Atto V

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Atto IV Nota storica
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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Quaglia travestito, Orazio.

Quaglia. O noi troviamo messer Luca in camera

Colla fanciulla, e pianto una pastocchia;
O è fuor di casa, com’io credo, il vecchio,
E Caterina ha da cadere in trappola.
Orazio. Ma per l’inganno i’ non vorrei che poscia
Si corrucciasse la donzella, e avessimi
Dalla sua bocca a meritar rimproveri.
Quaglia. E’ non crediate già, che dal coniglio
Cerva si cacci, ma le fere sbucansi
Dai veltri audaci e dai corsier più rapidi.

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Nè amante mai vergognosetto e timido

Vincerà di fortuna i duri ostacoli,
Se non cambia in ardire il timor panico.
Orazio. Sai se in Pavia, dove più che allo studio
Badai a cento frascherie ridicole,
Fui negl’incontri coraggioso o pavido.
Ma la temenza che ora intorno i’ sentomi,
Vien dall’amor che ho di costei, che merita
Essere amata, e dispiacerle io dubito.
Quaglia. Ma, se si tenta, la speranza invitavi;
Se si trascura, l’amor vostro è inutile.
Orazio. Tentisi dunque, e il tuo disegno adempiasi.
Quaglia. Andiamo tosto...
Orazio.   Ma se ci discoprono
I servi, o pure se il padrone avvedesi
Del nostro inganno?
Quaglia.   Per ciascuno, io replico,
Ho la ricetta, ho l’elisire e il farmaco.
La porta aperta che trovammo, è un’ottima
Scusa per noi d’essere entrati liberamente,
senza ottener pria la licenzia....1
Ma affè, vien gente. Tanto si rimescola
L’acqua nel lezzo, che alla fin s'intorbida.
Orazio. Vedi chi è questa?
Quaglia.   Oh via, che il fato provvido
Ci fa cascar sui maccheroni il cacio.
Con Caterina favellar lasciatemi
A modo mio, basta che mi secondino
Poche parole vostre.
Orazio.   Ah, che in veggendola
Sento raccapricciarmi.
Quaglia.   State al pìuolo.

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SCENA II.

Caterina, Orazio, Quaglia.

Caterina. (Chi è cotestui, ch’i’ nol conosco? Oh misera!

Orazio è seco!)
Quaglia.   Caterina, arrestati.
Caterina. Chi siete voi, che mi conosce e nomina?
Quaglia. Non mi ravvisi? Non è forse un secolo
Ch’io da te manco. La sparuta e squallida
Faccia, di lungo mal verace indizio,
E le languide membra, e questa candida
Barba ti asconde all’amoroso ciglio
Del tuo buon padre la verace immagine?
Caterina. Aita, aita, oimè! deh soccorretemi.
Sento svenirmi. Vattene, o bell’anima,
Al tuo riposo, ch’io dolente e prefica
Pregherò il cielo che ti doni requie.
Orazio. Fatevi cuor, larva non è o fantasima
Quel che vi parla.
Caterina.   Se non è lo spirito
Del padre mio, esser chi può che usurpisi
Il nome suo?
Quaglia.   Il padre tuo medesimo.
Caterina. Se morto è in Roma l’infelice, e piangolo
Che son de’ mesi.
Quaglia.   Fu falsa notizia
Quella che giunse di mia morte; accostati,
Figlia diletta.
Caterina.   No, messer; non veggovi
Segno verun, che i detti vostri accrediti.
Quaglia. Febbre mi ha reso qual mi vedi gracile,
E il sangue sparso e le affannose angustie
D’un malor tetro, doloroso e cronico,
Fammi parere agli occhi altrui cadavere.
Sino la figlia mia niega di accogliere

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Me per suo padre? Ah stelle ingrate e barbare,

