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248 ATTO QUINTO
Placida. Amar chi offende, è ben virtude insolita.

Luca. Deesi premio alle offese, allor che giovano.
Placida. Vi giova dunque della giovin l’odio?
Luca. Se mi amava ella più, sarei più misero.
Placida. Perdonate, messer, io non intendovi.
Luca. Vien Caterina. Or ti apparecchia a intendere.

SCENA VIII.

Caterina, messer Luca, Placida.

Caterina. (O tosto o tardi dee saperlo, e fidomi

Nel padre mio che colà dentro or celasi).
Luca. Vien, Caterina, vieni alle mie braccia.
Senza rossor, senza timore a stringere
Vieni tuo padre. Sì, dalle mie viscere
Figlia sei nata.
Placida.   (Che sia storia, o favola?)
Caterina. Io figlia vostra? Ponno avere i geniti
Più di un padre, messere?
Luca.   Son io l’unico
Tuo genitore.
Caterina.   Non è dunque Ermofilo?
Luca. No, la nutrice disvelò il misterio,
Onde per suo fe’ lo mio sangue credere.
Caterina. Ma egli dice e sostiene all’incontrario.
Luca. Chi?
Caterina.   Ermofilo.
Luca.   Se in Roma è già cadavere.
Caterina. Egli è vivo, è in Milano, e vicin trovasi
Dove noi siamo.
Luca.   Il mio cugino Ermofilo?
Caterina. Maisì, messere.
Placida.   La cosa è bellissima1.

  1. Ed. Zatta: «Maisì, messer. Plac. La cosa affè è bellissima».