La pupilla/Nota storica
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NOTA STORICA.
Come si legge nella lettera di dedica e nell’avvertenza ai lettori, questa commedia fu scritta dal Goldoni nel 1756, ma fu pubblicata per le stampe solamente nel 1757. Per compiere il promesso tomo decimo dell’edizione fiorentina, senza ricorrere alle nuove opere composte per il teatro di S. Luca, l’autore dovette rimaneggiare certi suoi vecchi scenari, di cui distese per intero il dialogo (v. l’Uomo di mondo, il Prodigo, la Bancarotta e Frappatore nei voll. I e II della presente ed.). Altri soggetti ancora teneva in disparte (v. pref. della Donna vendicativa, vol. IX) ma preferì creare una commedia tutta nuova, la Pupilla, e volle scriverla per un curioso capriccio in versi endecasillabi sdruccioli (v. anche Mémoires, II, ch. XLV), sullo stile delle commedie classiche del Cinquecento, affidandola ai torchi, per eccezione, e non al palcoscenico.
Si capisce come il Goldoni fosse stanco di martelliani, di Persiani e anche di callette veneziane; e come per un istante, tuffandosi nei ricordi d’antiche letture, amasse sbizzarrire la sua musa facilona. Ciò che ad altri sarebbe riuscito sforzo faticoso, fu per lui un gioco. Si acconciò bellamente alle più severe leggi delle unità, trattò con disinvoltura scherzosa il noioso metro, si appropriò dai vecchi scrittori qualche forma arcaica di lingua e alcuni temi teatrali disusati, abolì ogni didascalia, ogni superfluo. - Insomma, nient’altro volle essere la Pupilla che una specie di travestimento carnevalesco, sotto il quale il Settecento si riconosce benissimo e il sorriso di Goldoni traspare.
Il Goldoni, e lo diceva chiaramente al pubblico nel 1750, nel Teatro comico (edd. Bettinelli Paperini v. vol. IV della presente ed., p. 68, n. 1) non amava le commedie in versi. Tre anni dopo osò ripeterlo, pure pubblicamente, al venerando marchese Scipione Maffei, all’autore delle Cerimonie (1728) e del Raguet (1747), nella dedica del Moliere (v. vol. VII p. 14) Anzi fin dal 1732, ragionando a Vicenza con Parmenione Trissino sulla fallita riforma del grande Veronese, dovette incolpare, fra l’altro, l’abolizione prematura delle maschere e il verso endecasillabo (preff.i Pasquali, v. vol. I, p. 69) È vero che più tardi, nel 1759, scrivendo da Roma a S. E. Vendramin, attribuiva la mala fortuna delle Cerimonie alla seccaggine della commedia stessa, non già quella del verso. «Si può sperare buon esito di una Commedia in prosa, lo stesso si dee sperare del verso sdrucciolo, che somiglia alla prosa, e dà grazia maggiore al periodo e ai pensieri». Egli aveva confuso la recita delle Cerimonie nel 1728 con la nota recita della Scolastica nell’anno comico 1715, sullo stesso teatro di S. Luca a Venezia; ma correggendosi poi, e replicando al Vendramin, insisteva nel medesimo concetto (C. G. e il teatro di S. Luca ecc. per cura di D. Mantovani, Milano, 1885, pp. 139-40 e 142), per difendere la scelta del metro nella Scuola di ballo, cioe l’endecasillabo piano, ch’egli aveva ripetuto dal Maffei e dal Trissino.
In fatti l’Ariosto e il Trissino erano stati i due modelli di versificazione per quanti nella prima metà del Settecento avevano voluto imporre anche alla commèdia la veste poetica: seguirono il primo P. J. Martello (Che bei pazzi! 1715) e il march. Obizzi (la Cabala 1741); il secondo Scip. Maffei, Vinc. Martinelli (Filizio medico 1729), Luisa Bergalli (vers. di Terenzio 1727-31, Avventure del poeta 1730), G. Baruffaldi (il Poeta 1734) e Becelli (1740 e seguenti). Il marchese Gorini Corio ( 1729 e seguenti) frammise agli endecasillabi qualche settenario. Quanto al Goldoni, si può dire che niente lasciò d’intentato nella fecondissima sua opera teatrale, sia per l’indole un po’ volubile, sia per la necessità di dover variare materia e di trasformarsi presso il pubblico del Settecento, sempre avido di novità. Di qui certe contraddizioni sue è dei suoi rivali, il Chiari e il Gozzi.