A che serbate quest’avanzo misero
De’ vostri insulti e dell’età decrepita?
Caterina. Ahi, che quel pianto mi costringe a piangere.
Quaglia. Vedi l’effetto di natura. Or negami,
Cruda, se puoi, che tu non sei mia figlia.
Orazio. (L’astuto corpo come sa ben fingere!)
Caterina. Verrà il tutore, e mi dirà s’io debbovi
Creder del tutto.
Quaglia.   Sì, verrà quel perfido
Che il sangue mio d’assassinare or medita,
E col pretesto di un amor fittizio
Colla tua mano ogni mio bene usurpasi.
Mandami il cielo in tempo di deludere
Il fiero lupo che l’agnella insidia.
Povera figlia, il buon tutor sollecita
Che a lui ti sposi, e il tuo bel cuor vuol rendere
Infelice per sempre.
Caterina.   Ah, questo è il massimo
De’ miei tormenti.
Quaglia.   Al padre tuo confidati,
Poichè se’in tempo di cercar consiglio
E d’impetrare aita.
Caterina.   Ah soccorretemi,
Padre mio, per pietade.
Orazio.   (Eccola al termine
Dove lo scaltro la volea conducere.)
Quaglia. Morta è tua madre, e dopo lei mancatimi
Sono i tre figli, e te sola conservami
Il ciel pietoso. Ah, chi mi potrà chiudere
Gli occhi, venendo di mia vita il termine,
Figlia, se tu non sei? Ma se quest’avido
Tutor ti chiude, fatta sposa, in carcere,
Nè più ti lascia uscir dalle domestiche
Mura, per tema che non sveli e pubblichi

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La tirannia del monellaccio, io muoiomi

Senza vederti, e pochi mesi passano
Che tu sei morta, o almen sparuta e tisica.
Le belle rose che le guance infiorano,
Ve’ come andran miseramente a perdersi;
E quel bel seno2 che felice un giovane
Render potrebbe, caderà del ragnolo
Mosca ingannata nei tessuti circoli.
Orazio. (Dove s’intese mai maggior rettorica?)
Caterina. Se il ciel vi manda i miei certi pericoli
A riparar, deh le ragion vi vagliano
Di padre in faccia del tutor medesimo.
Quaglia. E dovrò dunque da colui dipendere
Per dispor di mia figlia? S’io presentoti
Di mia mano uno sposo, avrai nell’animo
Repugnanza a gradirlo ed a riceverlo?
Caterina. Al voler vostro rassegnata ed umile,
Messer, mi avrete, ma però desidero
Che lo sappia il tutor, per non commettere
Un atto di dispregio, una mal’opera.
Orazio. (La virtù è sempre bella, ancor che incomoda).
Quaglia. Tu vuoi che il padre in una lite immergasi,
E a piatir abbia con un vecchio acerrimo
Che ti possiede, e che faratti perdere
Il miglior tempo e la salute e l’anima.
Caterina. Misera! che farò?
Quaglia.   Figlia, risolviti.
Alla ragion del padre quella uniscasi
Dello sposo, e frattanto che si disputa
Della roba, di cui conto dee rendere.
Va’ a goder la tua pace e fuor dei strepiti.
Mira costui che ti ama e ti desidera,
Mira quegli occhi che dolcezza ispirano;

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Eccolo innanzi a te sommesso e languido,

Pieno d’amor. So che tu l’ami, e tentano
Con un inganno i desir tuoi deludere.
E se lo perdi, non sperar sì facile
Altro trovar, che più di lui ti meriti.
Ricco è di beni di fortuna, carico
Di virtù, di saggezza, e in volto amabile.
Caterina. (Ah, che violenza nel mio cuor far sentomi).
Orazio. Deh gioia mia, se tutto ciò non bastavi,
Le preci mie da voi pietade ottenghino.
Eccomi al vostro piè; bella, vi supplico
Piegate il cuore alle amorose smanie
D’un che vi adora, e che morrebbe il misero,
Se astretto fosse tal bellezza a perdere.
Quaglia. Tu sei più cruda di leone ed aspide,
Se non ti pieghi ad un pregar sì tenero.
Caterina. Chi mi assicura che colui che parlami
Sia padre mio?
Quaglia.   Va’, se tu ancor ne dubiti,
Lascioti in preda del rapace ed avido
Insidiator della tua vita. Sposalo.
Orazio, andiam.
Caterina.   No, per pietà, fermatevi.
Quaglia. O la mano gli porgi, o che abbandonoti
Al tuo destin.
Orazio.   Cosa non chiede illecita
Ad onesta fanciulla.
Quaglia.   Il tempo perdere
Non si dee invano; o che ti lascio, o sbrigati.
Caterina. (Stelle, che fo?)
Orazio.   Se viene il vecchio a giungere,
Non vi è più scampo.
Quaglia.   Se il tutor sorprendeci,
Sei perduta per sempre.
Caterina.   Ah padre, ah Orazio

