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LA PUPILLA 239

SCENA II.

Caterina, Orazio, Quaglia.

Caterina. (Chi è cotestui, ch’i’ nol conosco? Oh misera!

Orazio è seco!)
Quaglia.   Caterina, arrestati.
Caterina. Chi siete voi, che mi conosce e nomina?
Quaglia. Non mi ravvisi? Non è forse un secolo
Ch’io da te manco. La sparuta e squallida
Faccia, di lungo mal verace indizio,
E le languide membra, e questa candida
Barba ti asconde all’amoroso ciglio
Del tuo buon padre la verace immagine?
Caterina. Aita, aita, oimè! deh soccorretemi.
Sento svenirmi. Vattene, o bell’anima,
Al tuo riposo, ch’io dolente e prefica
Pregherò il cielo che ti doni requie.
Orazio. Fatevi cuor, larva non è o fantasima
Quel che vi parla.
Caterina.   Se non è lo spirito
Del padre mio, esser chi può che usurpisi
Il nome suo?
Quaglia.   Il padre tuo medesimo.
Caterina. Se morto è in Roma l’infelice, e piangolo
Che son de’ mesi.
Quaglia.   Fu falsa notizia
Quella che giunse di mia morte; accostati,
Figlia diletta.
Caterina.   No, messer; non veggovi
Segno verun, che i detti vostri accrediti.
Quaglia. Febbre mi ha reso qual mi vedi gracile,
E il sangue sparso e le affannose angustie
D’un malor tetro, doloroso e cronico,
Fammi parere agli occhi altrui cadavere.
Sino la figlia mia niega di accogliere