Un tutore che vuol sposare la propria pupilla, e resta deluso: ecco un tema assai vecchio, famoso in Francia dopo Molière (École des maris 1661), dopo Dancourt (Tuteur 1695), dopo Regnard (Folies amoureuses 1704) e carissimo anche al nostro teatro per musica; tema disprezzato dal Goldoni nel 1752 (v. il Tutore virtuoso nel voi. VII: non so che fosse il Tutore del barcaiolo Ant. Bianchi recitato, pare, nel 1751), accolto invece qualche decennio prima dal Fagiuoli (Ciapo tutore). — Fin dall’autunno del ’34 il giovane Dottor veneziano aveva riso di un tutore innamorato in un intermezzo che porta il titolo medesimo della presente commedia, la Pupilla (v. Edg. Maddalena, a p. 415 del voi. VII), come una commediola del Fagan, recitata con plauso a Parigi nel giugno di quello stesso anno, da madamigella Gaussin. Ma questa volta il Goldoni, per consolare più presto messer Luca, fa sopraggiungere una nutrice e intervenire un riconoscimento, sì che l’«amoroso fomite» del vecchio si muta in lieto affetto paterno. Del resto nè il tutore è qui un rustego, nè Caterina una scaltra, o una sconoscente, anzi l’ingenuità della fanciulla (rammenta il Lùder l’Ecole des femmes di Molière: v. C. G. in seinem Verhaltnis zu Molière, Oppeln, 1883, pp. 43-44) getta un barlume d’arte in questa breve commedia, di noiosa lettura. Quaglia invece, sotto l’appellativo di «scroccone», appartiene alla interminabile famiglia dei servi astuti (privo di comicità sembra a R. Schmidbauer, Das Komische bei G., Monaco, 1906, p. 138); la serva Placida, maestra d’amore in stile modesto, allorquando lusingasi di cambiar stato e crede confortare l’abbandonato Panfilo, ci richiama vagamente, fra i ricordi non lontani, alla Serpilla nella Cabala dell’Obizzi, dove pure s’incontra un tutore che cerca di far sua la pupilla. Non scopro invece imitazioni dalla Carlotta dell’Amenta, nè parmi esista affinità vera e propria fra le due commedie (come afferma il Landau, Geschichte der italienischen Litteratur im 18 Jahrhundert, Berlino, 1899, p. 422).
In Italia ben pochi si curarono di questa Pupilla; nessuno poi, che io sappia, avverti il merito suo principale, di essere cioè fra tutte le composizioni non dialettali del Veneziano quella più immune da improprietà e impurità di linguaggio (v. Mémoires, Le: «Je me suis rapproché un peu plus des Ecrivains du bon siècle»). Che importa? Ci pare anzi che il Goldoni si burli un poco di noi, come l’Amenta, come il Maffei, come il Baruffaldi, come il Rota nel teatro letterario nel Settecento, e voglia ricoprire d’una falsa veste luccicante la povertà dei personaggi.
Vero è che l’autore fu costretto a confessare nelle Memorie, che la Pupilla non era stata mai rappresentata. Un bizzarro scrittore di romanzi e di gazzette, Antonio Piazza, seguace del Chiari in giovinezza, fa nel primo tomo del Teatro (Ven., 1777, I, pp. 50 sgg.) recitare contro voglia la sua Rosina nella Pupilla, ma dichiara che «i versi sdruccioli non piacevano, e la stessa commedia era una di quelle abbandonate dall’arte comica» perchè difficile a leggersi e a intendersi. — Tuttavia più tardi, dopo un’altra ben più gloriosa pupilla in Francia e in Italia (Beaumarchais, Barbier de Séville 1772; Rossini 1816), dopo il trionfo a Napoli della Scuffiara (1784) del Lorenzi, mentre si seguitava ad applaudire fra noi il Tutore e la pupilla di A. G. Iffland (m. 1814), in pieno secolo decimonono, si esumarono anche gli endecasillabi sdruccioli del Goldoni a Torino (1824: v. Costetti, La Comp. Reale Sarda, Milano, 1893, p. 48). a Milano (1828: I Teatri, giorn. dramm.co, II, pp. 605 e 644), a Venezia ( 1830: Gazzetta privilegiata, 12 genn.) e certo anche altrove. Ma la polvere ricoperse presto il freddo libretto, parto capriccioso d’imitazione letteraria. Dopo una recita sul teatro Re di Milano, nell’ottobre 1829, da parte della Compagnia Ducale di Modena, scriveva Luigi Prividali nel Censore Universale dei Teatri (n. 81): «La Pupilla è un saggio Goldoniano della commedia antica, ove l’autore più che il proprio ha voluto consultare il gusto dell’Ariosto. Merita però in essa particolare menzione il talento del signor Bon, che scrupolosamente copiando nella parte di Quaglia il vestito di quegli antichi imbroglioni di scena, ci ha ripetuto perfino quelle stesse mosse ed attitudini, come disegnate ci vengono nelle stampe».