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Non m’ingannate.

Quaglia.   Dagli la mano.
Caterina.   Eccola!
Orazio. O cara mano, che nel cor consolami,
La mia ti stringe, e ti prometto e giuroti
Eterna fede.
Quaglia.   Il matrimonio è in ordine.
Andiamo, o figlia, andiam nelle tue camere
A far la scritta, e messer Luca troviti
Sposa già fatta, che disfar non possasi.
Caterina. Ahi, che ancor tremo.
Quaglia.   Passerà pochissimo,
Che Orazio ti potrà dal seno togliere
Il timor di fanciulla.
Orazio.   Sento strepito.
Gente s’avanza.
Quaglia.   Presto, ritiriamoci.
Caterina. Oh sventurata! che il tutor non veggami.

SCENA III.

Quaglia solo.

Quanti sudori a guadagnar ci vogliono

Cento scudi! e diran ch’è un’arte facile
Viver d’inganno, di raggiro e scrocchio?
Affè di bacco, gli avvocati celebri
Tanto non fan per attrappare il giudice,
Quanto fec’io per incantar la semplice.
Ma caldo caldo che mi vada a prendere
I cento scudi, innanzi che si scordino.
Se verrà messer Luca, il matrimonio
Fatto è co’ fiocchi, ed or più non si revoca.

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SCENA IV.

Panfilo, messer Luca.

Panfilo. Alfin vi trovo.

Luca.   Se’ ancor qui, tristissimo?
Ne vuoi partir di questa casa?
Panfilo.   Sonovi,
E vi starò finche avrò vita a vivere.
Luca. Io son padrone.
Panfilo.   Ed io chi sono?
Luca.   Un discolo
Servitoraccio3, che ora mando al diavolo.
Panfilo. Non è più tempo di narrar tai favole.
Son vostro figlio.
Luca.   Chi lo dice?
Panfilo.   Io dicolo.
Luca. Tu menti per la gola.
Panfilo.   Ho i testimoni
Di quel ch’io dico.
Luca.   Dove sono?
Panfilo.   Ed eccovi
Tal che può svergognarvi, e farmi rendere
Quel che sinora l’avarizia usurpami.
Preparatevi a darmi la legittima,
Quand’anche sol me ne toccasse un oncia.

SCENA V.

Nutrice, messer Luca, Panfilo.

Nutrice. Ma fino a quando mi farete correre

Per vedervi, messere?
Luca.   Chi sei, vecchia?

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Nutrice. Non ravvisate in me l’antica balia,

Che il parto della vostra estinta moglie
Raccolse, allora ch’eravate in Bergamo?
Luca. Sì, ti ravviso. Quale affar conduceti?
Nutrice. Morto è il cugino vostro, e la coscienzia
E il timor della morte ora mi stimola
Cosa svelarvi che occultar non devesi.
L’unica prole che il destin benefico
Diedevi allor, e che alla madre il vivere
Costò nel punto che sortio dall’utero,
Spenta non è; ma il cugin vostro, che avido
Nei beni vostri si credea succedere,
Finse sua morte, e di tacere imposemi.
Luca. Ah, sarà ver che mio figliuol sia Panfilo?
Nutrice. Panfilo no, ma Caterina.
Panfilo.   (Oh diavolo!)
Nutrice. A custodire a voi sott’altro termine
Diè la fanciulla; ma il cielo, che vendica
Le opre malvagie, i figli suoi carissimi
Un dopo l’altro fe’ mangiar dai vermini.
Non sapea come la figliuola rendere
Al proprio padre; tocco da sinderesi,
E dell’error commesso vergognandosi,
Senza scoprirlo, di partir determina,
E qual pupilla la figliuola tenera
Consegna a voi, perchè si allevi e erediti
I propri beni, che rapir volevansi.
Ecco l’arcano discoperto, e giurovi
Per quanto di più sacro in ciel si venera,
(Giunta assai presso di mia vita al termine,
In cui più chiari del mentir si vedono
I tristi effetti) giuro che veridico
E il labbro mio, e se mentisco, i demoni
Per giustizia del ciel mi sian carnefici.
Luca. Ora intendo l’amor che in seno ardevami

