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238 ATTO QUINTO
Nè amante mai vergognosetto e timido

Vincerà di fortuna i duri ostacoli,
Se non cambia in ardire il timor panico.
Orazio. Sai se in Pavia, dove più che allo studio
Badai a cento frascherie ridicole,
Fui negl’incontri coraggioso o pavido.
Ma la temenza che ora intorno i’ sentomi,
Vien dall’amor che ho di costei, che merita
Essere amata, e dispiacerle io dubito.
Quaglia. Ma, se si tenta, la speranza invitavi;
Se si trascura, l’amor vostro è inutile.
Orazio. Tentisi dunque, e il tuo disegno adempiasi.
Quaglia. Andiamo tosto...
Orazio.   Ma se ci discoprono
I servi, o pure se il padrone avvedesi
Del nostro inganno?
Quaglia.   Per ciascuno, io replico,
Ho la ricetta, ho l’elisire e il farmaco.
La porta aperta che trovammo, è un’ottima
Scusa per noi d’essere entrati liberamente,
senza ottener pria la licenzia....1
Ma affè, vien gente. Tanto si rimescola
L’acqua nel lezzo, che alla fin s'intorbida.
Orazio. Vedi chi è questa?
Quaglia.   Oh via, che il fato provvido
Ci fa cascar sui maccheroni il cacio.
Con Caterina favellar lasciatemi
A modo mio, basta che mi secondino
Poche parole vostre.
Orazio.   Ah, che in veggendola
Sento raccapricciarmi.
Quaglia.   State al pìuolo.

  1. Ed. Sa violi: d’essere entrati liberi - Senza ottener pria la licenza...., ed. Zatta: d’essere entrati liberi. - Senza prima ottenerne la licenzia.