Parrà strano, dopo quanto si è detto, che il Landau giudicasse la Pupilla fra le «migliori» composizioni del commediografo veneziano, in compagnia della Bancarotta e della Locandiera (I. e.; v. anche C. G, in Sonntags-Beilage zur Vossischen Zeitung, Berlino, 24 febbr. 1907); e che il Baumgartner ripetesse tale sentenza (Geschichte der Weltliteratur, VI, Friburgo, 191 I, p. 580). Più strano forse che anche il Rabany prendesse sul serio lo scherzo carnovalesco del Goldoni e ne traesse sì fatta conclusione: «G. voulait montrer qu’il etait, lui aussi, capable de composer des pieces savantes, a la manière des classiques du XVIe siècle.... Cet effort de G. vers le styl noble n’est pas heureux et montre que la n’était pas sa veritable voie» (C. G. ecc., Parigi, 1896, pp. 341-2). Non bisogna invece far colpa al candido Schedoni, se trovò immorali al tempo suo l’innamoramento di messer Luca e le menzogne di Quaglia (Principii morali del teatro ecc., Modena, 1828, p. 80).
La N. D. Cornelia Barbaro Gotti, a cui è dedicata la commedia, nacque a Venezia nel 1719 da Bernardo Barbaro (n. 1687; fu podestà di Portogruaro e di Murano), lepido poeta vernacolo ricordato ne’ suoi canti dal Frugoni, e da Elisabetta Lucchini (sposa nel 1715). Ebbe a sorella Michiela, sposa nel ’49 di Alvise Bembo, e a fratelli, ma d’altra madre non nobile, e però esclusi dal libro d’oro, il cavalier Marco e il mordace abate Angelo Maria (n. a Portogruaro 1726, m. 1779) detto il sordo, notissimo autore di versi satirico-politici e di scherzi indecenti; amico, se non amante, della procuratoressa Caterina Dolfin Tron (v. Malamani, Il Settecento a Ven., Torino, 1891, I, pp. 9-12 e 1 32 sgg.); uomo «bisbetico e stizzoso» a detta del Gamba (Serie degli scritti impressi in dialetto venez., Ven., 1832, p. 164; v. anche R. Barbiera, Poesie venez. scelte, Firenze, 1886 e altri moltissimi). — In età giovanissima, nel 1736, fu unita in matrimonio al patrizio Gio. Ant. Gritti, più vecchio di lei (n. 1702 M. V.; m. 1767) e n’ebbe tre figli maschi, Domenico (n. 1736, Camerlengo a Brescia nel 1781; Provveditore in Asolo nel ’93 e a Orzinuovi nel ’95); Francesco (n. 1740, m. 1811; sedette a lungo nella Quarantia Criminale) famoso poeta degli apologhi veneziani; e Camillo Bernardino (n. 1745, m. 1820; sposo nel ’67 a Cecilia Semitecolo, Provveditore a Prevesa nel 1733, Podestà a Vicenza 1786-88, poi Senatore e Avogador di Comun) noto per gli amori con Elisabetta Caminer Turra, ma più per l’ode della Magistratura che a lui intitolò il Panni.
Pochi mesi dopo la dedica della Pupilla, improvvisamente era tratto in carcere il marito di Cornelia all’isola di S. Spinto «stante la di lui molto depravata condotta», come raccontano i Notatorj inediti del Gradenigo presso il Museo Correr di Venezia (alla data 25 sert. 1757), e fu indi mandato nella fortezza del Cattaro, donde non uscì più; e i figli venivano rimessi nel Seminario dei Nobili alla Giudecca. Il turpe mistero ci è rivelato dalle Memorie del Casanova. Il celebre avventuriere aveva conosciuto qualche anno prima a Venezia un tristissimo figuro, di nascita milanese, chiamato don Ant. Croce. «Un noble vénitien, noble de naissance et fort ignoble d’habitudes, un nommé Sgombro, de la famille Gritti, en devint amoureux, et Croce, soit plaisanterie, soit goùt, ne lui fut pas cruel». Divulgatosi lo scandalo, il governo intimò al Croce lo sfratto, ma «peu de temps après, l’infame Sgombro séduisit ses deux fils encore jeunes, et, malheureusement pour lui, il mit le plus jeune dans la necessità d’avoir recours au chirurgien. L’infamie devint publique, et le pauvre enfant confessa qu il n’avait pas eu le courage de désobéir a l’auteur de ses jours». Di qui, se non vi è esagerazione nel racconto, la condanna del mostro libidinoso. «Ce Sgombro», aggiunge poi il Casanova, «avait une femme charmante qui, je crois, vit encore. Cette femme, nommee Cornelie Gritti, aussi célèbre par le charme de sa figure que par ceux de son esprit, a conserve sa beauté malgré les ans. Devenue maitresse d’elle-mème par la mort de son indigne époux, elle se donna bien de garde de convoler a d’autres noces; elle chérissait trop son indépendance: mais, comme elle n’était pas insensible au plaisir, elle agrèa l’hommage des amants qu’elle trouva de son goùt» (Mémoires, Paris, Garnier, II, 489-490).
