Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Panfilo, Placida.

Panfilo. Ella è così, come ti narro, e aspettati

La parte tua da messer Luca in collera
Contro te, contro me, che in irascibile
Si è in lui converso l’amoroso fomite.
Placida. Io compatisco da una parte il misero,
Che disse quattro pria d’averla in saccolo;
E trovando le cose all’incontrario,
Batte la sella per non batter l’asino.
Per me poco mi preme, già son prossima
A escir di cenci, e di servente il titolo
Cambierò in quello di madonna; e lascio
Che chi ha la rogna, se la gratti. Panfilo,

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Per te mi spiace che, se ben nol meriti,

Ti porto amore, ed in periglio or veggoti.
Panfilo. Eh, tu non sai, Placida mia, qual splendere
Vegga or nel buio stella lucidissima
Che mi conforta, ed a sperar conducemi.
Placida. A chi ti è fida, il tuo pensier comunica.
Panfilo. Vedesti tu quella gibbosa vecchia
Che parlò meco, e del padron va in traccia?
Placida. Sì, la vid’io.
Panfilo.   Codesta fu la balia
Che allattò il parto di messere, e dicemi
Che il parto vive al genitore incognito,
E di più disse che qui seco or abita.
Esaminando fra me stesso i termini
Di cotal donna e i casi miei preteriti,
Con fondamento mi lusingo e giudico
Esser io quel che da lui ebbe l’essere.
Placida. Se ciò fosse, perchè vorrebbe ascondere
Messer Luca nel servo il proprio figlio?
Panfilo. Esser può ch’ei nol sappia, o ancor che sappialo,
Occulti fini a me celar l’induchino.
E non sarebbe già fuor di proposito
Che quell’amor che Caterina rendegli
Cara cotanto, preferir facessegli
Al proprio sangue una fanciulla estrania.
Placida. Ve’ dove mai a ragionar conduceti
Con sì lieve principio il cuor, che facile
Crede quel che sovente a se desidera.
Se della vecchia i detti per veridici
Prender vogliamo, può cadere il dubbio
Su Caterina.
Panfilo.   Or sì, che allo sproposito
Pensi e favelli, e credo che l’invidia
Del ben ch’io spero, a delirare inducati.
Placida. Mal di me pensi.

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Panfilo.   Non è dunque pubblico

Di chi figliuola è Caterina? Inutile
È il sospettar ch’ella d’altrui sia genita,
Se padre e madre a tutto il mondo ha cogniti.
Io qui nutrito dall’età più tenera,
Non conobbi mio padre, e a ragion dubito,
Che in messer Luca di mia madre celisi
O il marito, o l’amante.
Placida.   E un cotal dubbio
Non ti avvedi che oltraggia la memoria
Della tua genitrice?
Panfilo.   E non potrebbesi
Dar che in segreto per sua moglie avessela
Presa messere?
Placida.   Perchè poi nascondere
Sì crudelmente un figliuol suo legittimo?
Panfilo. Forse per occultar l’affetto debole
Che a nozze disuguali il fe’ discendere.
Placida. Ma non ebb’ei quel figlio, di cui parlasi,
Dalla mogliera che morio sgravandosi
Di cotal parto?
Panfilo.   E non morì allor subito
Il parto istesso? Anzi con ciò si accredita
Il mio giusto sospetto. Non si allattano,
Placida, i morti; e se allattò la balia
Di messer Luca bello e vivo un bambolo,
Di’ ciò che vuoi, fuori di me non veggolo.
Placida. Tante ne dici, e così ben le accomodi,
Che anch’io principio a darti fede, e priegoti
Dal ciel, che il vero in tuo favor discoprasi.
Panfilo. Me lo dici di cor?
Placida.   Sì, caro Panfilo.
Anzi, per dirti il vero, or mi mortifico
Per la data parola; e tornar libera
Se mai potessi, e con Orazio sciogliere

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I contratti sponsali, contentissima

Sarei d’averti per consorte a scegliere.
Panfilo. Della fortuna che mi aspetto in grazia,
Non dell’amor.
Placida.   Quanto ti amai, rammentati,
E vedi se amor parla, o l’avarizia.
Panfilo. Siamo fuori del caso, e non rispondoti
Quale dovrei. Or riveder desidero
La buona vecchia, che il padron lusingomi
Avrà trovato.
N Placida.   Non è in casa?
Panfilo.   Minime.
Escì furente, e per sfogar la rabbia
Andò fuor delle porte a prender aria.
Placida. E la vecchia?
Panfilo.   E la vecchia va, e lo seguita
Per rintracciarlo.
Placida.   Ma chi sa, s’ei vogliati
Riconoscer per figlio, e colla balia
Non se l’intenda, ed a tacer non l’obblighi?
Panfilo. Ma tu, Placida mia, sei pur stucchevole;
Con tue parole d’annoiar fai studio
La sofferenza mia.
Placida.   Si vedran nascere,
Se saran fiori.
Panfilo.   A tuo piacer ne dubita.
Io son sì certo di mia nuova origine,
Che non mi cambierei con il tuo Orazio,
Nè con cent’altri più ricchi e più nobili.
E già mi aspetto che in Milan le femmine
M’abbiano intorno, per avermi, a correre,
E a tante donne che ora mi disprezzano,
Farò le fiche, e manderolle al diavolo.

