mi farebbe nulla, che in voi sola è tutto quel ben che posso desiderare nella mia vita.
Cleria. O caro, o caro cor mio, volete scemar i vostri meriti per accrescer i miei, che non ne ho niuno. Ma le vostre parole vengono dettate dalla vostra bontá, che avanzano di gran lunga i miei meriti: e tutte quelle lodi che mi date, tutte si piegano in voi, come i raggi del sole che, percotendo nei specchi, si piegan con piú forza: però, se alcuna cosa in me fusse di buono, tutto vien da voi stesso, che mi conferisce quelle qualitá che voi dite: però resto consolata nelle vostre consolazioni. Laonde con l’amor che mi portate, chiamate a consiglio il bel vostro discorso, e consideriamo s’è meglio fuggir di casa e andar dispersi per lo mondo. Conducetemi per dove volete, per luoghi deserti e senza via: vi son stata compagna nelle prospere, cosí vi sarò nelle fortune calamitose. È ferma deliberazione dell’anima mia non esservi renitente in cosa alcuna: non mi riterrá né muro né terra né cielo, seguane quel che si voglia; pur che sia insieme con voi, ogni luogo m’è patria, ogni fatica m’è dolce, niun pericolo mi spaventa. E veramente per amor non si denno stimar i pericoli.
Attilio. Non vorrei, cuor mio, andando cosí di fuori, perder quello che ho in casa. Venendo con voi da Vineggia, mi parea esser un di quei che navigano di notte con una nave di cristallo, che temono sempre incontrarla e romperla in ogni scoglio.
Cleria. Se segue quel che disegna vostro padre, questa sera sará il fin della nostra giornata, e resterá per noi una notte perpetua; e certo saria una notte, ché d’allora innanzi non sperarei veder altro sole. Però facciamo come quelli che han fatto naufragio, che per non morire s’attaccano ad ogni tavola che s’incontrano.
Attilio. Ahi, ch’essendo in casa mia, pensava esser in porto, dove sperava riposo di tutte le nostre amorose tempeste!
Cleria. Maladetto porto, dove s’affondano tutte le nostre speranze, e dove rabbiosi corsari cercano spogliarci de’ nostri preciosi tesori: parvi bel porto questo?
Attilio. Anima mia, con la speranza del bene rasserenate la mente e il volto, e con le lacrime non ci facciamo cosí tristo augurio, se non per altro, almeno per non dar tormento a me; ché a voi non piove una minima lacrimuccia dagli occhi, che a me tutti non siano rivi di sangue, che mi piovono dal cuore.
Trinca. E quando finiranno tante parole?
Cleria. Dolcissimo mio bene, non posso far che la miseria, dove mi trovo, non mi trafigga: bisognarebbe un cuor di sasso per non dolermi. Mi sforzerò chiuderla nel mio cuore, ché ho piú a caro il vostro contento, che di sfogare il mio dolore.
Attilio. Statemi, di grazia, allegra e di buona voglia, ché il tempo suol apparar occasioni di remedi, e nelle adversitá far cuor franco e valoroso.
Trinca. Che tanti cicalamenti! Ecco vostro padre.
Attilio. Trattienlo un poco.
Cleria. Venite su e rallegratemi.
Trinca. Sí, sí, cicalate un altro poco.
Attilio. Non m’impedite, di grazia, che trattiamo cosa per uscir da affanni.
Cleria. E come?
Attilio. Non ho tempo di dirlo.
Cleria. Perdonatemi di grazia, ché la dolcezza di parlar con voi mi fa trapassare i vostri comandamenti.
Trinca. Vostro padre v’è cosí da presso, che vi vede. Andate su e, poiché sète accordati in parole, accordatevi in fatti: informatela bene del negozio e fatecelo toccar con mano.
SCENA V.
Pardo vecchio, Trinca.
Pardo. Trinca, dove è Attilio?
Trinca. A casa; e stimo ch’abbia una gran facenda per le mani.
Pardo. Io son molto mal sodisfatto di lui, perché non li vedo far cosa che mi vada a gusto: è tanto mutato da quel di prima, che non mi par desso. Da quel benedetto giorno — per non dir maladetto, — che menò la sorella da Costantinopoli, menò seco la cagione della sua ruina. Ahi, tardo mio pentimento! Tutti i suoi pensieri tendono all’ozio. Prima, se alzava inanzi giorno, andava alla messa, poi allo Studio, tornava a casa, si poneva a studiare; e quando era l’ora del desinare, con gran fatica lo poteva distaccar da’ libri; poi si dicea l’ufficio della Madonna: tutto diligenza, ubidienza e divozione. Or, tutto il giorno in letto, non s’alza insin ad ora di desinare, non si parte da casa mai; ad ogni altro pensa fuor ch’allo studio; è divenuto insolente, mal creato, e mi beffeggia. Non va piú a messe, non dice officio; e la buona educazione, ch’ornava il suo nascimento, è tolta via da usanza cosí cattiva.