La bella Sgombra (così la chiama il confidente Medri in una sua riferta dell’11 genn. 1757) che restò vedova nel 1767 (v. Fasti dell’illustre famiglia Gritti, Ven. 1878; ma secondo Casanova nel 1758), era stata iniziata all’arte della poesia e degli amori dall’abate Frugoni, e per molti anni riscaldò la musa senile, se non il cuore, del buon Comante, che a quando a quando abbandonava le pastorelle del Taro, per rivedere e ricantare sulle lagune veneziane la infedele Aurisbe (o anche Eurisbe) Tarsense, com’era detta in Arcadia (v. Em. Bertana, Intorno al Frugoni, in Giorn. Stor. d. lett. it., 1894, f.° 3; e Abd. Salza, La Lirica ecc., in corso di stampa, Milano, Vallardi, pp. 221-3). Forse in grazia di lei, il Goldoni dedicava all’abate, nella primavera del 1758, dopo di averlo conosciuto alla Corte dei Borboni, il Cavalier Giocondo (v. vol. XII). Ma delle gelosie, non si sa bene se d’arte o d’amore, del principe dei lirici italiani di quel tempo per il grande commediografo, che cessarono solo nel ’62, quando il G. andò in Francia (v. Mém., II, e. XLVI) parlò da tempo argutamente Achille Neri (Comante, Aurisbe e Polisseno Fegejo, in Fanfulla della domen., 1882, n. 25 e in Aneddoti gold.i Ancona 1883). Men nota è invece la passione, sincera o esagerata, dell’abate Chiari, che della Barbaro Gritti, nascosta sotto il nome di Eurilla, cantò gli insidiosi incanti (G. Ortolani, Settecento in corso di stampa, pp. 205-213; e C. G. nella vita e nell’arte, Ven., 1907, cap. XV). Fra gli illustri amici, d’Italia e fuori, che affollavano il salotto della spiritosa gentildonna, conviene ricordare almeno l’Algarotti, il Vicini, il Bettinelli, e forse Carlo Gozzi. Anzi fino ai tardi anni godette ella gli omaggi del Willi e del Pagnini (v. per quest’ultimo l’art, del Procacci, in Fanf. della dom., 1886, n. 9).
Alcune strofette veneziane della «vezzosa Aurisbe», in lode del senatore Daniel Renier, riferì il Goldoni nella dedica all’eccellentissimo patrizio del Raggiratore, che uscì nel gennaio 1758 (v. vol. XIII della presente ed.). Rime scherzose scambiò la vecchia poetessa col segretario Franc. Hiarca (detto anche per gioco Liarca) a cui aveva dedicato il commediografo nostro fin dal 1751 il Padre di famiglia (v. vol. III): specialmente dopo la morte del fratello Angelo Maria, amicissimo del galante circospetto (v. cod. 348 Misc.ee Correr, presso il Museo Civico di Venezia). Rime a stampa additò pure il Ferri (nella sua Bibliografia femminile ital. ecc., Padova, 1842, p. 38). Famoso il sonetto Non mente no il cristal. Mi albeggia il crine ecc., riferito anche dal Neri citato sopra. Fino in tarda età conservò Cornelia la bellezza; e morì, carica d’anni, nel 1808. La ricordarono con lode, fra gli altri, l’ab. Moschini (Letteratura venez., Ven., 1808, t. II, 146 e IV, 121) l’ab. Meneghelli nella biografia di Franc. Gritti (premessa alle Poesie in dial. venez. dello stesso, Ven., 1824, p. I) e Ginevra Canonici Facchini (nel Prospetto biograf. delle donne ital., Ven., 1824, p. 191: cenno per mano di B. Gamba).
G. O.
La Pupilla uscì la prima volta nella primavera del 1757 a Firenze, nel t. X dell’ed. Paperini, e fu subito ristampata a Venezia dal Bettinelli (t. IX), a Pesaro (Gavelli X), a Bologna (Corciolani XIII). Fu ristampata più tardi a Torino (Fantino-Olzati XII, ’58; Guibert-Orgeas XI, ’73), a Venezia ancora (Savioli V, 71 e IX, ’75; Pasquali XVII, 78-79; Zatta, cl. 3.a IX, ’93), a Lucca (Bonsignori XX, ’90) a Livorno (Masi XXX, ’93) e forse altrove nel Settecento. — La presente ristampa seguì specialmente il testo più fedele del Paperini. Valgono le solite avvertenze.