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Per Caterina. Ah, che il mio cuor fu prossimo

A farmi al cielo e alla natura orribile.
Panfilo. (L’ereditade se n’è andata in bricioli).

SCENA VI.

Messer Luca, Nutrice.

Luca. O Provvidenza, che dell’uman genere

Sei reggitrice, e nei maggior pericoli
Offri lo scampo a chi in error precipita,
Se tu non eri che in tempo le labbia
Movevi di costei, chi sa a qual termine
Condur poteami passione acerrima?
O Caterina mia, vieni alle braccia
Non del tutor, non dello sposo (in odio
Forse al tuo cor), ma del tuo dolce e tenero
Padre amoroso, che ad amar principiati
Con amor sconosciuto ai dì preteriti.
Nutrice. Dov’è, messere, Caterina?
Luca.   Cercala
Nelle sue stanze, e dille che a me vengane,
Ma lascia a me il piacer che possa io essere4)
Il primo a darle il fortunato annunzio.
Nutrice. Perdonate s’io fui di sì indegn’opera
Troppo finora, a mio rossor, partecipe.
Luca. Il piacer che ora provo, fa ch’io scordomi
Tutto il passato, ed il perdon concedoti.

SCENA VII.

Placida, messer Luca.

Placida. Le belle nozze che il padron proposemi!

Il contratto, signor, quando si stipula
Fra me ed Orazio?

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Luca.   A vostro beneplacito

Farlo potete.
Placida.   Si faranno i cavoli
Con il prosciutto. In avvenire avvertovi,
Quando vi parlan, sturar ben le orecchie,
Che lo scilocco vi ha gonfiato il timpano.
Luca. Che vuol dir questo?
Placida.   Vuol dire che Orazio5
Vuol bensì Caterina, e non la Placida.
Luca. Che tu mi narri?6
Placida.   Quel che intesi io narrovi
Da lui medesmo, che mi fece mutola
Restar, e in viso di vergogna tingere.
Luca. Io non fui sordo, allor che a chieder vennemi
Quaglia te per Orazio, e cento dissemi
Ragioni incontro all’obiettar ch’io fecigli.
Placida. Quest’errore prodotto ha tanti equivoci,
Che farvi sopra vi potriano i comici
Una commedia di quelle lunghissime.
Luca. Caterina lo sa?
Placida.   Lo sa benissimo,
E innocente non è quanto rassembravi.
Anzi cred’io che la ragion che opponere
Fa all’amor vostro il di lei cuor, l’origine
Abbia da questo.
Luca.   Oimè, tu mi rammemori
Cosa tal che i rimorsi in me si destano.
Placida. Voi dovete sfogar la vostra collera
Contro di lei.
Luca.   No, l’amor mio si merita,
Non il mio sdegno.
Placida.   Benchè cruda e barbara?
Luca. Alla sua crudeltade ho il maggior debito.

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Placida. Amar chi offende, è ben virtude insolita.

Luca. Deesi premio alle offese, allor che giovano.
Placida. Vi giova dunque della giovin l’odio?
Luca. Se mi amava ella più, sarei più misero.
Placida. Perdonate, messer, io non intendovi.
Luca. Vien Caterina. Or ti apparecchia a intendere.

SCENA VIII.

Caterina, messer Luca, Placida.