Trinca. Padrone, chi prattica con zoppi, al fin impara a zoppicare: vostro figlio è stato in Turchia, dove non s’odono messe, né si dicono uffici — che ben sapete che i turchi son mali cristiani, — né si usa levar mattino, né si va a Studio; anzi coloro che attendono a simili cose, li chiamano calamelechi, cioè uomini di poco conto.
Pardo. Tutto il giorno a gracchiar con la sorella, e rider fra loro; e quando io vi son presente, pis pis dentro l’orecchie, e dagli atti e cenni conosco che si burlano de’ fatti miei, si parlano in zergo e mi danno la baia, e stimano che non me ne accorga.
Trinca. Quello che voi chiamate zergo, son parole turchesche; e l’usa per farsi intendere dalla sorella che non intende ben l’italiano; e cosí mezo turchesco parlano delle cose di Costantinopoli.
Pardo. Per dirtela, tratta troppo licenziosamente con la sorella: si baciano, si succhiano, si toccano, e fanno tutto il giorno alla lotta, l’un sopra l’altra, quasi che non se la pone di sotto.
Trinca. Son sorelle e fratelli carnali al fine, e il sangue tira e fa l’ufficio suo. E la legge maumettana di lá comanda che le sorelle e fratelli trattino fra loro con molta amorevolezza: sará bisogno smaumettarsi a poco a poco. Poi vostra figlia è allegra di condizione, burla volentieri, e or tanto maggiormente, che si vede libera dalla servitú turchesca e in casa di suo padre e fratello: e questa amorevolezza la chiamano in turchesco tubalch.
Pardo. Io non voglio che non trattino insieme con molta amorevolezza, ma in fin ad un certo termine onesto e di creanza, e non con modi cosí disonesti e di scandalo a chi li vede. Son tali, che m’hanno scemato gran parte dell’amor che li portava; e se mi son mai pentito di cosa mal fatta, mi son pentito di averlo mandato in Turchia a riscattar la sorella, perché ho comprato il mio male, e, per ricovrar la figlia, ho perduto i danari, la figlia, il figlio e me stesso, per il dispiacer che mi danno.
Trinca. In Turchia è usanza.
Pardo. E pur con Turchia, Turchia: il canchero che ti mangi! tutte le mal creanze le scusi con Turchia. Ti conosco per un scappato da mille forche; quanto piú gli scusi, piú l’accusi: se pur son usanze turchesche, or che siamo tra cristiani, bisogna viver da cristiani.
Trinca. Se voi l’aveste maritata, sareste uscito da intrico.
Pardo. Non ho trovato cosa a proposito.
Trinca. Sète di quei padri che prima muoiono, che maritano i figli, per non contentarsi mai.
Pardo. Or ho deliberato dar Sulpizia per moglie ad Attilio, e vo’ che mi ubedisca, cosí per l’obligo che mi tiene di figlio, come per l’onestá della dimanda, e come per l’amor che mi porta: ché l’amor e l’ubedienza son sorelle carnali.
Trinca. V’è tenuto per obligo, e farallo per cortesia e per amore.
Pardo. Se ben è tenuto per obligo, facendolo per amore e cortesia, l’averò quello obligo io, che devo alla sua cortesia e amorevolezza. E vo’ dar Cleria al capitano, e mi liberarò della servitú di aver femine a casa. Ho conchiuso iersera il parentado, e vo’ che si sposino al tardi. In questo vorrei che usassi la tua astuzia, overo che non l’usassi contro me, ch’io non posso essere tanto studioso a guardarmene, quanto tu ingegnoso ad ingannarmi. Ben sai che ho san Mazzeo vicino a casa, e quel medico di casa Querciuolo, che ti suol medicare le spalle, quando il ricercano. Vorrei che li persuadessi a non esser ostinati, ché non venghi con loro a termini poco onorevoli, come non ho fatto per lo passato.
Trinca. Egli non ricusa Sulpizia, ce l’ho proferta da vostra parte: ne ha tanta voglia, che non vede l’ora che sia sera. Di Cleria non bisogna aver tanta fretta.
Pardo. Che vuoi che se invecchi in casa e poi non trovi can che la fiuti? è meglio purgar la casa delle femine, che della peste. Avendo quel capitano, ará la buona ventura.
Trinca. Anzi l’arcimala ventura.
Pardo. Che li manca?
Trinca. È troppo giovane: lasciamolo invecchiare un altro poco.
Pardo. Non ha quarant’anni.
Trinca. Ha quaranta malanni. Ne ha piú di sessanta: e che altro sono quei peli bianchi, che un richiamo di giovani, che dieno quello a vostra figlia, che non può darle il marito? Egli è come un asino zoppo, a cui mancando le forze del suo natural potere, si cade tra via, bisogna alzarlo a due mani e porlo per la strada. E se ben si vanta che sia stato colonello e generale di esserciti, credo ch’adesso non servirebbe se non per lancia spezzata.
Pardo. S’inchina assai volentieri a questo.
Trinca. Di ciò statene sicuro, sta l’importanza nel potersi drizzare.
Pardo. È ricco.
