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atto primo 17

l’onore e quanto bene ho al mondo, e spero col tempo fartelo conoscere.

Attilio. Trinca, questo serviggio ti porterá tanto utile, quanto serviggio che sia fatto a persona che faccia professione di conoscere i benefici.

Trinca. Fate che i fatti corrispondano alle parole. Partetevi, ché io vo a ritrovare il padrone, per cominciar ad ordir l’inganno.

Erotico. Mi parto: a dio.

Attilio. Tra tanto andrò a casa; ché amor mi ha fatto bussola di naviganti, che, volgendola di qua e di lá quanto si voglia, come si lascia libera, da se stessa si riduce alla sua tramontana: cosí né per travagli che mi turbino, né per affanni che mi molestino, da una amorosa violenza mi sento tirar dove splende la chiara luce della mia stella.

SCENA IV.

Cleria, Attilio, Trinca.

Cleria. Attilio, anima mia, fermatevi costí, ché son stata gran pezza aspettandovi in fenestra, per avisarvi che, se un poco piú foste tardato, non areste trovata la vostra Cleria in casa.

Attilio. Non vi dolete, occhio mio caro.

Cleria. Qual miseria è che pareggi la mia? Mi sento l’anima cosí ristretta nel cuore, che son per cader morta; né posso imaginarmi come questa tormentata anima possa reger questo tormentato mio corpo.

Attilio. Non vi struggete, o signora, piú cara a me che la luce degli occhi miei.

Cleria. Pensavami che la fortuna, — poiché dall’uscir delle fascie cominciò a farmi guerra, avendomi da bambina fatta preda de’ turchi, privatami de’ miei cari genitori, fattami serva di genti barbare, ricomperata come schiava, — avesse mutato proposito e volesse ristorarmi de’ danni passati col farmi ambiziosa del titolo di vostra schiava, il che lo stimava per mia