Caterina. (O tosto o tardi dee saperlo, e fidomi

Nel padre mio che colà dentro or celasi).
Luca. Vien, Caterina, vieni alle mie braccia.
Senza rossor, senza timore a stringere
Vieni tuo padre. Sì, dalle mie viscere
Figlia sei nata.
Placida.   (Che sia storia, o favola?)
Caterina. Io figlia vostra? Ponno avere i geniti
Più di un padre, messere?
Luca.   Son io l’unico
Tuo genitore.
Caterina.   Non è dunque Ermofilo?
Luca. No, la nutrice disvelò il misterio,
Onde per suo fe’ lo mio sangue credere.
Caterina. Ma egli dice e sostiene all’incontrario.
Luca. Chi?
Caterina.   Ermofilo.
Luca.   Se in Roma è già cadavere.
Caterina. Egli è vivo, è in Milano, e vicin trovasi
Dove noi siamo.
Luca.   Il mio cugino Ermofilo?
Caterina. Maisì, messere.
Placida.   La cosa è bellissima7.

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Luca. Dov’è?

Caterina.   Là dentro.
Luca.   Fa che il vegga.
Caterina.   Or chiamolo.

SCENA IX.

Messer Luca, Placida.

Luca. Son fuor di me.

Placida.   Che sia tornato a nascere?
Luca. Di sua morte le fedi mi spedirono
Autenticate.
Placida.   Seppellir s’intesero
Degli altri vivi, che di tomba uscirono.

SCENA ULTIMA.

Messer Luca, Placida, Caterina, Orazio, Quaglia.

Luca. Orazio qui con Caterina? Perfidi,

Qual tradimento? Se’ tu quel che usurpasi
Di mio cugino, e di suo padre il titolo?
Orazio. A me volgete l’ire vostre e i termini
Caldi, pungenti, che a me sol si devono.
Amor m’indusse con inganno e insidie
Tentar il cuor della fanciulla amabile.
E cotestui che qua mirate, a fingere
Di padre il nome fu in mio pro sollecito.
Quaglia. Vostro buon servitor Quaglia umilissimo.
Placida. Aggiunger puoi: schiuma de’ tristi e bindoli.
Luca. Ahimè! nel giorno che la figlia eredito,
Prima d’altri la veggo, che mia propria?
Orazio. Vostra sempre sarà, se a me concedere
Non isdegnate il titolo di genero.
S’ella voi qual suo padre inchina e venera,
V’amo e rispetto anch’io qual padre e suocero.

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Quaglia. E a quel ch’è fatto, non vi è più rimedio.

Placida. Ma a te la paga si convien su gli omeri.
Luca. Figlia, non parli?
Caterina.   Sì confusa ho l’anima,
Che parlar non ardisco e gli occhi volgere
Al caro padre, che ora il ciel discopremi.
So che perdono all’error mio non merito,
Ma prostrata lo chiedo...
Luca.   Ahimè, sollevati,
Che non ho cuore in dì di sì gran giubilo
Perder affatto quel piacer che innondami,
Trovando in te la cara figlia ed unica.
In faccia mia, se nol facesti, sposati
A Orazio pur. Va’ tu, impostor, falsario,
Lungi dalle mie porte; e il ciel ringrazia,
Che alla mia pace di pensar sol medito.
E voi, cortesi spettatori, andatene
Contenti e lieti, qual contento è l’animo
Della Pupilla, che gioisce e gongola
Fra un padre amante ed uno sposo amabile.

Fine della Commedia.

Note

  1. Ed. Sa violi: d’essere entrati liberi - Senza ottener pria la licenza...., ed. Zatta: d’essere entrati liberi. - Senza prima ottenerne la licenzia.
  2. Edd. Savioli, Pasquali e Zatta: viso.
  3. Ed. Zatta: un asino, - Un vil servaccio ecc.
  4. Ed. Zatta: di poter essere.
  5. Ed. Zatta: Ciò vuol dir che Orazio.
  6. Ed. Zatta: E che mi narri?
  7. Ed. Zatta: «Maisì, messer. Plac. La cosa affè è bellissima».