Trinca. Sí, d’anni; ma povero di robbe e di cervello, puzza di fallito, e ogni giorno piglia dinari a perdita; e se ben s’ha consumato tutto il suo patrimonio a dadi, non consumará certo il matrimonio con vostra figlia. Con quelle sue bravarie se vuol smaltir per quel che non è. Si pasce d’aria e vive di ruggiada come le cicale, mangia a tavola con la gloria e ambizione, e, essendo un becco, si vuol servir di vostra figlia per una vacca. E per mantener quel fumo del suo camino, quando ella non consentirá, con una furia di bastonate le fará far quel che vuole; talché mangiare sempre piú bastonate che pane.
Pardo. È gentiluomo.
Trinca. Di casa Capodicervo, che ha piú come in capo che capelli; suona di cornamusa, e s’udiranno per tutta Nola il suono de’ suoi cornetti.
Pardo. N’ho buona informazione dal parasito: ne sta innamorato. Di che ridi?
Trinca. Non rido che stia innamorato; ma chi si vuol innamorar di lui? E poi date credito a quel furfante, feccia d’uomo: li servirá per ruffiano a condurgli gli uomini a casa. Senza che, va dicendo mal di voi per Nola, che sète un pidocchioso; e fa le croniche della miseria di vostra casa: che sempre bevete il vin che si guasta, e, prima che finiate di ber quello, cominciate l’altro che si guasta; e che, quando viene a mangiar con voi, lo fate stentar in aspettar fino a mezogiorno; e che s’alza da tavola piú vòto che quando ci venne. Talché voi non l’invitate a mangiare, ma a digiuno, vigilia e penitenza.
Pardo. Mira furfante, che si pone in bocca certi pezzi massicci di carne e certi bocconi tanto stravagantemente grandi, che non se li può voltar per la bocca, e li trabocca giú come li mandasse in una cloaca, e con tanta furia che non mangia, ma trangugia; non beve, ma tracanna, ingorga e fa grondare il vino nello stomaco; che noi appena cominciamo a scaramucciare, ch’egli ha finito il fatto d’arme, che par figlio della fame, padre del diluvio, nipote della carestia, e pone tanta robba in una volta in quella sua voragine, quanto basta una settimana in casa mia: par che la fame ce l’abbia inviato per castigo della casa mia.
Trinca. E dice queste e altre cose.
Pardo. Che altre?
Trinca. Mi vergogno di dirle.
Pardo. Dille in tua malora, che mi fai venir la rabbia.
Trinca. Dice che patite di non so che infirmitá di stomacali, e che ci avete tanto prorito, che andate cercando chi ve li gratti.
Pardo. Mente e stramente per la gola.
Trinca. E dice averlo inteso da molti.
Pardo. Mente per l’orecchie.
Trinca. Ed egli conosce all’odore esser cosí.
Pardo. Mente per lo naso.
Trinca. E che lo stima esser verissimo.
Pardo. Mente per lo cervello. E tu non sai che ciò è una bugia?
Trinca. E per questo è un ribaldo, perché dice quello che non fu mai; e il peggio è, che le genti lo credono, perché lo veggiono pratticare tanto domesticamente in casa vostra, che possa sapere i vostri secreti.
Pardo. Lo castigherò ben io.
Trinca. Gulone è come il canchero che, quanto meglio lo nudrite, piú incancherisce e infistolisce.
Pardo. Che rimedio ci sará?
Trinca. Quello degli infranciosati: con una dieta di pane e di acqua per quaranta giorni, che lo consumi la fame e la sete in fin all’ossa. Come se li manca la biava, andrá via. Però torniamo a noi. È troppo gran peccato dar cosí degna figlia a quel cervellaccio che riesce cosí cattivo per ogni banda.
Pardo. La vuol senza dote, e il maritar una figlia senza dote è qualche cosa: l’ho riscattata da’ turchi e, or volendole dar dote, sarebbe un riscattarla di nuovo.
Trinca. Meritano i suoi buoni costumi d’esser riscattata diece volte, se bisognasse. Ma noi abbiamo Erotico piú ricco e nobile e d’altri costumi; e vi fa la medesima offerta.
Pardo. Che faresti tu, se fusse tua figlia?
Trinca. Se fosse voi?
Pardo. Fa’ conto che ci sei: consigliami.
Trinca. Non per consigliarvi, ma essendo nell’esser vostro, questo partito mi parrebbe tanto buono, che non potrei dir di no.
Pardo. Farò quanto tu dici: ché, non avendo errato mai con l’aviso de’ tuoi avertimenti, voglio assicurarmi in questo ancora. Facciamo che amboduo si sposino per la sera.
Trinca. Come comandate.
Pardo. Di’ a mio figlio che si ponga in ordine, ch’io aviserò Orgio, zio di Sulpizia, del medesimo. Di’ ad Erotico che venghi a trovarmi, e appuntiamo il tutto, ché, quando le persone sono d’accordo, è mal il differire, ché sempre si pone in mezo occasione di disturbi.
Trinca. Farò il tutto come m’imponete.