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atto primo | 19 |
Attilio. Non vorrei, cuor mio, andando cosí di fuori, perder quello che ho in casa. Venendo con voi da Vineggia, mi parea esser un di quei che navigano di notte con una nave di cristallo, che temono sempre incontrarla e romperla in ogni scoglio.
Cleria. Se segue quel che disegna vostro padre, questa sera sará il fin della nostra giornata, e resterá per noi una notte perpetua; e certo saria una notte, ché d’allora innanzi non sperarei veder altro sole. Però facciamo come quelli che han fatto naufragio, che per non morire s’attaccano ad ogni tavola che s’incontrano.
Attilio. Ahi, ch’essendo in casa mia, pensava esser in porto, dove sperava riposo di tutte le nostre amorose tempeste!
Cleria. Maladetto porto, dove s’affondano tutte le nostre speranze, e dove rabbiosi corsari cercano spogliarci de’ nostri preciosi tesori: parvi bel porto questo?
Attilio. Anima mia, con la speranza del bene rasserenate la mente e il volto, e con le lacrime non ci facciamo cosí tristo augurio, se non per altro, almeno per non dar tormento a me; ché a voi non piove una minima lacrimuccia dagli occhi, che a me tutti non siano rivi di sangue, che mi piovono dal cuore.
Trinca. E quando finiranno tante parole?
Cleria. Dolcissimo mio bene, non posso far che la miseria, dove mi trovo, non mi trafigga: bisognarebbe un cuor di sasso per non dolermi. Mi sforzerò chiuderla nel mio cuore, ché ho piú a caro il vostro contento, che di sfogare il mio dolore.
Attilio. Statemi, di grazia, allegra e di buona voglia, ché il tempo suol apparar occasioni di remedi, e nelle adversitá far cuor franco e valoroso.
Trinca. Che tanti cicalamenti! Ecco vostro padre.
Attilio. Trattienlo un poco.
Cleria. Venite su e rallegratemi.
Trinca. Sí, sí, cicalate un altro poco.
Attilio. Non m’impedite, di grazia, che trattiamo cosa per uscir da affanni.
Cleria. E come?
Attilio. Non ho tempo di dirlo.