La tirannia del monellaccio, io muoiomi
Senza vederti, e pochi mesi passano
Che tu sei morta, o almen sparuta e tisica.
Le belle rose che le guance infiorano,
Ve’ come andran miseramente a perdersi;
E quel bel seno1 che felice un giovane
Render potrebbe, caderà del ragnolo
Mosca ingannata nei tessuti circoli.
Orazio. (Dove s’intese mai maggior rettorica?)
Caterina. Se il ciel vi manda i miei certi pericoli
A riparar, deh le ragion vi vagliano
Di padre in faccia del tutor medesimo.
Quaglia. E dovrò dunque da colui dipendere
Per dispor di mia figlia? S’io presentoti
Di mia mano uno sposo, avrai nell’animo
Repugnanza a gradirlo ed a riceverlo?
Caterina. Al voler vostro rassegnata ed umile,
Messer, mi avrete, ma però desidero
Che lo sappia il tutor, per non commettere
Un atto di dispregio, una mal’opera.
Orazio. (La virtù è sempre bella, ancor che incomoda).
Quaglia. Tu vuoi che il padre in una lite immergasi,
E a piatir abbia con un vecchio acerrimo
Che ti possiede, e che faratti perdere
Il miglior tempo e la salute e l’anima.
Caterina. Misera! che farò?
Quaglia. Figlia, risolviti.
Alla ragion del padre quella uniscasi
Dello sposo, e frattanto che si disputa
Della roba, di cui conto dee rendere.
Va’ a goder la tua pace e fuor dei strepiti.
Mira costui che ti ama e ti desidera,
Mira quegli occhi che dolcezza ispirano;
- ↑ Edd. Savioli, Pasquali e Zatta: viso.