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SCENA II.

Placida sola.

Se fosse ver quello di che ei lusingasi,

Certo mi pentirei d’aver sì subito
Data parola di sposare Orazio;
Che oltre lo stato ancor forse più comodo
Che avrei con esso, mi saria dolcissimo
Aver compagno chi d’amore accesemi.
Ma le belle speranze esser potrebbono
Castelli in aria, o spacciate favole.

SCENA III.

Orazio, Placida.

Orazio. Emmi permesso penetrar le soglie

Dove il mio cuore in bella spoglia annidasi?
Placida. Parmi che amor dovrebbe più sollecito
Avervi reso: color che ben amano,
Soffrono a stento di lontano vivere
Dalla sua fiamma.
Orazio.   Ma per lo contrario,
In casa d’altri i costumati temono
Esser cagione di soverchio tedio.
Se messer Luca non ha di che opponere
Al desiderio che mi sprona e accelera1,
Oggi le nozze fra di noi potrebbono
Esser concluse.
Placida.   Messere, io m’immagino,
Lascierà che da voi s’abbia a disponere
Il tempo e il loco.
Orazio.   Per me son prontissimo
Anche ora, se il vuol, la mano a porgere

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Alla mia bella.

Placida.   Il sere e i testimoni
Per far la scritta parmi vi abbisognino.
Orazio. Ci saran tutti. Stanno giù nell’andito
Aspettando un mio cenno per ascendere
Ogni un di loro il loro ufficio a compiere.
Placida. Se vi piace così, dunque chiamateli.
Orazio. Messer Luca dov’è?
Placida.   S’egli non trovasi
Presente all’atto, non importa. Ei lasciami
Sola padrona di disporre, e bastano
Il voler vostro e il voler mio a concludere.
Orazio. Tale ho di voi concetto, che vuò credere
Quel che mi dite. Gli sponsali or compiansi.
Placida. Eccomi lesta.
Orazio.   Sì, mia cara Placida,
Venga la sposa, che impaziente aspettola.
Placida. Ecco la sposa.
Orazio.   Da qual parte?
Placida. Il Oh diamine!
Non la vedete? Avete le traveggole?
Orazio. Che amor cieco mi renda sino al termine,
Che la sposa a’ miei lumi sia invisibile?
Placida. Eccomi qui, vi dico; se non bastavi
Il vedermi, il sentirmi, via toccatemi.
Orazio. Sì, vi sento, vi vedo, ma domandovi
Della sposa.
Placida.   Io chi sono?
Orazio.   Siete Placida.
Placida. E chi è la sposa?
Orazio.   Caterina amabile.
Placida. Sposa di chi la Caterina?
Orazio.   Oh, allungasi
Un po’ troppo la storia. Se mi è lecito
Caterina sposare anche in assenzia

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Del tutor suo, come da voi si assevera,

Venga ella innanzi, ed io la sposo subito;
Se aspettar mi convien, conosco il debito
Nè giova che vogliate, per far celia,
Mettermi al punto, e farmi correr risico
D’inimicarmi col tutor ch’io venero
Qual padre della sposa, e qual mio suocero.
Placida. Adagio un poco, signor mio bellissimo,
Che a quel ch’i’ veggo, no’ prendiamo i pifferi
Per le tiorbe. Chi veniste a chiedere
Per isposa al padrone?
Orazio.   Evvi ancor dubbio?
Non si sa ch’io sospiro e ch’io desidero
Caterina in isposa, e che promisela
A me il tutor?
Placida.   Gnaffe, siam bene in ordine!
Che v’intendeste allotta ch’io parlavavi
Questa mane, meschiando ai franchi i timidi
Sensi dubbiosi?
Orazio.   Di parlare intesimi
Della mia Caterina.
Placida.   (Oh il brutto equivoco!
Ma il padron parlò schietto, e ben ricordomi
Quel che mi disse). O voi siete uno stolido,
Messer Orazio, o il vostro cuor volubile
Cangiasi presto.
Orazio.   A me cotal rimprovero?
Placida. A voi, sì, a voi, che questa mane a chiedere
Me veniste in isposa, ed al medesimo
Padron lo dite, ed or mi fate il nescio,
E con un’altra far volete il cambio.
Ma non vi riuscirà, che i galantuomini
Alle promesse derogar non possono,
Ed il padron mi farà far giustizia.

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SCENA IV.

Orazio solo.

Siete in error. Ma da’ miei lumi involasi

Questa, non so s’io dica per malizia
Sciocca, o per ignoranza. So che Quaglia
Primo mi assicurò, che trovò l’animo
Di messer Luca a contentarmi facile.
Indi egli stesso colle proprie labbia
Mel confermò, poi in chiare note dissemi
Caterina, qui appunto ove ora trovomi,
Che mia stata sarebbe; ed or che sognasi
Codesta donna nel suo cor fanatica?
Quaglia dovrebbe attendermi nel viottolo
Dreto alla casa; ora al balcone affacciomi,
E se 'l veggo, lo chiamo. Quaglia, Quaglia,
Entra, salisci, e a me recati subito.
Se mai d’uopo mi fu di porre in opera
L’ingegno suo, ora in tal caso trovomi,
Che condurreimi senza desso a perdere.
Ah, lo diss’io, che mi parea difficile
Ottener sì gran ben senza gli spasimi
Che le felicità sempre accompagnano.

SCENA V.

Quaglia, Orazio.

Quaglia. Vi è burrasca nel mare, o vi è bonaccia?

Orazio. Ahi qual tempesta! ahi qual naufragio orribile
Minacciato mi viene! Ah Quaglia, ascoltami,
Cose udirai che ti faranno i brividi
Venir dal freddo....
Quaglia.   E che sì, che io mostrovi
Di saper quanto voi, quel che di stranio

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Ora vi accade?

Orazio.   Ah traditor, verrebbemi
Forse da te quel che nel sen mi macera?
Quaglia. Sospettate di me?
Orazio.   Sì, fondatissima
Ragione avrei di sospettar l’origine
In te del mal, s’io non son primo a dirtelo.
Quaglia. Mirate un po’ qual debolezza in animo
Vi lasciate cader! Se la coscienzia
Macchiata avessi, sare’ io sì stolido
Di qui venire il mio concetto a perdere,
E discoprire da me stesso l’opera,
Che se reo fossi studierei nascondere?
Oh, mala cosa è lo trattar coi giovani.
Orazio. Confesso l’error mio. Quaglia, perdonami.
Quaglia. Questa volta, e non più. Via presto ditemi
Quel che vi affligge.
Orazio.   Ah, che tem’io di perdere
Il mio ben, la mia vita. Per deludermi,
Von farmi creder che promessa Placida
Siami, e non Caterina.
Quaglia.   Il so benissimo.
Ho veduto testè l’amico Panfilo,
E col riso alle labbra: ascolta, dissemi,
La bella baia che a Orazio si medita.
Messer Luca promise a te la giovane
Chiesta in suo nome. Ora è pentito, e accordasi
Colla servente di stampar la favola,
Fingendo error nel nome della femmina,
E far che diasi il miserello al diavolo.
Orazio. Ah scellerati, non varravvi il fingere,
Che scaglierò su tutti voi le fune
D’amor schernito.
Quaglia.   Non facciamo strepito,
Se di vendetta siete vago. Al solito,

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Cani che abbaian, si suol dir, non mordono;

E quei che sanno simular le ingiurie,
Più facilmente a vendicarsi arrivano.
Orazio. Ma che farò?
Quaglia.   Quanto volete spendere?
Orazio. Il sangue istesso spenderei, se avessemi
Questo a comprare il caro bene ed unico.
Quaglia. S’io vi conduco colle man mie proprie
La vostra Caterina in fra le braccia,
Che volete voi darmi?
Orazio.   A te sta il chiedere.
Quaglia. Cento scudi.
Orazio.   Anche più.
Quaglia.   No, che mi bastano
Cento scudi, e non altro.
Orazio.   Sì, promettoli.
Quaglia. Col favor della notte che avvicinasi,
Verrò a trovarvi, e voi meco accoppiandovi...
Basta, per ora non vuò dirvi l’intimo
Del mio disegno, che potrebbe ascondersi
Alcun qua dentro, e prevenirmi. Andiancene.
Orazio. Eccomi teco, come vuoi mi regola.
Quaglia, (Ai cento scudi tende la mia bussola).
Orazio. Oh Caterina mia, se più non veggoti,
Non mi vedrai un giorno sopravvivere
Alla crudele dolorosa perdita.

Fine dell’Atto Quarto.

Note

  1. Edd. Savioli, Pasquali, Zatta e altre: lacera.